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La libellula di Gadda

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Nel 1953 Carlo Emilio Gadda pubblicò una piccola meditazione in forma di dialogo intitolata L’egoista, in cui due personaggi, Teofilo e Crisostomo, conducono un comune discorso circa le differenze tra la psicologia dell’egoista e quella dell’egotista-narcissico (narcisistico). Il breve testo (qui) è in realtà uno pseudo-dialogo, in cui i due interlocutori non discutono: le divisioni del discorso riproducono il più delle volte una normale distribuzione in paragrafi, limitandosi in pratica a esprimere le opinioni dell’autore.

Non sono comunque le idee di Gadda sull’egoismo che mi hanno spinto a scrivere questa nota, bensì la frase che si trova a conclusione del primo intervento di Teofilo:
“Chi immagina e percepisce se medesimo come un essere «isolato» dalla totalità degli esseri porta il concetto di individualità fino al limite della negazione, lo storce fino ad annullarne il contenuto. L’io biologico ha un certo grado di realtà: ma è sotto molti riguardi apparenza, vana petizione di principio. La vita di ognun di noi pensata come fatto per sé stante, estraniato da un decorso e da una correlazione di fatti, è concetto erroneo, è figurazione gratuita. In realtà, la vita di ognun di noi è «simbiosi con l’universo». La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne. Ognuno di noi è limitato, su infinite direzioni, da una controparte dialettica: ognuno di noi è il no di infiniti sì, è il sì di infiniti no. Tra qualunque essere dello spazio metafisico e l’io individuo (io-parvenza, io-scintilla di una tensione dialettica universale) intercede un rapporto pensabile: e dunque un rapporto di fatto. Se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me”. 
La prima cosa che mi è venuta in mente è il notorio sermone di John Donne (Meditazioni, XVII), per cui nessun uomo è un’isola:
“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”. 
La frase finale dell’ingegnere, quella della libellula giapponese, ricorda tuttavia una metafora scientifico-filosofica diventata famosa molti anni dopo il 1953: la farfalla della complessità e del caos di Edward N. Lorenz. La prima comparsa della farfalla brasiliana risale alla conferenza Does the flap of a butterfly’s wings in Brazil set off a tornado in Texas?, che Lorenz tenne nel 1972. L’idea era però già presente in un articolo del 1963, dove si diceva “un meteorologo fece notare che se le teorie erano corrette, un battito delle ali di un gabbiano sarebbe stato sufficiente ad alterare il corso del clima per sempre”. Successivamente Lorenz usò la più poetica farfalla, forse ispirato dal diagramma generato dai suoi attrattori. La scelta di Gadda sembra persino migliore: una libellula, per di più giapponese, magari uscita da un haiku, indica una causa scatenante ancor più delicata di un grosso lepidottero tropicale o di un gabbiano.


Se vogliamo dirla proprio tutta, neanche Gadda è stato il primo profeta dell’effetto farfalla. Alan Turing, nel saggio Macchine calcolatrici e intelligenza (1950), aveva anticipato questo concetto:
“Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”. 
E nel breve racconto fantascientifico di Ray Bradbury Rumore di tuono (A Sound of Thunder), pubblicato nel 1952, l’uccisione accidentale di una farfalla giurassica durante un viaggio all'indietro nel tempo ha conseguenze imprevedibili sul futuro, al punto di cambiare l’esito di un’elezione presidenziale nel 2055. Che morale trarre da queste coincidenze? Forse le morali sono molte, ma, a mio parere, quando giunge il tempo perché un idea nasca e abbia successo (oppure che discenda dal suo mondo iperuranio), sono in molti ad averla, magari indipendentemente l’uno dall'altro.

Enriques e la filosofia come sintesi delle scienze

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Gli anni iniziali del Novecento videro compiersi in Italia la prima industrializzazione, e a molti intellettuali parve naturale sostenere gli studi che andavano nella direzione dello sviluppo scientifico e tecnico, dando ulteriore impulso alla nuova realtà economica, che si contrapponeva all'economia rurale, ancora largamente predominante. Il nostro paese, come al solito, si divise sul tema in due fazioni, di cui erano espressione, sul piano filosofico, da una parte il positivismo critico del matematico e filosofo Federigo Enriques (1871 – 1946) e dall'altra lo storicismo idealistico di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, quest’ultimo non ancora attualista. Enriques sosteneva che bisognasse dare più spazio nei curricula scolastici alle discipline scientifiche, ma anche alla filosofia, che doveva essere la sintesi dello studio e delle riflessioni non solo sulla storia, ma anche sulla natura, e che era stata drasticamente ridotta nei programmi. Per questo motivo aveva contribuito a fondare la Società Filosofica Italiana (SFI), proprio per difendere tale materia, che rischiava di scomparire. Di fronte a questo pericolo, egli, che riteneva fondamentale la formazione filosofica anche per gli scienziati, pensava di poter trovare l’aiuto di Croce, ma, mentre la SFI era sorta per difendere la filosofia in generale, e non una visione particolare, Croce sentiva il dovere di proteggere solamente il proprio pensiero dal potere della scienza, di cui non aveva una grande opinione come fattore di conoscenza e crescita per l’uomo.


L’importanza del sistema scolastico era una costante del pensiero di Enriques, che alla formazione dei docenti di matematica e alla didattica della materia si era dedicato fin dal 1902, quando iniziò a pubblicare per Zanichelli (che contribuì a fondare) una fortunata serie di manuali, scritti assieme a Ugo Amaldi, per i vari ordini scolastici. L’attività filosofica di Enriques aveva invece avuto inizio con il saggio Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria (1901), in cui indicava le origini della propria riflessione epistemologica nella ricerca geometrica dei modelli complessi di superfici algebriche, discutendo i problemi filosofici legati alla scoperta delle varietà di spazio non euclidee.

Enriques aveva proseguito il suo impegno filosofico nel 1906, quando non solo diede alle stampe i Problemi della scienza, un volume di oltre cinquecento pagine, frutto di quindici anni di ricerche sulla natura della conoscenza matematica e scientifica, ma intervenne anche al primo Convegno della SFI con la relazione L’ordinamento delle università in rapporto alla filosofia. I due testi, tra loro diversi, rappresentavano la duplice attività svolta dal matematico: l’una più filosofica e l’altra concretamente impegnata nella riforma della scuola media e dell’università.

Il primo convegno della SFI, organizzato a Milano il 20 e 21 settembre 1906, si occupò soprattutto di politica scolastica e di cultura generale, tra cui la riforma dell’insegnamento della filosofia nei licei e la riforma universitaria.

Enriques si fece il portavoce di un’esigenza diffusa tra i docenti delle facoltà scientifiche, che puntava a una riforma universitaria in linea con lo sviluppo del pensiero filosofico dell’epoca. Fin dalla sua fondazione, sosteneva Enriques, l’Università italiana soffriva dell’estrema specializzazione degli insegnamenti, che si manifestava. nella netta separazione delle Facoltà e nella moltiplicazione delle cattedre.

La separazione delle facoltà aveva avuto come effetto secondario l’irrigidimento dei piani di studio, obbligando gli studenti a seguire percorsi predefiniti, che rispondevano soprattutto a logiche accademiche, senza tener conto della nuova realtà economica e sociale, che richiedeva professionalità più articolate e complesse.

L'errore più grave commesso dal legislatore era tuttavia stato quello di considerare la filosofia una disciplina complementare del curricolo storico-letterario e separata dalle scienze matematiche e naturali, che invece erano state le matrici del pensiero moderno.

Per il matematico livornese, questo limite derivava anche dall'esclusiva concentrazione della produzione intellettuale all'interno dell’Università, mentre dalla società civile italiana, arretrata rispetto ad altri paesi, non giungevano né stimoli né voci critiche. Così l’apertura della SFI ai professori di liceo, ai cultori della materia e alla società civile, aveva proprio lo scopo di fare uscire tale disciplina dal ristretto ambito accademico, per promuovere, anche nei biasimati (da Croce) “circoli dilettanteschi”, il pensiero critico, attivo e consapevole, che nel giovane stato italiano mancava quasi del tutto, anche a causa delle altissime percentuali di analfabetismo.

Per Enriques, la filosofia doveva aprirsi alle questioni generali sollevate dalle scienze particolari, che rappresentavano un momento propedeutico rispetto alla fondamentale comprensione dei problemi e degli scopi ultimi della conoscenza. La filosofia maggiormente praticata nelle università italiane era invece, secondo Enriques, essenzialmente discussione astratta, spesso condotta in maniera vaga e oscura, senza un rigoroso metodo e con la pretesa di essere una scienza superiore.

Dopo il convegno di Milano, Enriques dedicò molti sforzi a cercare di promuovere il confronto tra la filosofia e gli altri saperi; per questo nel 1907 fondò a Bologna con altri studiosi la rivista Scientia, Organo internazionale di sintesi scientifica (dal 1911 semplicemente Scientia), che mirava a promuovere una filosofia libera da legami diretti coi sistemi tradizionali e ad affermare un apprezzamento più largo dei problemi della scienza (si pubblicavano articoli in italiano, inglese, francese e tedesco, con l’invito agli autori di evitare gli eccessivi tecnicismi). Nel programma della rivista si leggeva, nello stile dell’epoca:
«L’organamento attuale della produzione scientifica trae la propria fisionomia dal fatto che i rapporti reali vengono circoscritti entro discipline diverse, le quali ognora più si disgiungono secondo gli oggetti a secondo i metodi di ricerca. I risultati di codesto sviluppo analitico della scienza furono celebrati fino a ieri come incondizionato progresso, imperocchè la tecnica differenziata e l’approfondita preparazione di coloro che coltivano un ordine di studi ben definito, recano in ogni campo del sapere acquisti importanti e sicuri. Ma a tali vantaggi si contrappongono altre esigenze che il particolarismo scientifico lascia insoddisfatte, ed alle quali si volge con maggiore intensità il pubblico contemporaneo».

Il primo convegno della SFI, organizzato a Milano il 20 e 21 settembre 1906, ebbe al centro questioni di politica scolastica e di cultura generale, tra cui la riforma dell’insegnamento della filosofia nei licei e, soprattutto, la riforma universitaria.

Per Enriques lo spazio ed il ruolo della filosofia andavano visti come «sintesi» delle conoscenze scientifiche e non come autonoma speculazione, indipendente da ogni acquisizione scientifica. L’idealismo di Croce e Gentile contestava alle scienze il loro particolarismo e la loro astrattezza, mentre l’atteggiamento filosofico di Enriques, consapevole tanto dei limiti quanto della forza delle scienze, era volto decisamente a cercare una riunificazione sintetica dei saperi.

L’importanza dell’impresa di Scientia, diretta da Enriques fino al 1913, fu percepita a fondo proprio da Benedetto Croce e Giovanni Gentile, che reagirono in modo aggressivo. Gentile scrisse su la “Critica”, la rivista filosofica che con Croce aveva fondato nel 1903, che Enriques e i suoi:
“volendosi orientare nella scienza cercano il centro, per dirla con Bruno, discorrendo. e per la circonferenza. E però é naturale cerchino e non trovino nulla; e facendo la filosofia scientifica, non si scontrino mai con la filosofia”.

Croce, nel 1908, in Il risveglio filosofico e la cultura italiana, rispose ad Enriques, liquidando in modo perentorio («antifilosofico» secondo il matematico) la proposta di considerare la scienza come fondamentale nelle problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei filosofi idealisti, come lui stesso. Per gli scienziati non ebbe riguardo:
«Gli uomini di scienza […] sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico”.
Sempre nel 1908, Enriques riprese alcune delle critiche rivolte al sistema universitario italiano contenute nella relazione al I convegno della SFI e le approfondì in maniera sistematica. Enriques sosteneva che negli ultimi cinquant'anni l’università italiana aveva avuto un grande sviluppo, ma guardare ai successi del passato non era più sufficiente; per garantire successi futuri bisognava tenere in considerazione le necessità del presente, soprattutto se si voleva che l’Italia fosse in grado di reggere il confronto con gli altri paesi europei e mantenere quel ruolo di centralità e di prestigio che la tradizione rinascimentale le aveva assegnato.

Completamente inadeguato rispetto alla nuova produzione scientifica mondiale, che metteva in relazione tutti i saperi, il sistema universitario italiano separava i diversi rami della scienza producendo una ricerca astratta e sterile. Inoltre
“Ora tutte queste deficienze ed angustie si rispecchiano direttamente nell’insegnamento medio, anche a prescindere dal fatto che non si provveda adeguatamente ad una preparazione pedagogica dei futuri docenti. Le esagerazioni del rigore – sotto forma di minuzie e di pedanterie senza scopo – […] sono in correlazione diretta colle condizioni della preparazione universitaria dei docenti delle scuole medie”.
Ancora una volta Enriques insisteva sulla formazione dei docenti della scuola media. Una delle questioni più dibattute a livello scientifico e politico era infatti quella dell’innalzamento della qualità della scuola, legato strettamente alla preparazione dei suoi insegnanti, perché avessero non solo una specifica formazione pedagogica, ma anche una migliore preparazione generale. Non si sarebbero potuti avere insegnanti migliori senza una università migliore, e quindi senza docenti universitari migliori.


Alla luce di questa analisi, Enriques riprese la proposta avanzata nella relazione presentata al primo convegno della SFI e propose di unificare le Facoltà di Scienze e di Lettere, il che avrebbe significato il naturale ritorno alla tradizione italiana. Tutti gli insegnamenti teorici, come la fisiologia, la storia, l’economia e il diritto, avrebbero dovuto essere compresi nella nuova Facoltà Filosofica, lasciando all’esterno solo il Politecnico per gli ingegneri, il Policlinico per i medici e le Scuole normali di Magistero per gli insegnanti. La Facoltà Filosofica doveva inoltre godere di ampia autonomia, e, tranne un piccolo numero di insegnamenti fissi, avrebbe potuto attivare anche insegnamenti variabili, rispondenti a precise finalità scientifiche e pratiche.

All’autonomia scientifica e didattica delle Università e alla libertà d’insegnamento doveva corrispondere la libertà degli studi; libertà piena in campo scientifico, opportunamente condizionata riguardo alle professioni. La laurea era sancita da un esame complessivo. finale, cui si accedeva dopo aver frequentato un certo numero di corsi, scelti liberamente dallo studente. In linea generale doveva essere fissato solamente il numero minimo dei corsi; la Facoltà avrebbe poi accertato la serietà del programma seguito e, se del caso, prescritto integrazioni agli studi.

Oltre alla laurea potevano essere attivati altri diplomi o titoli, aventi valore solamente scientifico, non di abilitazione alle professioni o ai pubblici uffici. L’abilitazione alle professioni e l’ammissione ai pubblici uffici andavano conseguite mediante esami di Stato.

Consapevole delle opposizioni che la proposta avrebbe sollevato e degli interessi di parte con cui sarebbe entrata in conflitto, Enriques difese fermamente questo modello verso cui la riforma doveva tendere.

Di fronte alle critiche apodittiche e stizzite di Croce e Gentile alle sue posizioni filosofiche, Enriques reagì esprimendo la sua critica all’idealismo durante il III Congresso della SFI, tenutosi a Roma nell’ottobre del 1909. In quell’occasione egli aveva invitato gli hegeliani a prendere atto della totale inadeguatezza del loro sistema filosofico di fronte alla mutata società contemporanea, perché troppo astratto e. incapace di aprirsi al confronto con il mondo esterno. Nei giorni seguenti ribadì la propria convinzione che la filosofia moderna non potesse non essere che scientifica, e che un’intuizione unificata della vita doveva necessariamente contenere non solo la filosofia della storia, ma anche quella della natura.

Queste acute divergenze non impedirono che a Croce fosse offerto un importante ruolo nel IV Congresso Internazionale di Filosofia, organizzato a Bologna dal matematico livornese, evento nel quale Enriques era riuscito a coinvolgere grandi filosofi e scienziati di tutta Europa e che avrebbe potuto dare ulteriore impulso all’azione di riforma della scuola e dell’università.

Si arrivò al Congresso bolognese dell’aprile del 1911, che. segnò una data storica, anche se poco conosciuta dai non addetti ai lavori, per la cultura italiana del Novecento. La contesa che ne seguì fu il punto culminante di una reciproca antipatia professionale tra i due intellettuali, che riguardava non solo le loro idee, ma anche i loro differenti progetti per la riforma del sistema educativo. I toni aspri di entrambi fanno pensare non tanto a una classica disputa filosofica, ma a una vera e propria lotta politica.

Nel Congresso bolognese a Croce era stata affidata la presidenza della sezione di Estetica. Ciò nonostante, egli non mancò di polemizzare con gli organizzatori (cioè Enriques) per il taglio troppo scientifico dato all’evento. Nell’intervista rilasciata a Guido De Ruggiero sul treno che lo riportava da Bologna a Napoli, e apparsa sul «Giornale d’Italia» del 16 aprile 1911, Croce stigmatizzò il “volenteroso Professor Enriques, che con zelo ma scarsa preparazione si diletta di filosofia:” si trattava di un attacco personale, volto non tanto a criticare l’orientamento filosofico dell’avversario, quanto a screditarlo. La polemica proseguì sul quotidiano e fuori delle sue colonne. Enriques vergò in risposta un articolo dal titolo provocatorio Esiste un sistema filosofico di Benedetto Croce?, nel quale prendeva di mira diverse parti del pensiero crociano, e muoveva al filosofo critiche sostanziali che andavano ben oltre il piano strettamente filosofico.
“L’opera filosofica di Benedetto Croce offre questo esempio paradossale. Se ne fa rumore quotidianamente nei giornali politici accennando qualcosa di alto e di inaccessibile ai profani, se ne lodano i meriti da qualche fautore appassionato, che mira non tanto ad esaltare le dottrine quanto la personalità dell’artefice; e viceversa – a prescindere da critiche frammentarie – quest’opera non è stata giudicata, non ha dato luogo ad un esame approfondito o ad un vero dibattito d’idee. […] Ora la prima ricerca da fare per chi voglia fermare un giudizio su questi libri, è di vedere quale sia per l’A. il concetto della filosofia e quale senso positivo riceva per lui la costruzione d’un sistema. Ma questa ricerca non riesce agevole a cagione del modo […] pieno di una polemica che sotto il nome di deduzione degli errori filosofici – mira ad escludere dalla filosofia, l’una dopo l’altra, le questioni più interessanti che concernono il pensiero e la vita”.
Quella di Croce era insomma un guscio vuoto, una filosofia fatta soltanto di schemi verbali e di nomi, l’involucro esterno della filosofia, ma non la filosofia. Il filosofo napoletano rispose definendo quelli di Enriques. sfoghi polemici, che non svegliavano abbastanza il suo interessamento intellettuale; lo invitò a dedicarsi solo alla matematica e a lasciar perdere la filosofia,
«smettendo di tenere conferenze in circoli dilettanteschi, di fronte ad un pubblico misto, evitando di addossarsi le fatiche dei congressi dei filosofi in qualità di presidente di una composita e inerte ‘Società Filosofica Italiana’»
Enriques si rendeva ben conto che dietro alla polemica personale si nascondeva la strenua difesa di un modello culturale. Proprio la durezza dei toni usati da Croce e la scelta di abbandonare il confronto teoretico per l’offesa personale consentono di apprezzare l’impegno profuso da Enriques per il rinnovamento della scuola e dell’università, le uniche istituzioni che avrebbero potuto produrre il necessario cambiamento all'interno della cultura e delle coscienze degli italiani.

Purtroppo non andò così. La guerra prima, e il fascismo poi, segnarono la sconfitta delle idee di Enriques e la vittoria di quelle di Giovanni Gentile, tardo hegeliano e vicino a Croce, autore di una riforma scolastica improntata al predominio delle Humanae Litterae sulla scienza, che informò di sé la cultura italiana di gran parte del Novecento. In realtà, Gentile ed Enriques dialogarono, e mentre Gentile sembrò apprezzare l’idea di una storia del pensiero scientifico propugnata da Enriques, lo stesso rimproverò a Gentile la mancata attuazione completa della riforma della scuola, nella quale si era previsto l’inserimento della storia della scienza. Scientia continuò le pubblicazioni anche durante il fascismo, e Enriques tornò a esserne il direttore tra il 1930 e il 1938.


Nel 1938, Federigo Enriques, di origine ebraica, fu colpito dalle leggi razziali e costretto ad abbandonare l’insegnamento e qualsiasi altro impiego di carattere culturale. Negli anni della discriminazione razziale insegnò a Roma nella scuola ebraica clandestina fondata da Guido Castelnuovo e riuscì a pubblicare alcuni articoli in forma anonima sul Periodico delle Matematiche. Durante l’occupazione tedesca visse nascosto. Tornò a insegnare all'Università nel 1944 per altri due anni fino alla morte, avvenuta a Roma il 14 giugno 1946. Scientiafu pubblicata fino al 1988.


Le stelle nere di Michell

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I primi buchi neri

Detto in parole semplici, un buco nero è una regione dello spazio-tempo dove il campo gravitazionale è così forte che nulla, neanche la luce, può allontanarsi. L’idea di questi strani oggetti del cielo è diventata popolare nella seconda metà del secolo scorso, ma era già contemplata nella relatività einsteniana.

Ciò che invece non è noto a tutti è che essa fu proposta per la prima volta più di due secoli fa, nella seconda metà del Settecento, dal reverendo inglese John Michell (1724-1793), che fu un geologo, fisico e astronomo educato a Cambridge e membro della Royal Society. Egli, che viene considerato il “padre della sismologia” per lo studio dei terremoti, fu anche il primo a immaginare le stelle doppie, a dimostrare che il magnetismo segue una legge quadratica inversa, a inventare la bilancia di torsione. Inoltre concepì l'esperimento poi realizzato da Cavendish che misurò la forza di gravità fra due corpi in laboratorio e consentì la prima valutazione accurata della massa della Terra e della costante gravitazionale.



In una memoria redatta nel 1783 e ritrovata negli anni Settanta del secolo scorso, Michell per primo pensò a un corpo celeste in cui la velocità di fuga può essere superiore a quella della luce. A quei tempi si pensava, con Newton, che la luce avesse natura corpuscolare e fosse in qualche modo simile al nostro concetto di fotone. Era pertanto ritenuto possibile che essa potesse essere influenzata dalla gravità, come accade alla materia ordinaria.

Già un secolo prima, Giovanni Cassini, impegnato nello studio della rivoluzione dei satelliti di Giove, aveva scoperto delle discrepanze nelle sue misure che aveva attribuito al fatto che la luce dovesse avere velocità finita. Nel 1672 l’astronomo danese Ole Rømer, che si trovava a Parigi come assistente di Cassini, si accorse che i tempi tra le eclissi (in particolare di Io) diventavano più brevi quando la Terra si avvicinava a Giove e più lunghi quando la Terra si allontanava. Nel 1675 Rømer stimò che il tempo impiegato dalla luce per percorrere il diametro dell'orbita terrestre, una distanza di due unità astronomiche, fosse di circa 22 minuti, un valore eccessivo rispetto a quello che oggi è stimato in circa 16 minuti e 40 secondi. La sua scoperta venne presentata alla Académie Royale e riassunta più tardi in una pubblicazione del 7 dicembre 1676. Nella memoria, Rømer affermava «che per una distanza di circa 3000 leghe, valore molto prossimo al diametro della Terra, la luce impiega meno di un secondo di tempo».



Le osservazioni sull’aberrazione stellare condotte da James Bradley nel 1728 diedero un’ulteriore conferma dell’ipotesi di Cassini e un valore più accurato per la velocità della luce, stimata in 295.000 Km/s. Il concetto newtoniano di velocità di fuga intesa come la velocità minima necessaria per sfuggire dalla superficie di un pianeta era ben noto. Per una massa sferica di massa M di raggio R, è semplicemente:



Dove G è la costante gravitazionale. La velocità di fuga perciò aumenta proporzionalmente se la massa dell’oggetto cresce oppure se la massa rimane la stessa ma diminuisce il raggio.

Torniamo a Michell: egli prese in considerazione un corpo di massa così grande che la velocità di fuga alla sua superficie era uguale alla velocità della luce. Nella sua memoria per la Royal Society scriveva:
4. Supponiamo ora che le particelle di luce siano attratte allo stesso modo di tutti gli altri corpi che conosciamo; cioè da forze che portano la stessa proporzione della loro vis inertiae, di cui non ci può essere alcun ragionevole dubbio, essendo la gravità, per ciò che sappiamo, o abbiamo qualche ragione di credere, una legge universale di natura. Sulla base di questa supposizione, quindi, se qualcuna delle stelle fisse, la cui densità è nota tramite i metodi sopra menzionati, sia grande abbastanza sensibilmente da influenzare la velocità della luce che esce da essa, dovremmo avere il modo di conoscere la sua reale magnitudine, ecc. (...)
16. Di conseguenza (...), Se il semidiametro di una sfera della stessa densità del Sole eccedesse quello del Sole in proporzione di cinquecento a uno, un corpo che cade da un’altezza infinita verso di esso, dovrebbe aver acquisito alla sua superficie una velocità maggiore di quella della luce, e, di conseguenza, supponendo che la luce sia attratta dalla stessa forza in proporzione alla sua [massa] con altri corpi, tutta la luce emessa da tale corpo dovrebbe tornare verso di esso, a causa della sua stessa gravità.


Michell immaginò l’esistenza di una stella con un raggio 500 volte quello solare e con la stessa densità. Per tale oggetto egli calcolò che il campo gravitazionale sarebbe stato così forte sulla superficie che la velocità di fuga era superiore a quella della luce. Dalla sua ipotetica stella neanche la luce poteva sfuggire, e la stella sarebbe stata invisibile. Sebbene egli lo ritenesse improbabile, egli considerò che molti di tali oggetti potessero essere presenti nel cosmo senza che noi li possiamo vedere.

Nel 1796, tredici anni più tardi, il grande matematico, fisico e astronomo francese Pierre Laplace sviluppò idee simili a quelle di Michell nella sua famosa opera Exposition du Systeme du Monde:
“Un astro luminoso, della stessa densità della Terra, e il cui diametro sia 250 volte quello del Sole, non permetterebbe, a causa della sua attrazione, ad alcuno dei suoi raggi di giungere fino a noi; è pertanto possibile che i più grandi corpi luminosi dell’universo possano, a causa di ciò, essere invisibili”.

Laplace presentò la sua tesi davanti all’Accademia delle Scienze, ma i fisici e gli astronomi, entusiasti dell’opera in generale, restarono scettici sulla possibile esistenza di un tale oggetto. Era nato il concetto di buco nero, ma la sua dimostrazione matematica sembrava appartenere al campo della fantasia agli occhi dei contemporanei.

Nei primi anni dell’Ottocento, gli esperimenti sull’interferenza ottica di Young e Fresnel portarono al maggior successo dell’ipotesi ondulatoria rispetto a quella corpuscolare, che finì nel dimenticatoio. Poiché si riteneva che le onde luminose non possano essere influenzate dalla gravità, finì l’interesse per le ipotetiche “stelle nere”. Lo stesso Laplace tolse il suo accenno a queste stelle senza luce a partire dalla terza edizione della Exposition du système du Monde.

Solo un secolo dopo, tra il 1900 e il 1905, si riconobbe che la luce possiede anche natura particellare e il “quanto di luce” (più tardi fotone) fu introdotto come costituente elementare delle radiazioni luminose da Max Planck e Albert Einstein.

Nel 1915 Albert Einstein pubblicò la rivoluzionaria Teoria Generale della relatività. Una delle sue predizioni più importanti era l’effetto della gravità sulla luce. Secondo la teoria, la materia provoca delle curvature nello spazio-tempo. Il cammino dei raggi luminosi è determinato dalla curvatura provocata dalle masse dei corpi celesti, come fu provato da Arthur Eddington nel 1919. Se la densità di un corpo è talmente elevata da curvare lo spazio-tempo in modo molto accentuato, neanche la luce riesce a sfuggire dal “buco” che si crea. Ciò fornì una prova scientifica in chiave moderna dell’ipotesi di Michell e Laplace.

Queneau tra letteratura e matematica

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Raymond Queneau (1903-1976) è stato uno dei più prolifici ed eclettici scrittori francesi del secolo scorso. La sua vivacità intellettuale ha dato luogo a un’opera molteplice, con una produzione originale, talvolta giocosa e, per certi versi, inclassificabile. Una delle costanti che è possibile ravvisare nella sua opera è l’interesse per la scienza e, più in particolare, per la matematica. In molti hanno commentato l’aspetto combinatorio dei Cent mille milliards de poèmes(1961), libro singolare composto da dieci sonetti in cui ognuno dei rispettivi 14 versi, aventi le stesse rime e la stessa costruzione sintattica, è ritagliato su una striscia di carta. Facendole scorrere in modo casuale, I versi possono essere combinati fino ad offrire 1014 sonetti, appunto centomila miliardi.



Nel 1960 Queneau, attratto dalle possibilità offerte dalla combinatoria e dalla matematica in genere alla genesi letteraria, con un gruppo di scrittori e matematici tra i quali François Le Lionnais e Claude Berge, aveva fondato l’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle). Il termine “potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. 

Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che si aggiunge a quelle già esistenti (la rima, la metrica, la successione temporale, ecc.) e può creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di contraintes diverse, da quelle in qualche modo legate all’enigmistica, come il palindromo, l’acrostico, il lipogramma, a forme più direttamente legate alla matematica, come, oltre alla combinatoria, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una, dello stesso Queneau, è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. La “filosofia” di questo gruppo tuttora attivo e ramificato in diversi paesi, tra cui l’Italia, è che l’uso delle contraintes conduce l’autore a un maggiore sforzo immaginativo e può generare opere di assoluto interesse e qualità. 

La libertà compositiva del testo, lungi dall'essere mortificata, viene invece esaltata, come spiega lo stesso Queneau fin dal 1938 in aperta polemica con la scrittura automatica dei surrealisti: 
“Un'altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l'equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell'ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”. 
I procedimenti combinatori utilizzati da Queneau sono tuttavia squilibrati verso l’immediatamente percepibile applicazione dell’artificio: essi non si tramutano nelle misure letterarie fondamentali (romanzo, racconto, o testo teatrale), ma si ritagliano un campo di sperimentazione limitato (il sonetto, appunto, o il frammento), in cui realizzare una sintesi tra i valori delle matematiche e quelli letterari, ad essi subordinati. La letteratura potenziale, in cui si attua la sua combinatoria, è cioè ancora una microcombinatoria, un fenomeno solo propedeutico alla combinatoria vera e propria in letteratura, di cui un maestro contemporaneo è stato ad esempio l’altro oulipiano Georges Perec con La vita: istruzioni per l’uso

La fascinazione di Queneau per i numeri fu precoce: alcune pagine del suo diario di adolescente già lo dimostrano chiaramente. A 17 anni annota: “Sono andato con Leroux al Museo. Studio con furore la matematica”. Alcuni dei suoi saggi, pubblicati in Bords (1963) e in Bâtons, chiffres et lettres (1965, in italiano “Segni, cifre e lettere e altri saggi”, Einaudi, 1981) contengono talvolta considerazioni sulle serie di Fourier, su Hilbert, su Bourbaki, e sulle “congetture errate nella teoria dei numeri”

Dal punto di vista più strettamente narrativo, nelle opere di Queneau la matematica compare, oltre che come struttura, con i limiti sopra esposti, anche in qualità di oggetto di letteratura, come ad esempio in Odile (1937, pubblicato in italiano da Einaudi nel 1989). 

Odile non è un romanzo matematico, anche se il suo protagonista, Roland Travy, è un matematico dilettante fallito. Si tratta invece della duplice storia di una vicenda amorosa e di un’infatuazione intellettuale. La prima, quella tra Travy e Odile, l’eroina nascosta che dà titolo all’opera, termina bene. La seconda, quella di Travy per il cenacolo surrealista il cui capo Anglarès è la parodia di André Breton, termina male (e si tratta di una vicenda autobiografica perché Queneau era stato surrealista alla fine degli anni ’20, abbandonando il movimento con disprezzo per i suoi deliri onirici). 


La matematica ricopre un ruolo portante nella narrazione, un ruolo che è “ambientale” e mai didascalico (diversamente da opere come Il teorema del pappagallo di Hans Guedj o Il mago dei numeri di Hans Magnus Enzensberger). Tanto meno Queneau fa uso della matematica per creare metafore. 

In Odile la matematica è utilizzata per dipingere l’identità del protagonista, che in essa cerca rifugio, e come ambiente narrativo. Quando Travy parla di matematica, riporta con precisione alcuni teoremi come si potrebbero trovare in un manuale. Ecco il suo sfogo durante un colloquio con Odile: 
“Gettai uno sguardo inutile su un foglio di carta che si attardava sul mio tavolo: dati due rami regolari semplici a diramazioni alterne, trovare il numero dei loro punti di intersezione in funzione di dodici quantità da cui dipende la loro rappresentazione simbolica in rapporto a due assi di coordinate. Ci volevano sei quantità per rappresentare senza ambiguità una tale figura geometrica, era là, pretendevo una delle mie scoperte, in effetti una semplice constatazione che fino a quel momento io non sapevo dedurre nulla. Presi un quaderno; vi erano dei calcoli su una nuova classe di numeri di cui mi credevo il padre, numeri formati di due elementi estremi di una doppia ineguaglianza. Essi presentavano rispetto alle tre operazioni diverse dall’addizione delle proprietà estremamente curiose che non arrivavo a spiegarmi chiaramente; delle ricerche su ciò che chiamavo l’induzione di serie infinite e l’integrale di Parseval, su ciò che definivo l’addizione a destra e quella a sinistra dei numeri complessi e l’importanza di queste operazioni per l’analisi combinatoria. Numeri, numeri, numeri...”
Significativa è la catena di incomprensioni tra Travy e il surrealista Anglarès quando il protagonista fa visita al suo salotto-cenacolo. Travy rappresenta quei giovani intellettuali che seguono i processi della recente matematica e sanno come questa sia andata ben oltre il mero rigore logico e il calcolo efficiente, ma non cade nella trappola della suggestione metaforica esercitata dalle geometrie non euclidee, dagli oggetti topologici, o dai paradossi della logica, come l’indecidibilità di Gödel, o dalle autoreferenze, come l’insieme di tutti gli insiemi o il barbiere di Russell. Al contrario, Anglarès, sostiene che le nuove matematiche rappresentano per i movimenti d’avanguardia la liberazione di nuove facoltà dell’immaginazione: gli oggetti e le strutture della matematica moderna come “bagaglio di metafore”, come investimento estetico, ma senza reale comprensione. Egli rappresenta il prototipo di tutta quella serie di intellettuali non specialisti affascinati e confusi che saranno ridicolizzati alla fine del secolo dalla burla intellettuale di Sokal e Bricmont
– Non esiste un solo mondo, – gli dissi, – quello che lei vede o che crede di vedere o che immagina di vedere o che vuole vedere, quel mondo che toccano i ciechi, sentono i mutilati e annusano i sordi, quel mondo di cose e di forze, di solidità e di illusioni, di vita e di morte, di nascite e di distruzioni, il mondo in cui viviamo, in mezzo al quale siamo soliti addormentarci. Per quel che ne so io ne esiste almeno un altro quello dei numeri e delle figure, delle identità e delle funzioni, delle operazioni e dei gruppi, degli insiemi e degli spazi. C'è gente, come sa, che pretende si tratti solo di astrazioni, costruzioni, combinazioni. Vogliono far credere a una specie di architettura; si prendono degli elementi della natura, si affinano, si puliscono, si prosciugano e lo spirito umano costruisce con questi mattoni una casa splendida, magistrale testimonianza della potenza della sua ragione... ma in realtà le cose non vanno così; non all'architettura, all'edilizia bisogna paragonare la geometria o l'analisi, ma alla botanica, alla geografia, alle scienze fisiche. Si tratta di descrivere un mondo, di scoprirlo e non di costruirlo o inventarlo perché esiste al di fuori dello spirito umano e indipendentemente da esso. Dobbiamo esplorare questo universo e dire poi agli uomini quel che ci abbiamo visto, dico proprio: visto. Ma per esprimerlo, occorre un linguaggio: quello dei segni e delle formule, quello che si considera comunemente l'essenza stessa della scienza e non ne è che il modo di espressione. Questo linguaggio si rivela ancor più impotente a descrivere le ricchezze del mondo matematico che non la lingua francese a formulare la molteplicità delle cose, poiché esse non si situano allo stesso livello di esistenza. C'è peraltro una specie di filologia matematica che si chiama logistica. Ma forse l'annoio? 
(...)
– È impossibile risolvere algebricamente le equazioni di grado superiore al quarto, eccetto in particolarissimi casi. In generale non si può. 
– Il fatto è che non ci si sa fare. 
– Si può dimostrarlo. 
– Ma è scandaloso. 
– Proprio così. È scandaloso perché esiste una realtà ribelle al linguaggio algebrico-logico, una realtà che ci supera e che non si può esprimere con un linguaggio inventato dalla nostra ragione, perché tiene in scacco il meccanismo di ricostruzione razionale di quel mondo. (...) Ma non creda che le cose si fermino qui e che l'intelligenza rinunci a proseguire l'esplorazione di quel campo. Si scontra con un ostacolo, cerca di superarlo, e tramite una nuova teoria, la teoria dei gruppi, scoprirà nuove meraviglie. Certamente uno spirito potente concepirebbe questo reale in un sol lampo; la nostra debolezza ci obbliga a dei sacrifici. 
– È maledettamente idealista, continui, quel che mi racconta. 
– Vuole dire realista: i numeri sono delle realtà. Esistono i numeri! Esistono come questo tavolo, più di questo tavolo eterno esempio dei filosofi, infinitamente più di questo tavolo bang!


Travy esprime qui l’opinione platonista di Queneau, e che si trova tra molti matematici moderni (e in scrittori interessati alle scienze esatte come Borges), che la matematica esiste al di fuori dell’uomo, non è una sua invenzione, non è la mera manipolazione di simboli inventati di cui era invece convinto Hilbert. Essa è invece un mondo che l’uomo esplora. I matematici non inventano gli oggetti matematici, bensì li scoprono. 

Nel suo rapporto con i numeri, Queneau considerò sempre se stesso un dilettante (nel vero senso della parola), un “buongustaio di cifre”. Ciò non gli impedì di essere aggiornato su suoi sviluppi attraverso letture specifiche, una pratica costante, e la partecipazione ai seminari dei maggiori matematici operanti a Parigi. 

Nel 1948 entrò nella Société mathématique de France e, dal 1963, fu membro dell’American Mathematical Society. Da quell’anno partecipò ai seminari di ricerca operazionale e di calcolo dei grafi. Dal suo diario sappiamo che negli anni Cinquanta era in contatto con i principali esponenti del gruppo di Bourbaki e che incontrava regolarmente a cena il logico matematico austriaco Georg Kreisel (1923), che allora insegnava a Parigi, con il quale discuteva delle principali innovazioni matematiche. 

Nella vasta bibliografia di Queneau, a dimostrazione del radicamento del suo interesse e della competenza acquisita, è presente persino una vera e propria pubblicazione matematica. Si intitola Sur les suites S-additives (e il lettore accorto avrà notato l’allitterazione…), che fu presentato da André Lichnerowicz come nota all’Accademia delle Scienze francese durante la seduta del 6 maggio 1968 e in seguito fu pubblicato (in francese!) sul Journal of Combinatorial Theory (12, p. 31, 1972) con la presentazione di Giancarlo Rota. In 41 pagine si succedono definizioni, teoremi con le loro dimostrazioni e un certo numero di congetture, tutti frutto dell’elaborazione di Queneau nel campo della teoria dei numeri. Altro che “due culture!” 

Queneau ha rappresentato la ricerca più significativa realizzata nel Novecento di una sintesi tra scienza e umanesimo, di cui possiamo leggere le basi teoriche in questo brano nel quale Queneau individua negli ambiti della Scienza e dell'Arte un'identica costituzione genetica: 
“L'ideale che si sono costruiti gli scienziati nel corso di tutto questo inizio di secolo è stato una presentazione della scienza non come conoscenza ma come regola e metodo. Si dànno delle nozioni (indefinibili), degli assiomi e delle convenzioni. Ma questo non è forse un gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di procedere nell'esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo fermare su questo punto: la scienza è una conoscenza, serve a conoscere? [...] che cosa si conosce in matematica? Precisamente: niente. E non c'è niente da conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l'insieme, la funzione più di quanto "conosciamo" la Realtà Concreta Terrestre e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati, metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente quello che si chiama un jeu d'esprit. Perciò l'intera scienza, nella sua forma compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né più né meno di come si presenta l'altra attività umana: l'Arte”. (1)
1) In La matematica nella classificazione delle scienze (1938), ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, cit.

Assioma della scelta e insiemi non misurabili

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(non rigoroso, ma senza formule!)


Una teoria matematica si basa sempre su degli assiomi, cioè degli enunciati il più possibile semplici che si postulano come veri e che serviranno come punto di partenza per tutte le dimostrazioni. La teoria nella quale si pone implicitamente la maggior parte del mondo matematico è la teoria degli insiemi, chiamata teoria ZF (Z sta per Ernst Zermelo e F per Abraham Fraenkel). Questa teoria possiede, a seconda di come viene presentata, da 8 a 10 assiomi.

Si può citare per esempio, l’esistenza di un insieme vuoto:
Un insieme privo di elementi è detto insieme vuoto e si indica con {} o con ∅ 


o quella di un insieme infinito:
Un insieme infinito è costituito da un numero infinito di elementi. 
Si può parlare anche dell’assioma della coppia, che permette di costruire un nuovo insieme a partire da due insiemi dati:
Dati due insiemi A e B, possiamo trovare un insieme C i cui elementi sono esattamente A e B.
o dell’assioma delle parti, che permette di costruire l’insieme delle parti di un insieme dato:
Se consideriamo un insieme A formato da n elementi e tutti i possibili sottoinsiemi, compreso il vuoto e A stesso, l’insieme di questi insiemi viene chiamato insieme delle parti. 


Gli assiomi della teoria ZF permettono di costruire quasi tutti gli oggetti matematici e di dimostrare i teoremi ad essi correlati. Per esempio, per costruire i numeri interi, una delle procedure classiche consiste nel partire dall’insieme vuoto, che farà da 0. Con l’assioma della coppia, si può costruire un insieme che riunisce l’insieme vuoto con se stesso, il che darà un insieme contenente un unico elemento. Questo insieme farà da 1. Per il numero 2, si costruisce grazie all’assioma della coppia un insieme con due elementi distinti: 0 e 1. Continuando questo procedimento, si otterranno tutti gli interi naturali.



Così, nella teoria degli insiemi, tutti gli oggetti matematici sono degli insiemi. Per esempio, un triangolo nel piano è un insieme di punti. Un punto è un insieme ordinato di due numeri reali, e i numeri reali si costruiscono a partire dai numeri interi, che sono stati anch’essi costruiti grazie agli assiomi. La costruzione dei numeri reali è molto complicata, e qui non ne parliamo.

Certamente non c’è bisogno di tutto ciò per la matematica elementare. Si può senza difficoltà calcolare il risultato di 6 ×7 senza dover passare per la definizione insiemistica dei numeri interi, ma ciò non impedisce che qualsiasi risultato matematico si basa su meno di una dozzina di verità non dimostrate.

Esiste tuttavia un assioma, comparso nel 1904 ad opera di Zermelo,, che si aggiunge talvolta alla teoria ZF, che prende allora il nome di ZFC: l’assioma della scelta (choice in inglese, choix in francese):
Data una famiglia non vuota di insiemi non vuoti esiste una funzione che ad ogni insieme della famiglia fa corrispondere un suo elemento. 
A grandi linee, questo assioma enuncia che se si dispone di un insieme composto di insiemi non vuoti, si potrà costruire un nuovo insieme con degli elementi provenienti da ciascuno degli insiemi interni. Detto altrimenti, si può affermare che se dispone di un comò che ha diversi cassetti non vuoti, l’assioma dice che è possibile prendere un oggetto da ciascuno dei cassetti. Ciò sembra evidente se si pensa a un comò in una casa, ma diventa più complicato quando un comò possiede infiniti cassetti, e ogni cassetto contiene infiniti oggetti indiscernibili (indistinguibili per proprietà o relazione).

Questo assioma è piuttosto contestato, ed è proprio per questo che lo si pone sempre a parte dagli altri assiomi della teoria degli insiemi. Un primo motivo di contestarlo è che, diversamente dagli altri assiomi, non è completamente evidente. Il principale ostacolo consiste nel fatto che, mentre gli insiemi sono costruibili all’infinito, l’assioma della scelta enuncia l’esistenza di insiemi che sono in pratica difficili da costruire. E ciò é piuttosto fastidioso: basta ricordare che, secondo Georg Cantor, un
«Insieme è una collezione di oggetti qualsiasi, ben definiti e distinguibili, che fanno parte della nostra intuizione e del nostro pensiero». 
Tale definizione è matematicamente corretta, perché le parole «ben definiti e distinguibili» rappresentano implicitamente un criterio di scelta.

Una classica illustrazione dovuta a Bertrand Russell fa intervenire un numero infinito di paia di scarpe. Esiste un metodo di scegliere una scarpa da ciascuna di queste paia? Dato che le due scarpe di un paio sono distinte, basta dire che si prende ogni volta la scarpa destra, e il gioco é fatto. La stessa domanda fatta per un numero infinito di paia di calze, tuttavia, non porta alla stessa risposta, perché é impossibile distinguere una calza destra da una sinistra. Sarà necessario allora scegliere caso per caso una calza per paio, il che non é possibile per un insieme infinito a meno di utilizzare l’assioma della scelta.


Il secondo dubbio che solleva la discussione sull’assioma della scelta è che i teoremi che implica sono talvolta controintuitivi. Esiste, ad esempio, il teorema di Banach-Tarski che consente di duplicare degli oggetti geometrici per semplice suddivisione, ma anche gli insiemi di Vitali, dei sottoinsiemi della retta dove non esiste più il concetto di lunghezza.

Parliamo allora di questo concetto di lunghezza o, più generalmente, della misura. Per degli oggetti unìdimensionali come gli estremi di un segmento, ciò che chiamiamo misura sarà allora la lunghezza del segmento. Per gli oggetti bidimensionali, la misura corrisponderà alla loro area o alla loro superficie. Per degli oggetti tridimensionali, la misura corrisponderà al loro volume.

In realtà, il concetto di misura è un po’ più sottile, ma teniamo a mente che si tratta di un numero positivo che, a seconda dei casi, sarà uguale a una lunghezza, a un’area o a un volume. Prendiamo per esempio il segmento unità, che corrisponde all’intervallo dei numeri compresi tra 0 e 1. Poiché questo intervallo è di lunghezza 1, la sua misura è uguale a 1. Se dividiamo questo intervallo in due parti uguali, otteniamo due segmenti di lunghezza 0,5. La misura totale è dunque due volte 0,5, cioè sempre 1. La nostra divisione non ha cambiato la misura di questo oggetto.

Altra suddivisione. Mettiamo da una parte il punto di ascissa 0,5 e dall’altra il resto. Poiché un punto non ha lunghezza, la sua misura è uguale a 0. Dall’altra parte abbiamo due segmenti di lunghezza ½, quindi la loro misura, cioè la lunghezza totale, è sempre uguale a 1. In effetti, togliere un unico punto da un intervallo non cambia la sua misura; questo oggetto rimane perciò di lunghezza 1. Se togliamo un secondo punto succederà la stessa cosa. Si può quindi togliere qualsiasi numero finito di punti a un intervallo senza cambiarne la misura. Un gruppo di punti isolati possiede sempre una misura totale uguale a 0.



E se mettiamo da una parte un numero infinito di punti? In questo caso le cose si complicano un po’. Dividiamo dunque l’intervallo in un modo più raffinato. Mettiamo da una parte tutti i punti dell’intervallo che corrispondono a un numero decimale, cioè i numeri che possono essere scritti con un un numero finito di cifre dopo la virgola, come 0,25 o 0,55 o 0,46. Dall’altra parte restano i punti che non corrispondono ai numeri decimali finiti, come ⅓, π-3 o √2–1, ecc. Abbiamo allora da una parte un insieme di punti decimali. Questo insieme viene detto “numerabile”, cioè che è possibile elencarne gli elementi. Infatti esiste la possibilità di ordinarli in modo d’avere un primo, un secondo, un terzo è così via.
Un insieme viene detto numerabile se i suoi elementi sono in numero finito oppure se possono essere messi in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali. 
Se un insieme numerabile possiede un numero infinito di elementi, viene detto infinito numerabile, e, dato che può essere messo in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali, si può dire che un insieme è infinito numerabile se ha la cardinalità di N. Si può dimostrare che ogni sottoinsieme infinito di un insieme numerabile è anch’esso numerabile, e che ogni insieme infinito contiene un sottoinsieme numerabile. Esempi di insiemi numerabili sono l’insieme dei numeri interi, quello dei numeri razionali o quello dei numeri primi.



Il più semplice esempio di insieme non numerabileè dato dall’insieme dei numeri reali, la cui non numerabilità è stata dimostrata per la prima volta da Cantor tramite il suo argomento diagonale.

La teoria della misura indica che un insieme numerabile di punti ha sempre una misura uguale a 0, poiché si può intuitivamente considerare un insieme numerabile come un insieme pieno di buchi. I punti sono in qualche maniera tutti isolati l’uno dall’altro, per cui la lunghezza totale dell’insieme è la somma delle lunghezze dei punti. Poiché la misura di ciascun punto equivale a 0, la misura totale è 0.

Il secondo insieme è invece non numerabile. I punti non possono essere separati gli uni dagli altri. I buchi dell’insieme esistono solo in apparenza. Essi non sono sufficienti a diminuire la sua misura. Questo insieme possiede una misura esattamente uguale a 1.

Continuiamo allora la suddivisione. Abbiamo da una parte i numeri decimali, e dall’altra i non decimali. Togliamo un nuovo insieme infinito numerabile, quello dei numeri decimali di forma ⅓+ x, dove x è un numero decimale. Ciò corrisponde ai numeri i cui decimali finiscono per un numero infinito di 3. Chiameremo questo insieme la classe d’equivalenza di 1/3, che contiene numeri come ⅓+0.1 o 0.124333… Diremo che ⅓ è un rappresentante di questa classe. Resta ancora un numero infinito di punti, che corrispondono ai non decimali e non appartengono alla classe di 1/3. Questo insieme possiede sempre misura 1, perché abbiamo tolto una parte numerabile.

Togliamo adesso la classe d’equivalenza di √2–1, cioè i punti che corrispondono ai numeri di forma √2–1+x, dove x è un numero decimale. Rimane sempre un numero infinito di punti, i non decimali che non appartengono né alla classe di 1/3 né a quella di √2–1. Ancora una volta, questo insieme misura 1.

Possiamo continuare a togliere tante classi di equivalenza di numeri quante ne vogliamo: non si esaurirà mai l’insieme iniziale, che non diminuirà mai la sua misura. In effetti si può, ma bisogna farlo un numero infinito di volte, e questo infinito dev’essere non numerabile. Solo che, per farlo, bisogna essere in grado di scegliere un rappresentante della classe a ogni tappa, e non esiste alcun mezzo di creare esplicitamente questa lista. Il solo mezzo per farlo è quello di utilizzare l’assioma della scelta, cioè riconoscere che la lista esiste ma senza poter dire a che cosa assomigli. L’assioma della scelta permette dunque di scegliere un rappresentante di ciascuna classe d’equivalenza, ma non fornisce esplicitamente questa lista.

Qual è la misura di questa lista di rappresentanti? Senza entrare nei dettagli, si può dimostrare che questo insieme non ha misura zero, ma si può ugualmente dimostrare che la sua misura non è esattamente più grande di zero. La sola via d’uscita è dire che il concetto stesso di misura non è applicabile a questo insieme. Questa lista di rappresentanti, chiamata insieme di Vitali, non può dunque essere matematicamente misurata. Si tratta di ciò che viene detto un insieme “non misurabile”: in genere, si costruiscono gli insiemi di Vitali a partire dai numeri razionali piuttosto che da quelli decimali, ma il risultato è lo stesso. Anche se le loro densità sono le stesse, intuitivamente si immaginano più buchi tra i decimali che tra i razionali. Più formalmente:

L’insieme di Vitali, che prende il nome dal matematico italiano Giuseppe Vitali, fornisce un esempio di sottoinsieme dei numeri reali. R che non è misurabile da nessuna misura che sia positiva. Per la costruzione dell’insieme di Vitali è indispensabile l’assioma della scelta.



In breve, è possibile costruire oggetti in cui il concetto stesso di lunghezza, di area, o di volume non può esistere. Questa cosa non sarebbe poi così grave se Banach e Tarski non se ne fossero impadroniti. Essi hanno dimostrato che, associando opportunamente più oggetti non misurabili, è possibile costruire dei nuovi oggetti che invece sono misurabili. Così sono giunti a suddividere una sfera piena in 5 pezzi di cui quattro non misurabili, che consentono di costruire due nuove sfere identiche a quella di partenza attraverso semplici rotazioni e traslazioni. Ma questa è un’altre storia e ce ne occuperemo un’altra volta. 

Fonte: 

Choux romanesco, vache qui rit et intégrales curvilignes : Deux (deux ?) minutes pour le théorème de Banach-Tarski, consultato il 16 ottobre 2016.

La parodia del «Calculemus!» di Swift

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Dettaglio dal frontespizio della Miscellanea Berolensia ad incrementum scientiarum (1710). In basso si vede la macchina calcolatrice di Leibniz, che nel volume viene descritta per la prima volta. 
Ne I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels, 1726), Jonathan Swift critica le miserie della natura umana, sfociando spesso in una satira feroce e in un vero e proprio humour nero. Nel terzo viaggio del protagonista, quello all’isola fluttuante di Laputa, di cui mi sono già occupato in precedenza, Gulliver ha modo di visitare l’accademia di Lagado dove gli scienziati si dedicano a esperimenti assurdi e ricerche improbabili, che dimostrano come il sapere teorico sia del tutto inutile se non ha reali ricadute pratiche. Molti commentatori hanno visto in questo episodio una critica ai “filosofi naturali” della Royal Society, ma neanche il tedesco Leibniz sembra sia risparmiato. Vediamo come la calcolatrice meccanica e il sogno di una lingua filosofica universale basata sul calcolo siano messi alla berlina dalla penna intinta nel fiele dello scrittore irlandese, che qui anticipa certi procedimenti contemporanei della generazione automatica di testi. 
“Traversando un giardino ci trovammo nella seconda divisione dell'accademia, assegnata ai cultori delle discipline astratte.  
Nella prima grande sala trovai un professore circondato da quaranta scolari. Dopo esserci salutati, siccome egli si accorse ch'io guardavo con curiosità una certa macchina che occupava quasi tutta la sala, mi spiegò che il suo più ambizioso disegno consisteva nella scoperta del metodo di perfezionare le scienze mentali con mezzi meccanici. Egli andava orgoglioso di questo concetto, il più vasto e geniale che cervello umano avesse mai avuto, e sperava che tutti, quanto prima, ne riconoscessero l'utilità. Mentre, infatti, i metodi comunemente adottati per arrivare alle diverse nozioni scientifiche e ideali sono faticosi e difficili, col suo nuovo sistema, invece, anche un ignorante poteva scrivere libri di filosofia o di poesia, trattati di politica e di matematica, senza bisogno di speciale vocazione né di studio: bastava una modesta spesa e un piccolo sforzo muscolare. 

Nello spiegarmi ciò, egli mi fece vedere il meccanismo intorno a cui stavano i suoi scolari.
Era una specie di telaio di venti piedi quadrati, sul quale erano disposti moltissimi pezzetti di legno simili a dadi, di cui alcuni erano alquanto più grossi; e tutti erano legati insieme per mezzo di fili sottili. Ogni faccia di ciascun dado portava un pezzo di carta, su cui stava scritta una parola; sicché sul telaio si trovavano tutte le parole della loro lingua nei differenti modi, tempi e declinazioni, ma mescolate alla rinfusa.
La "macchina" di Lagado da I viaggi di Gulliver di Swift illustrati in The Prose Works of Jonathan Swift, DD, Volume 8 (1899)
Il professore mi avvertì che stava per mettere in moto la macchina: a un suo cenno, infatti, ciascun allievo prese in mano un manubrio di ferro (ve ne sono quaranta fissati lungo il telaio). Essi, facendolo girare, cambiarono totalmente la disposizione dei dadi, e perciò delle parole corrispondenti. Allora il professore ordinò a trentasei dei suoi scolari di leggere fra sé le frasi che ne risultavano, via via che le parole apparivano sul telaio; e quando trovassero tre o quattro parole che avessero l'apparenza d'una frase, di dettarle agli altri quattro giovinetti, che facevano da segretari. Questo esercizio fu ripetuto diverse volte, e col successivo capovolgersi dei cubi sempre nuove parole e frasi comparivano sulla macchina. Gli scolari si dedicavano a tale occupazione per sei ore del giorno.
Il professore mi fece vedere diversi volumi in folio pieni di frasi sconnesse ch'egli aveva raccolto e di cui pensava fare un estratto, ripromettendosi di cavar fuori da codesto materiale, il più ricco del mondo, una vera enciclopedia scientifica e artistica. Egli sperava che codesto suo lavoro, spinto con energia, avrebbe toccata la massima perfezione, a patto che la popolazione consentisse a fornire il denaro necessario per impiantare cinquecento consimili macchine in tutto il regno, e che i sovrintendenti dei vari istituti mettessero in comune le loro personali osservazioni. 
Ringraziai umilmente codesto illustre inventore, assicurandolo che, se avessi avuto la fortuna di tornare in Inghilterra, gli avrei reso giustizia celebrandolo fra i miei concittadini come primo creatore d'una macchina sì meravigliosa; anzi mi feci dare il disegno di questa e la descrizione dei suoi vari movimenti, e sopra tavole apposite li unii alle mie memorie. Assicurai anche l'accademico che avrei saputo prendere le necessarie cautele perché l'onore della scoperta restasse tutto suo, data l'usanza vigente fra gli scienziati europei di rubarsi reciprocamente i loro ritrovati, tanto che non si sa quasi mai a chi attribuirli”. 
La calcolatrice meccanica di Leibniz, progettata con l’apporto di una rete di eruditi, predicatori e amici e sviluppata con l’assistenza tecnica di artigiani itineranti e precari, di costruttori di orologi e persino di un domestico, doveva essere azionata da una manovella e, attraverso un complicato sistema di ruote dentate di ottone di diversa grandezza, realizzare moltiplicazioni e divisioni oltre alle addizioni e sottrazioni. Essa funzionò a fatica (o non funzionò affatto) nelle dimostrazioni dal vivo che furono allestite a Londra e a Parigi, al punto che la Royal Society invitò Leibniz a riproporla una volta risolti i problemi tecnici che rendevano il congegno inefficace.

La calcolatrice di Leibniz in una illustrazione utilizzata per la presentazione al pubblico.

Anche in considerazione degli alti costi già sostenuti e di quelli da sostenere, la macchina fu abbandonata dal suo ideatore, e un suo prototipo fu ritrovato in una soffitta dell’Università di Gottinga solamente nel 1879, durante i lavori di rifacimento del tetto.

John Robinson e la nascita del complotto degli Illuminati

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All’inizio del 1797, John Robinson era un uomo che godeva di una solida e duratura reputazione nelle istituzioni scientifiche britanniche. Figlio di un mercante di Glasgow, era nato nel 1739 e aveva ricevuto un’educazione vasta e di buon livello. Si laureò all’università di Glasgow nel 1756. In seguito divenne il tutore del figlio dell’ammiraglio inglese Sir Charles Knowles, e ricevette dal governo l’incarico di partecipare al collaudo sul mare del nuovo cronometro del grande orologiaio John Harrison. Si recò poi in Russia come segretario privato di Knowles. Mentre era in Russia fu chiamato a ricoprire la cattedra di matematica nella scuola imperiale dei nobili cadetti. Tornò in Scozia e nel 1773 diventò professore di filosofia naturale all’Università di Edimburgo, dove insegnò idrodinamica, astronomia, ottica, elettricità e magnetismo. La sua abilità è dimostrata dal fatto che fu chiamato a scrivere gli articoli dell’Encyclopaedia Britannica riguardanti la navigazione, il telescopio, l’ottica, le opere idrauliche, la resistenza ai fluidi, l’elettricità, il magnetismo, la musica, ecc. Aveva anche inventato la sirena d’allarme e anticipato la legge di Coulomb studiando in termini quantitativi la forza tra cariche elettriche in rapporto alle loro distanze reciproche. Quando fu organizzata la Royal Society a Edimburgo con decreto reale del 1783, Robinson fu eletto Segretario Generale, carica che continuò a mantenere fino a pochi anni prima della morte. La sua reputazione non era confinata alla sola Gran Bretagna. Nel 1790 fu insignito della più alta onorificenza dal College of New Jersey dell’Università americana di Princeton. Personaggio assai versatile, era anche un abile musicista polistrumentista e un discreto poeta. 

Ebbene, prima della fine dell’anno la sua reputazione professionale fu messa in ombra da un libro sensazionale che vendette molto di più di tutto ciò che aveva scritto in precedenza e la cui eco continua a farsi sentire molto tempo dopo che la sua opera scientifica è stata dimenticata. Il titolo del libro era Proofs of a Conspiracy against all the Religions and Governments of Europe, che lanciò presso il pubblico di lingua inglese la teoria che un vasto complotto, ordito da una cellula massonica coperta, nota come gli Illuminati, stava cercando di sovvertire tutte le istituzioni del mondo civilizzato trasformandole in strumenti di un empio piano segreto: la tirannia delle masse sotto l’invisibile controllo di superiori sconosciuti e l’instaurazione di una nuova era di “oscurità sopra ogni cosa”. 

La prima edizione del Proofs of a Conspiracy andò esaurita in pochi giorni, e in un anno fu ripubblicata molte volte, non solo a Edimburgo, ma anche a Londra, Dublino e New York. Robinson aveva toccato un nervo scoperto, offrendo una risposta alle grandi domande di quel periodo: che cosa aveva causato la Rivoluzione Francese e che cosa aveva guidato il suo sanguinoso e tumultuoso avanzamento? Dal suo punto di osservazione di Edimburgo, egli aveva, con milioni di altri, seguito i resoconti di una Francia che aveva distrutto la sua monarchia, spogliato la sua chiesa e trasformato la sua popolazione oppressa e brutalizzata nella più temibile forza militare che l’Europa avesse mai visto. Ora, poi, sotto l’astro nascente del giovane generale Napoleone Bonaparte, tentava di esportare la carneficina e la distruzione nelle monarchie confinanti, non ultima la stessa Gran Bretagna. Robinson credeva tuttavia di essere il solo ad aver identificato la mano celata responsabile di questa eruzione apparentemente insensata di guerra e terrore che sembrava in grado di seppellire il mondo. 

Molti avevano individuato le radici della Rivoluzione nelle idee dell’Illuminismo, come quelle di Voltaire, Diderot e Condorcet, che avevano esaltato la ragione e il progresso a scapito dell’autorità e della tradizione; nessuno tuttavia di questi filosofi in gran parte aristocratici aveva caldeggiato una rivoluzione delle masse, e infatti molti di essi avevano concluso la loro vita sotto la lama della ghigliottina. Nei primi anni dell’ultimo decennio del secolo era stato possibile credere che gli avvocati e i giornalisti affamati di potere del Club dei Giacobini avessero montato il popolino di Parigi nella loro distruttiva frenesia per i loro interessi, ma, a partire dal 1794, Danton, Robespierre e il resto dei capi giacobini avevano seguito le loro vittime sotto la lama del boia. Come potevano essere stati i burattinai se i loro fili erano stati tagliati così brutalmente? Ciò che Robinson proponeva nelle pagine meticolosamente redatte del suo libro era che tutti questi agenti della rivoluzione erano stati pedine di un gioco più grande di loro, le cui ambizioni stavano solo cominciando a rendersi visibili. 


La Rivoluzione Francese, come tutti i convulsi eventi che l’avevano preceduta e seguita, era stata piena di complotti, nutriti dal proliferare di club e associazioni della più varia natura, dalla velocità degli eventi, dalla scarsitã di informazioni disponibili. In Gran Bretagna, nemici della rivoluzione come Edmund Burke avevano sostenuto sin dall’inizio che “già alleanze e corrispondenze della natura più straordinaria sì stanno formando in diversi paesi” e dal 1797 in molti ritenevano – e con buona ragione – che società segrete irlandesi stavano complottando con Napoleone per rovesciare il governo britannico e invadere il continente. Il potere della rivelazione di Robinson consisteva nel fatto che essa identificava nella rumorosa confusione di complotti un solo protagonista, una sola ideologia e un unico complotto generale che cristallizzava il caos in una epica lotta tra il bene e il male, il cui esito avrebbe definito il futuro della politica mondiale. 

Il vasto complotto di Robinson richiedeva un’importante figura di riferimento, un ruolo per il quale Adam Weishaupt, fondatore dell’ordine bavarese degli Illuminati, sembra oggi essere un candidato poco promettente. 

Adam Weishaupt era nato nel 1748 a Ingolstadt e aveva studiato dai Gesuiti. La sua nomina a Professore di Legge Naturale e Canonica all’Università di Ingolstadt nel 1775, al posto di uno dei gesuiti recentemente banditi (1773) dal papa Clemente XIV, provocò una grande rabbia da parte del clero. Weishaupt, le cui idee erano cosmopolite, e che conosceva e condannava le superstizioni e il bigottismo dei preti, fondò un partito loro contrario all’Università. Non era ancora un massone; fu iniziato in una loggia di Monaco nel 1777. 

I motivi che portarono Weishaupt a considerare l’idea di una organizzazione segreta erano svariati. In parte erano dovuti al suo genuino interesse per le cause del liberalismo e del progresso, nate in gran parte per le vicende personali che aveva vissuto di fronte all’intolleranza e al bigottismo. Ma c’era anche una certa sete di potere, che si manifestava in un carattere dispotico e non facile. Inoltre la nascita dell’Ordine si mescolava con interessi personali, soprattutto per il controllo dei ruoli chiave all’Università. Non estranea a queste motivazioni è la solo apparente contraddizione tra gli ideali perseguiti e l’ammissione di aver mutuato, almeno inizialmente, l’organizzazione degli odiati gesuiti, compreso il vincolo per ogni adepto di spiare i propri sottoposti e di riferirne ai superiori. 

Ossessivo e poco incline al compromesso, litigioso, Weishaupt aveva all’inizio trovato difficoltà nell’attrarre membri nella sua società segreta, dove essi avrebbero dovuto adottare pseudonimi mistici scelti da lui, salire la scala assai lunga dei suoi gradi iniziatici e svolgere ruoli subalterni nella sua grandiosa ma nebulosa missione per la riforma del mondo. Per sua fortuna potè contare sul carisma e le capacità organizzative del Barone Adolf von Knigge, suo collaboratore e entusiasta adepto dal 1780. 

I rituali degli Illuminati erano di natura razionalistica e non occulta. Lo stato di massone non era richiesto per l’iniziazione all’Ordine perché solo i gradi dal quattordicesimo al sedicesimo del sistema di Weishaupt e Knigge corrispondevano praticamente ai tre gradi della massoneria simbolica.

L’Ordine diventò popolare e comprendeva non meno di duecento adepti registrati, tra i quali quasi sicuramente Johann Wolfgang Goethe. Le sue logge si trovavano in Francia, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia, Polonia, Ungheria e Italia. Knigge, che era uno dei suoi membri più attivi e l’inventore di alcuni dei suoi Gradi, era un uomo religioso, e non avrebbe mai aderito se il suo programma fosse stato, come si disse, di abolire il Cristianesimo. Non si può tuttavia negare che, in qualche suo aspetto e membro, furono commessi abusi e irregolarità, che naturalmente andarono ad alimentare la propaganda contraria, che vi aggiunse accuse palesemente esagerate o addirittura false.


Gli editti di soppressione dell’Elettore di Baviera, Duca Carlo Teodoro, del 1784 e 1785 furono reiterati nell’agosto 1787 e l’ordine cominciò a declinare, al punto che all’alba del nuiovo secolo aveva cessato di esistere.



Nel 1785 Weishaupt fu privato della cattedra e esiliato dal paese con una pensione. Rifiutò la pensione e si trasferì a Regensburg e poi trovò definitivamente asilo presso Ernesto II, duca di Sassonia-Gotha-Altenburg. Weishaupt fu in seguito nominato professore all’Università di Gottinga, dove rimase fino alla morte avvenuta nel novembre 1830. Negli ultimi anni non fece altro che produrre una serie di cupe memorie auto-giustificative delle sue vicende. 

C’era conque molto nella vicenda degli Illuminati che offriva, almeno a Robinson, l’idea di uno schema molto più vasto e sinistro. Il senso messianico di Weishaupt della propria missione e le strutture stravaganti dell’Ordine suggerivano un’organizzazione molto più vasta di quella che era venuta alla luce, e la sua scoperta aveva generato un’ossessione davvero sproporzionata rispetto al pericolo che rappresentava. Era diventata una calamita per le profonde ansietà della chiesa e della monarchia riguardo al programma di ragione e progresso che era stato seminato in tutta Europa dall’avanguardia illuminista di filosofi e scienziati. L’ossessione per gli Illuminati aveva generato centinaia di sermoni, polemiche, opuscoli e fogli scandalistici, tutti in competizione per elencare le più terribili accuse di empietà. Erano queste le principali fonti di anni di ricerca da parte di Robinson per costruire le prove del complotto che ora presentava. Robinson ammise tranquillamente di avere solo una scarsa conoscenza del tedesco e di aver ricavato tutte le sue informazioni da altri scrittori. Sfortunatamente non si preoccupò neppure di fornire riferimenti alle sue fonti. 
Robinson non negava che lo scopo dichiarato dall’Ordine era quello di insegnare alle persone ad essere felici facendo loro del bene e di fare ciò attraverso l’illuminazione della mente, liberandola dal dominio della superstizione e del pregiudizio. Lo scozzese si rifiutava però di accettarlo come il vero obiettivo. Dove Weishaupt e il Barone Knigge promuovevano la libertà dal dominio della chiesa sulla filosofia, Robinson vedeva un appello per la distruzione della chiesa. Dove Weishaupt e Knigge volevano la libertà dagli eccessi dell’oppressione statale, Robinson vedeva la distruzione dello stato. Dove Weishaupt e Knigge volevano istruire le donne e trattarle come uguali, Robinson vedeva la distruzione dell’ordine giusto e naturale della società.

All’osservatore neutrale, Weishaupt e gli Illuminati potevano aver offerto una metafora eloquente delle forze che stavano ridisegnando l’Europa, ma per Robinson essi ne erano diventati la causa vera e propria: il centro, perciò inaccessibile, della rete di eventi che aveva distrutto il vecchio mondo.

Robinson potrebbe essere stato uno spettatore lontano della paura irrazionale per gli Illuminati, ma non era certo un osservatore spassionato. Mentre Proofs of a Conspiracy giunse a sorpresa (e non senza certi imbarazzi) tra i suoi amici e i colleghi scientifici, c’erano molti motivi per i quali gli Illuminati gli sì erano presentati in quel modo. La sua scoperta risolveva sospetti di lunga durata e conflitti sia nella sua vita privata sia in quella professionale, e in particolare sì adattava perfettamente alle sue curiose avventure nella massoneria. 

Nel 1797, il carattere di Robinson era andato incontro a una certa depressione, assai distante dal gioviale e conviviale temperamento della sua giovinezza. Nel 1785 aveva iniziato a soffrire di una sindrome misteriosa, un grave e doloroso spasmo dell’inguine; sembrava emanasse da sotto i testicoli, ma la sua precisa origine aveva confuso i più abili dottori di Edimburgo e Londra. Scosso dal dolore e frequentemente costretto a letto, alla fine del decennio era una figura ritirata e isolata; faceva uso frequente di oppio, una condizione che secondo alcuni dei suoi conoscenti lo rendeva vulnerabile alla malinconia, alla confusione e alla paranoia. Man mano che le vicende sanguinose della rivoluzione in Francia turbavano la Gran Bretagna, il panico era particolarmente intenso in Scozia, dove ministri e giudici montavano voci costanti di quinte colonne e cellule giacobine segrete. Tormentato, confuso dai farmaci, assalito da notizie terrificanti dal mondo esterno, Robinson era in possesso di tutti i fili oscuri per tessere la trama del complotto che lo stava consumando. 

La politica aveva gettato una lunga ombra anche sulla sua vita professionale. Le scienze della natura erano alle prese con un’altra rivoluzione francese, condotta da Antoine Lavoisier. Negli anni ’80, Lavoisier aveva ribaltato la chimica del secolo precedente con la scoperta dell’ossigeno, da cui era stato in grado di stabilire nuove teorie della combustione e a iniziare il processo di ridurre tutte le sostanze materiali a un insieme di elementi fondamentali. La rivoluzione di Lavoisier aveva spaccato la chimica inglese: alcuni avevano riconosciuto che i suoi esperimenti tecnicamente brillanti avevano trasformato la scienza della materia, ma per altri la sua terminologia nuova e straniera era, come il sistema metrico francese, un arrogante tentativo di spazzare via il sapere accumulato con il tempo e di eliminare il ruolo di Dio. La vecchia chimica, con le sue misteriose forme d’energia e i suoi linguaggi di essenze e principi, aveva difeso l’idea di una forza vitale e del misterioso soffio del divino; nel freddo nuovo mondo di Lavoisier, al contrario, la materia era ridotta a mattoni inerti manipolati dalle forze misurabili della pressione e della temperatura. Dio era stato gettato fuori dall’edificio della scienza e, proprio in quegli anni, un altro francese, Laplace, lo escludeva dalle possibili ipotesi per la sua meccanica celeste.


Robinson non accettò mai le teorie francesi, e prima del 1797 aveva inserito la nuova chimica all’interno del suo complotto degli Illuminati. Per lui, Lavoisier, assieme al più eminente chimico sperimentale inglese, Joseph Priestley, era un membro dell’Ordine, che agiva in concerto con logge massoniche infiltrate per diffondere la dottrina del materialismo che avrebbe permeato il nuovo ordine mondiale ateista. I famosi salotti di Madame Lavoisier, dove si incontravano i principali filosofi continentali, erano ora smascherati da Robinson come luoghi di riti sacrileghi dove l’ospite, vestita negli abiti cerimoniali di una occulta sacerdotessa, bruciava ritualmente i testi della vecchia chimica. Per quanto questa immagine possa sembrare poco plausibile, era uno degli elementi che Robinson aveva assemblato come prove nel suo libro, assieme, ad esempio, al pamphlet anonimo tedesco che sosteneva che, nel salotto del grande filosofo Barone d’Holbach, si sezionavano i cervelli di bambini vivi comprati da genitori poveri nel tentativo di isolare la loro forza vitale. 

Gli Illuminati si erano infiltrati nella vita professionale di Robinson, ma il suo legame più personale con il loro complotto derivava dalla stessa massoneria. Iniziato a Liegi nel 1770, era stato un membro del Rito Scozzese per decenni senza mai considerare le logge come più di “un pretesto per passare un’ora o due in un forte di decente convivialità, non del tutto privo di qualche occupazione razionale”. La sua carriera l’aveva tuttavia portato all’estero, dove era stato colpito dalla scoperta che non tutti gli ordini massonici erano così innocenti. Durante i suoi viaggi si era incontrato con altri massoni e aveva visiti delle logge in Francia, Belgio, Germania e Russia. Ciò che vide lo turbò: paragonate a quelle scozzesi, le logge continentali erano “scuole di empietà e licenziosità”. I loro membri sembravano bruciati da “zelo e fanatismo”, le loro idee religiose “molto disturbate dagli umori mistici di Jacob Boehme e Swedenborg, dalle dottrine fanatiche e fraudolente dei moderni Rosacroce, da Maghi, mesmeristi, Esorcisti, ecc.” Ora, trent’anni più tardi, ricordando l’occultismo e il libero pensiero ai quali era stato brevemente ma indelebilmente esposto, non aveva dubbi sulla fonte della distruzione che aveva colpito il Continente. 

Sebbene Proofs of a Conspiracy fosse diventato un successo, il complotto degli Illuminati non colpì mai l’immaginario della classe politica britannica come fece nell’Europa continentale. Una volta passata la crisi della Rivoluzione Francese, alcuni conservatori l’avrebbero attribuito al superiore senso comune britannico, ma in verità la Gran Bretagna aveva allora minacce e cospirazioni più serie da affrontare. Rights of Man di Tom Paine, un’opera di gran lunga più incendiaria e radicale di qualsiasi “testo segreto” degli Illuminati bavaresi, aveva venduto più di duecentomila copie nella sua edizione economica da sei penny, un numero che superava di molto ciò che fino a quel momento era stato considerato il numero totale dei possibili acquirenti di libri. Con la flotta inglese scossa da ammutinamenti e il governo impegnato a contrastare proteste e moti di rivolta, non era sorprendente che le gesta di una loggia bavarese da tempo smantellata sembrassero meno di una minaccia urgente. 


L’opera di Robinson, tuttavia, ebbe un profondo e duraturo impatto negli Stati Uniti, dove le forze antagoniste della rivoluzione e della reazione che avevano devastato l’Europa stavano minacciando di dividere i Padri Fondatori e  distruggere la loro neonata costituzione. Mentre le persone come Thomas Jefferson si consideravano cugini di una Repubblica Francese che aveva abbattuto il giogo della monarchia e con la quale avevano commerciato tra i blocchi navali inglesi, altri fondatori, come Alexander Hamilton, il cui partito federalista favoriva uno stato potente rivolto a proteggere gli interessi dei cittadini abbienti, temevano l’infiltrazione degli ideali radicali della Rivoluzione Francese. In una situazione politica incandescente dove le accuse di tradimento erano lanciate da entrambi i fronti, il libro di Robinson era colto con entusiasmo dai Federalisti come prova del programma nascosto che si nascondeva dietro seducenti slogan come democrazia, abolizione della schiavitù e diritti dell’uomo. Le parole di Robinson erano ripetute senza fine dai pulpiti e dagli opuscoli della Nuova Inghilterra tra il 1798 e il 1799, e Jefferson era pubblicamente accusato di essere un membro dell’Ordine di Weishaupt.


Queste accuse non furono però mai supportate da prove: “l’allarme Illuminati” si esaurì e i Federalisti persero per sempre potere. L’episodio aveva tuttavia toccato un nervo scoperto in profondità nella mentalità politica americana ed è stato invocato in molte paranoie successive. Le idee di Robinson avrebbero continuato a essere riscoperte e reinventate, fino a influenzare la politica moderna in modi curiosi. La decana della moderna teoria del complotto, Nesta Webster, accettò per intero la teoria, ma poi giunse a credere che gli Illuminati erano fumo negli occhi: i veri cospiratori erano il “pericolo giudaico”, il cui programma, pensava, era stato accuratamente esposto nei Protocolli degli Anziani Savi di Sion. Sebbene Webster in seguito tornò nell’anonimato e aderì al partito fascista britannico, ebbe un certo credito e guadagnò citazioni entusiaste negli articoli dell’allora giornalista Winston Churchill, che nel 1920 scrisse sul Sunday Herald:”Il complotto contro la civiltà inizia nell’epoca di Weishaupt. Come la storica moderna signora Webster ha così abilmente mostrato, esso giocò un ruolo importante nella Rivoluzione Francese”. Molti membri della destra isolazionista continuano a ritenere vera la teoria di Robinson ancor oggi: l’associazione ultraconservatrice americana John Birch Society, ad esempio, resta convinta che la Loggia di Weishaupt “era l’antenata del movimento Comunista e il modello dei moderni movimenti sovversivi”. Inutile dire che queste idee fanno parte del milieu culturale che ha espresso il presidente americano Donald Trump.


Dopo la sua morte nel 1805, il suo collega di Edimburgo, il geologo John Playfair, scrisse un necrologio rispettoso concentrandosi sulle sue conquiste scientifiche, ma fu incapace di evitare di menzionare l’opera per la quale è soprattutto ricordato. “L’allarme suscitato dalla Rivoluzione Francese”, suggeriva Playfair con tatto, “produsse nel signor Robinson una grado di credulità che non gli era naturale. Era una credulità," sottolineava, "che era stata condivisa da molti, incapaci di credere che la rivoluzione era stato un genuino movimento di massa in reazione all’oppressione di un regime tirannico; essi erano stati incatenati alla loro idea che essa doveva essere stata orchestrata da una piccola congrega di fanatici e che la mancanza di prove di qualsiasi complotto era essa stessa una prova che i cospiratori erano riusciti a nascondere le loro manovre dalla pubblica vista.” 

C’era molto buon senso nell’analisi di Playfair, che potrebbe essere applicata ai molti che in seguito credettero alle teorie di Robinson, o che continuano a crederci ancor oggi. Infatti, forgiato nello stesso crogiolo di tante moderne ideologie politiche, dal conservatorismo al nazismo, alle varie forme di nazionalismo e populismo, il complotto degli illuminati è diventato un mito moderno: non propriamente e non solo nel senso che la sua base fattuale evapora dopo un’analisi anche superficiale, ma come modello narrativo in grado di variare il suo significato per adattarsi a nuovi e inediti scenari. La storia di un complotto mondiale ordito da un piccolo gruppo di fanatici ha costruito il successo di molte opere di fiction (da Eco a Dan Brown) ma continua nelle varie teorie bizzarre create e amplificate sui social network, che vengono sostenute da migliaia se non da milioni di persone in cerca di spiegazioni semplici per un mondo sempre più complicato. I teorizzatori di complotti, che non sono famosi per la loro applicazione del rasoio di Occam, hanno deciso che ci sono legami tra gli Illuminati, la massoneria, la Commissione Trilaterale, il sionismo internazionale e il comunismo, e che tutti portano al Vaticano, alla CIA o agli alieni, meglio se rettiliani. In questo senso Robinson è stato un anticipatore, e gli Illuminati sono ancora tra noi.



Fonte principale:Mike Jay, Darkness Over All: John Robison and the Birth of the Illuminati Conspiracy, The Public Domain Review, 2014/04/02

Andiamo a raddoppiare!

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Il paradossale teorema di Banach-Tarski


Nel 1924, Stefan Banach e Alfred Tarski pubblicarono Sulla decomposizione di insiemi di punti in parti rispettivamente congruenti, un articolo in cui i due matematici dimostravano che si può suddividere una sfera piena (una palla) nello spazio tridimensionale (*) in 5 parti, in modo che sia possibile ricomporre con questi pezzi due sfere entrambe perfettamente identiche alla sfera iniziale prima della suddivisione. La ricomposizione utilizza solo delle isometrie, cioè delle traslazioni e delle rotazioni. In particolare, i pezzi non sono mai deformati. Ciò sfida il senso comune, ma talvolta la matematica lo fa. 
Una palla a tre dimensioni euclidee è equiscomponibile a due copie di se stessa. 
Come indica il nome, si tratta di un teorema: è una proprietà matematica che è stata dimostrata con tutti i crismi. Esso non può essere contraddetto, pur sembrando a prima vista paradossale perché mette in discussione una realtà del nostro mondo fisico: quando si taglia un oggetto in diversi pezzi, il volume dell’oggetto iniziale dev’essere assolutamente uguale alla somma dei volumi dei suoi pezzi. Nel mondo matematico questa proprietà è anch’essa assolutamente vera, con l’unica condizione che si possa attribuire a questi pezzi un volume. Questa idea è difficile da definire, ma quando lo si fa con precisione, ci si rende conto che certi oggetti matematici semplicemente non possono essere misurati.

Questa proprietà sfida molto l’intuizione perché al cuore della sua dimostrazione si nascondono due dettagli un po’ perturbanti. Il primo è il legame con i paradossi legati all’infinito, perché si utilizza più volte il paradosso dell’Hotel di Hilbert, cioè quello per cui due insiemi infiniti che sembrano diversi a prima vista possono in realtà essere equivalenti. Il secondo punto, che disturba ancor di più, è la comparsa nella dimostrazione dell’assioma più controverso della teoria degli insiemi: l’assioma della scelta, al quale si ricorre talvolta nelle dimostrazioni facendo storcere il naso a molti. 

La suddivisione in parti dell’enunciato è perfettamente definita dal punto di vista matematico, ma sfortunatamente è di impossibile realizzazione pratica. Dispiace, ma nella realtà fisica così come la conosciamo non si possono duplicare gli oggetti tagliandoli a pezzi. 

A che cosa assomigliano esattamente questi pezzi? Costruiamolo per vederlo! Ci occorre innanzitutto una sfera, poi due assi di rotazione su questa sfera. Prendiamo ad esempio quello che permette una rotazione Est-Ovest e viceversa, e quello che permette le rotazioni verso Nord o verso Sud. 



Oltre a questi assi di rotazione, ci serve un angolo di rotazione. Si può scegliere l’angolo che si vuole, ma occorre che sia irrazionale, in modo che sia impossibile che la sfera ritorni nella sua posizione iniziale dopo una o più rotazioni attorno a uno o all’altro dei due assi, Un angolo di 90° non è per esempio accettabile, perché la successione di 4 rotazioni riporterebbe la sfera nella sua posizione iniziale. Questo problema non si pone se invece se si prende un angolo irrazionale, come √2°. La serie di n rotazioni di quest’angolo non porterà mai la sfera nelle condizioni di partenza. Ciò succede anche con qualsiasi altro angolo irrazionale, come ad esempio ln(105)°. 

Abbiamo bisogno di tutto ciò per attribuire a ciascun punto della superficie della sfera un indirizzo. Abbiamo anche bisogno di un punto d’origine, pure questo a piacere: lo chiamiamo A. 

Da questo punto possiamo giungere a 4 altri punti, a seconda che si faccia una rotazione dell’angolo scelto verso il nord, il sud, l’est oppure l’ovest. Ciascun punto dà accesso a 3 altri punti, e così di seguito. Abbiamo in questa maniera accesso a un certo gruppo di punti, che si potranno rappresentare con il loro indirizzo, cioè la successione di rotazioni da seguire per finire sulla loro posizione partendo dall’origine. Per esempio, l’indirizzo NNOS corrisponde a un punto ottenuto mediante una rotazione della sfera verso nord, poi ancora a nord, poi verso ovest, infine verso sud. Anche se è composto dalle stesse lettere, l’indirizzo SONN corrisponde a un altro punto, che si ottiene ruotando la sfera verso sud, poi l’ovest, il nord e ancora il nord. Bisogna tuttavia fare attenzione, perché certi indirizzi non sono validi, quando si succedono due rotazioni opposte l’una all’altra. Per esempio, l’indirizzo SNON non è valido, perché può essere semplificato in ON, dato che le rotazioni successive verso sud e verso nord si annullano reciprocamente. 



Alla fine, l’insieme di punti accessibili per rotazioni a partire dall’origine A possiede un indirizzo. Classifichiamo ora tutti questi punti in 4 insiemi: il primo è composto dai punti il cui indirizzo termina per N, il secondo dove l’indirizzo termina per S, il. terzo contiene i punti con indirizzo che termina per O e l’ultimo in cui termina per E. Resta il punto di origine A, che mettiamo da solo in un quinto insieme. 

Guardiamo più da vicino l’insieme numero 1, quello dei punti il cui indirizzo termina per N. Poiché si tratta di indirizzi semplificati, non vi si potrà mai trovare una penultima lettera uguale a S. 

Che cosa succede se si ruota questo insieme verso sud? Ciò aggiunge una S a ciascuno dei punti che vi si trovano. Siccome tutti gli indirizzi terminavano per N, ora sono semplificati. Si ottengono allora degli indirizzi che terminano per O, per E, per N, ma mai per S. Da notare che vi si ritrova anche il punto d’origine, ottenuto per semplificazione del punto di indirizzo N. In breve: dopo una rotazione verso sud, l’insieme 1 è composto ora dai punti usciti dagli insiemi 1, 3, 4 e 5. Si può dunque ricostruire la sfera iniziale a partire da due soli pezzi: l’insieme 2 e l’insieme 1 ruotato verso sud. 

Si può fare la stessa cosa prendendo l’insieme 3 e girando l’insieme 4, ottenendo una seconda versione della sfera. 

Con queste operazioni abbiamo suddiviso la sfera in 5 parti. Gli insiemi 1 e 2 possono formare una prima copia della sfera iniziale, mentre gli insiemi 3 e 4 formano una seconda copia. Abbiamo trasformato una sfera in due sfere identiche in ogni punto alla prima, tutto con semplici operazioni di suddivisione. Questo è l’argomento chiave che fa funzionare il teorema di Banach-Tarski. 



Restano ancora molti dettagli. C’è un quinto pezzo, composto solamente dal punto d’origine A. Si può eliminarlo, ma bisogna suddividere gli insiemi 1 e 2. Ciò che facciamo è spostare dal primo al secondo insieme tutti i punti il cui indirizzo è il simbolo N ripetuto una o più volte. Si aggiunge così l’origine all’insieme 2. Così si può essere sicuri che dopo una rotazione verso sud, questo nuovo insieme diventa l’unione degli insiemi 1, 3 e 4, di cui il complementare è proprio il nuovo insieme 2.

Abbiamo ora suddiviso la sfera in 4 parti che, opportunamente risistemate, formano due copie identiche di questa sfera. La dimostrazione appena fatta ricorda la storia dell’hotel di Hilbert, quando si è riusciti a far stare un numero infinito di clienti in un hotel infinito già pieno. Ci sono in effetti tanti punti in un insieme infinito che in due copie dello stesso insieme. 

Malgrado tutto, la prova appena fatta non è del tutto soddisfacente, perché non è stata suddivisa tutta la sfera, ma un sottoinsieme di questa, quello dei punti accessibili a partire da A attraverso una serie di rotazioni. Questi punti non sono in quantità numerabile, anche se resta ancora una quantità infinita innumerabile di punti inaccessibili. 

Non è così grave. Scegliamo uno dei punti inaccessibili e scegliamolo come il nuovo punto d’origine, diciamo B. Questo dà accesso a un numero infinito di nuovi punti. Con lo stesso sistema di indirizzi, si può aggiungere nella parte 1 tutti i punti usciti da B con indirizzo che termina per N, nella parte 2 quelli che terminano per S, è così via, senza dimenticare la piccola modifica che permette di aggiungere il punto d’origine B nell’insieme 2. Come in precedenza, questi quattro pezzi permettono di riformare due sfere. 

Non è ancora sufficiente. I quattro insiemi contengono sempre un numero infinito numerabile di punti non accessibili sulla sfera. Si può allora proseguire la costruzione scegliendo sempre dei punti, fino a che ciascuno dei punti della sfera appartiene a uno dei 4 pezzi. Per procedere a una tale operazione, non si potrà fare a meno di utilizzare l’assioma della scelta. È quindi in questo momento che si passa dal suo lato oscuro. Fin qui i pezzi erano infiniti numerabili, dunque di misura zero. Ora che è stato utilizzato l’assioma della scelta ci si ritrova con 4 pezzi che permettono di ricostruire due sfere, ma che non possiedono alcuna misura. È perciò possibile che associandoli a due a due essi formino dei nuovi pezzi di misura più grande. 

Il paradosso di Banach-Tarski non parla di una sfera vuota, ma di solidi pieni. Per ottenere una suddivisone soddisfacente, basta prendere non più dei punti sulla superficie della sfera, ma dei raggi della palla. Si ottiene allora una suddivisione del solido in quattro pezzi che permettono di ricostruirne due esemplari identici. 

Per quanto riguarda il quinto pezzo, rappresentato dal centro della sfera, è possibile procedere passo dopo passo come si è fatto in precedenza sulla superficie. Per farlo consideriamo un cerchio all’interno della sfera che passi per il centro e ancora un angolo irrazionale, in modo che sia impossibile tornare al punto di partenza. Procediamo come si sono assegnate le stanze nell’Hotel di Hilbert. Consideriamo proprio l’insieme dei punti del cerchio ottenuto dal punto mancante applicando una serie di rotazioni. Questo insieme è infinito, e non esiste un ultimo punto. Facendo ruotare questo insieme per l’angolo irrazionale scelto, il buco presente al centro della palla sarà riempito, senza che si sia formato alcun altro buco. 

È quindi quest’ultimo insieme di punti che forma il quinto pezzo della paradossale suddivisione di Banach e Tarski. 



Tralasciando qualche dettaglio, questa dimostrazione rappresenta un mezzo matematico e perfettamente definito di duplicare delle sfere piene. Essa può essere utilizzata per altri oggetti solidi, anche non è possibile dire in quante parti essi andranno suddivisi. Ragionando analogamente, si può dimostrare che è possibile suddividere una sfera piccola (ad es. una pallina da golf) in modo tale che i pezzi ottenuti, una volta assemblati, possano ricomporsi in una sfera più grande, magari delle dimensioni di Giove! 

Alla fine di tutto ciò, si può essere tentati di rifiutare completamente l’assioma della scelta, che mette talmente in crisi l’intuizione che ci si può fare degli oggetti matematici. Numerose discussioni hanno avuto luogo su questo argomento tra i matematici all’inizio del XX secolo e hanno dato vita a diverse correnti di filosofia matematica. Possiamo citare ad esempio l’intuizionismo, che rifiuta tutti gli oggetti matematici che non sono costruiti precedentemente in modo esplicito. 

Un atteggiamento che si deve evitare di fronte a tale paradosso è domandarsi se esso sia contraddittorio. Certo, sorprende l’intuizione, ma esso non mette in discussione alcun altro teorema. Infatti, ciò è stato dimostrato nel 1938 da Kurt Gödel, che ha provato che se gli assiomi della teoria ZF non sono contraddittori vicendevolmente, allora l’aggiunta dell’assioma della scelta non vi introduce alcuna contraddizione. Non ci sono perciò argomenti puramente matematici che autorizzano a rifiutare questo assioma. Diciamo che anche la negazione dell’assioma della scelta non comporta l’apparizione di contraddizioni nella teoria ZF. Si può perciò benissimo vivere in un mondo matematico dove le scelte sono impossibili… 

Ciò non impedisce che, ancora oggi, l’utilizzo dell’assioma della scelta da parte dei matematici resta sempre soggetto a cautela. Conviene preferire le dimostrazioni che non lo utilizzano e, se esso sembra inevitabile, indicare esplicitamente al lettori dove stanno per essere condotti. Più di cent’anni dopo la sua prima formulazione da parte di Zermelo, bisogna constatare che l’assioma della scelta e le sue conseguenze restano un terreno insidioso. 

In realtà quella di Banach-Tarski era una provocazione che voleva dimostrare le conseguenze paradossali e controintuive dell’assioma della scelta. Finì che gli fecero pubblicità, un po’ come sarebbe successo al gatto di Schrödinger, pensato per contestare la casualità nella meccanica quantistica e diventato uno dei suoi meme più noti. In ogni caso, i due matematici polacchi un risultato importante lo raggiunsero, e cioè sottolineare la necessità di definire scrupolosamente ciò che è misurabile da ciò che non lo è. Come tutti i paradossi, quello della duplicazione della sfera possiede anche delle ricadute filosofiche sul senso reale che si attribuisce agli oggetti matematici, ma questa è un’altra storia. 

*È impossibile duplicare un disco (dimensione 2) o un segmento (dimensione 1). 

Fonte: 
Choux romanesco, vache qui rit et intégrales curvilignes :Deux (deux ?) minutes pour le théorème de Banach-Tarski, consultato il 16 ottobre 2016.

Vicino allo stadio

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Limerick


Per evitare i prevedibili, spiacevoli incidenti,
gli urti violenti e i pericolosi ammassamenti
che caratterizzano l'attrazione
dell'irresistibile pallone
è bene star lontani dall'orizzonte degli eventi.

L’Analytical Society contro il “rimbambimento” della matematica inglese

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Dopo Newton, la ricerca matematica inglese andò incontro a una lunga crisi, dalla quale tentò di risollevarla Robert Woodhouse (1773-1827), fautore di un rinnovamento dell’algebra attraverso lo strumento del calcolo, che i professori dei college vedevano come “una pericolosa innovazione” in grado di minare “l’onore nazionale”. 

La matematica britannica era all’epoca solamente un mezzo per comprendere i Principia di Newton, che erano visti come la pietra di volta della conoscenza umana sia di Dio che del mondo naturale. La moderna analisi algebrica francese era vista da molti come il simbolo dei recenti rivolgimenti politici sul continente: era l’orribile risultato dell’intelletto umano lasciato libero da tutti i vincoli sociali. La natura astratta di una pura analisi algebrica permetteva in apparenza alle mente di vagare nella fantasia attraverso l’insensata manipolazione di simboli. Essa era inoltre collegata a una visione meccanica della mente. La matematica pura non era pertanto vista come una parte appropriata dell’educazione di Cambridge. Al contrario, tutti i libri di testo e i manuali erano dipendenti da figure geometriche e si applicavano a specifiche fondamenta fisiche. 

I Principles of analytical calculation (1803) di Woodhouse, che proponeva di sostituire la notazione di Newton a puntini con quella dei differenziali leibniziani, sollevarono scandalo, ma trovarono attenti lettori in un gruppo di giovani studenti di Cambridge, tra i quali Charles Babbage (1792-1871) e J. William Herschel (1792-1871). Essi erano ammirati dalle più potenti tecniche di calcolo dell’analisi matematica continentale e volevano collegarsi a “un secolo di progresso straniero” nel calcolo. I loro ispiratori erano filosofi naturali e matematici come Pierre-Simon Laplace, Joseph Louis Lagrange e Sylvestre Lacroix, i cui testi e manuali erano allora all’avanguardia. 

Babbage e Herschel si procurarono, nonostante la guerra in corso, una copia del Traité élémentaire de calcul différentiel et intégral (1802) di Lacroix (secondo Babbage “so perfect that any comment was unnecessary”) e diedero vita a una Analytical Society, con lo scopo di realizzare l’eretico progetto verso la memoria di Newton di tradurre il testo del francese e introdurre il calcolo e la notazione leibniziani. Il 1813 vide il primo frutto di questi “giovani infedeli”, un volume di Memoirs of the Analytical Society, che Babbage, dal carattere già allora piuttosto insofferente verso le istituzioni, avrebbe voluto irriverentemente intitolare “I principi del puro d-ism in opposizione alla dot-age dell’Università”. D-ism indicava ovviamente la d dei differenziali (ma richiamava anche deism), mentre dot-age indicava l’era dei punti di Newton, ma in inglese dotage significa “rimbambimento”!

La traduzione del libro di Lacroix fu completata nel 1816 da Babbage, Herschel e George Peacock (1791-1858). L’establishment di Cambridge fu enormemente scosso quando Peacock, diventato nel frattempo esaminatore all’Università, utilizzò la notazione differenziale nei testi per gli esami di calcolo del 1817. L’Analytical society produsse poi alcuni quaderni di esercizi e, nel 1820, oramai vittoriosa, si sciolse. Herschel avrebbe continuato gli studi astronomici del padre, mentre Babbage si sarebbe poi dedicato alla meccanizzazione del calcolo, ma questa è un’altra, meravigliosa, storia.

Chimica e teoria dei grafi: una introduzione

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Un po’ di teoria

Sin dagli inizi, i chimici hanno usato diagrammi per agevolare la comprensione della struttura delle molecole. Ad esempio, la molecola del metano si può rappresentare in questo modo (fig. 1), da cui risulta che l’atomo di carbonio è legato a quattro atomi di idrogeno e che nessun atomo di idrogeno è legato con altri atomi di idrogeno.


Altri diagrammi possono fornire maggiormente il senso che la molecola del metano è tridimensionale, e danno anche informazioni più accurate, perché le etichette ci dicono ad esempio la lunghezza del legame o gli angoli tra i legami. Il disegno di fig. 2 è fatto in modo da mostrare la natura tetraedrica della molecola di metano, cosa difficile da vedere nel precedente diagramma.


Questo tipo di diagrammi si può considerare all’interno della struttura dei diagrammi geometrici chiamati grafi. La teoria dei grafi riguarda lo studio delle proprietà dei diagrammi che utilizzano punti e segmenti lineari. I punti sono chiamati vertici o nodi, collegati fra loro da archi o spigoli. I vertici sono in genere trattati come oggetti senza caratteristiche e indivisibili.

Un arco che ha due estremi coincidenti si dice cappio, mentre più archi che connettono gli stessi due estremi costituiscono un multiarco. Un grafo sprovvisto di cappi e di multiarchi si dice grafo semplice. In caso contrario si parla di multigrafo (fig. 3).

Un sottografo G’ è un grafo composto da un sottoinsieme dei nodi e degli archi di un grafo G più grande.


Un percorso di lunghezza n in G è dato da una sequenza di vertici v0, v1,..., vn (non necessariamente tutti distinti) e da una sequenza di archi che li collegano. I vertici v0 e vn si dicono estremi del percorso. Un percorso con gli archi a due a due distinti tra loro prende il nome di cammino. Un cammino chiuso (v0 = vn) si chiama circuito o ciclo. Un cammino in un grafo è detto hamiltoniano se esso tocca tutti i vertici del grafo una e una sola volta. Un cammino viene invece detto euleriano quando tocca tutti gli archi del multigrafo una e una volta sola.

Dato un grafo, due vertici che appartengono ad esso, v e u si dicono "connessi" se esiste un cammino con estremi v e u. Se tale cammino non esiste, v e u sono detti "sconnessi".

Quando questi diagrammi sono usati dai chimici, essi sono solitamente chiamati grafi molecolari o formule di struttura. Una formula di struttura del metano è rappresentata in figura 4. I vertici rappresentano gli atomi, etichettati in modo da indicare di che tipo sono, e gli archi rappresentano i legami formati tra gli atomi. In questo caso il diagramma non fornisce alcuna informazione metrica, e gli angoli tra i legami e la loro lunghezza non fanno parte dell’informazione fornita. Cosī, la teoria dei grafi è un tipo di geometria che non utilizza direttamente informazioni metriche.


Potrebbe sembrare che la figura 4 non rappresenti un gran progresso rispetto alla 1. In realtà i grafi permettono considerazioni e forniscono informazioni assai più vaste di quanto appaia a prima vista. Utilizzando la teoria matematica dei grafi si aprono molte nuove prospettive sulla chimica delle molecole, anche se le rappresentiamo attraverso diagrammi sul piano.

Guardiamo adesso la figura 5.


I chimici sanno che il grafo di figura 5 (un grafo a stella) non può essere il diagramma di struttura di un idrocarburo: il carbonio non può avere cinque legami. Ciò che regola questo tipo di diagrammi dal punto di vista di un chimico è che diversi tipi di atomi possono formare solo determinati tipi di legami con altri atomi. In pratica la possibilità di costruire grafi rappresentanti la struttura delle molecole è limitata dal concetto chimico di valenza. Gli esperti di teoria dei grafi rendono l’idea di legame tra atomi con il concetto di grado o valenza di un vertice di un grafo. Consideriamo ora la formula di struttura dell’etilene, in figura 6.


Consideriamo ora la figura 7:


Questa è la versione secondo la teoria dei grafi della figura 5. Notate che, se si conta il numero degli archi per ogni vertice, ci sono due vertici in cui concorrono quattro archi e due che ne hanno uno solo. Se sommiamo questi numeri, otteniamo 4 + 4 + 1 + 1 + 1 + 1 = 12, che è il doppio del numero degli archi. Ciò è un fatto generale, dato che, se ogni singolo arco ha esattamente due estremità, la somma del numero di archi concorrenti in ciascun vertice darà sempre la metà del numero dei vertici. 

Consideriamo il grafo di figura 8. Esso ha 6 vertici e 18 archi. Tuttavia, alcuni di questi archi uniscono un vertice a se stesso, formando un cappio, e per alcuni vertici c’è più di una coppia di spigoli che collega la stessa coppia di vertici. Quando il grafo presenta tali caratteristiche, con vertici uniti da più archi, essi sono detti a archi multipli.


In matematica c’è la “libertà” di definire i termini in modo tale da cogliere importanti idee applicative, come ad esempio la valenza in chimica. Si è così tentati di definire la valenza o grado dei vertici nella figura 8 come il numero di archi che concorrono in un vertice. Tuttavia, quando lo si fa, non è vero che la somma delle valenze dei vertici del grafo è uguale al doppio della somma del numero degli archi. I responsabili sono i cappi, che danno non uno, ma due estremità a un vertice. Tenendo ciò in considerazione, useremo la seguente definizione di valenza o grado di un vertice:

Dato un vertice v di un grafo G, il grado di un verticeè il numero di archi che concorrono in quel vertice.

Ciò significa che nella figura 8 abbiamo le seguenti valenze per i vertici:

valenza (v) = 4
valenza (w) = 6
valenza (x) = 6
valenza (y) = 5
valenza (u) = 6
valenza (z) = 9

Gli anelli blu contribuiscono per 2 alla valenza dei vertici in un cui concorrono, gli archi rossi (quelli multipli) contribuiscono per 1, come gli archi grigi. Notiamo che un vertice ha valenza dispari, mentre altri hanno valenza pari.

Se sommiamo i numeri 4 + 6 + 6 + 5 + 6 + 9 otteniamo 36, che è il doppio del numero degli archi, che di conseguenza sono 18. Possiamo quindi enunciare il seguente teorema:

Teorema:
Il grado o somma delle valenze di un grafo risulta uguale al doppio del numero degli archi.

Corollario:
Il numero di vertici di un grafo di valenza dispari è pari.

Dimostrazione: La somma di un numero dispari di numeri dispari è dispari, così per avere una somma pari per le valenze, bisogna avere un numero pari di vertici con valenza dispari.

La teoria dei grafi in chimica

L’importanza della teoria dei grafi in chimica incominciò a diventare evidente nel XIX secolo, grazie all’opera dei due matematici britannici, Arthur Cayley (1821-1895) e James Joseph Sylvester (1814 -1897).

Soprattutto il lavoro di Cayley fu pionieristico per l’uso di ciò che oggi chiamiamo grafi nella chimica, per cui dovette coniare anche una terminologia specifica. Egli utilizzò i termini plerogrammi e kenogrammi per i due tipi di grafi che si possono considerare quando si studiano gli idrocarburi con molecole lineari o ad albero (senza anelli). Il plerogramma mostra tutti gli atomi presenti, compresi gli idrogeni, mentre il kenogramma mostra solamente gli atomi di carbonio.


Nella figura 9 sono rappresentati il plerogramma (Pl1) e il kenogramma (Ke1) nel caso del 2,2,3,5-tetrametilesano: il kenogramma ha n e il plerogramma 3n + 2 vertici. Qui n = 10.

Una delle prime scoperte dei chimici fu che le molecole con lo stesso numero di atomi di carbonio e idrogeno (ad esempio) potevano presentare proprietà fisiche e chimiche diverse. Le molecole con le stesse proprietà chimiche, ma diverse proprietà fisiche sono dette isomeri l’una dell’altra. Quando rappresentiamo le molecole con strutture a grafo, gli isomeri danno luogo a strutture diverse. La teoria dei grafi fa parte della geometria combinatoria, nel senso che essa non si occupa delle proprietà metriche (area, angoli, distanze, ecc.), ma delle proprietá strutturali. Eppure, dai grafi si possono ottenere quantità di informazioni sorprendentemente grandi osservando le loro proprietá. Prendiamone in esame alcune. Consideriamo il grafo nella figura 10. Quali proprietà possiede?


I teorici dei grafi hanno coniato termini per descrivere come ci si muove su di essi da un vertice all’altro lungo gli archi. Per esempio, ci sono diversi percorsi dal vertice e al vertice i mostrato in figura, come ecbfglhi, ecflghi, oppure ecbglhi. Questi percorsi hanno lunghezze rispettivamente 7, 6 e 6, poiché tale è il numero degli archi attraversati. Ci sono tuttavia percorsi più corti da e a i, che utilizzano un minor numero di archi. Sia ecbghi sia ecflhi hanno lunghezza 5. Possiamo definire la distanza tra due vertici in un grafo connesso come la lunghezza del percorso più breve tra di essi. La distanza tra i vertici e e kè 4, mentre quella tra e e gè 3, essendoci due possibilità per percorrere questa distanza più breve: ecfg e ecbg. Si noti che questo diagramma può essere interpretato come quello di un idrocarburo, in quanto tutti i suoi vertici hanno valenza 1 oppure 4.

Alcuni grafi connessi hanno solo un percorso tra ogni coppia di vertici. Tali grafi non possono avere circuiti (cbgfc e fglf sono esempi di circuiti nel grafo sopra rappresentato). Dati due vertici in un circuito, ci sono due percorsi che li uniscono lungo le due parti che collegano i vertici. Un grafo senza circuiti si definisce ad albero (fig. 11), e gli alberi hanno molte utili proprietà, tra le quali il fatto che, tranne l’albero con un solo vertice, essi hanno almeno due vertici monovalenti. Un’altra elegante proprietà di un albero è questa:


Teorema 1:
Se T è un albero in cui il numero di vertici ė n, allora il numero di archi di T è n - 1.

Forse ancor più degno di nota è che anche l’inverso del teorema è vero:

Teorema 2:
Se T è un grafo connesso che possiede n vertici e n - 1 archi, allora il grafo T deve essere ad albero.

Uno dei risultati di Cayley fu mostrare che i grafi ad albero mostrano un ruolo particolarmente importante nella comprensione dei problemi di chimica matematica. Talvolta si conosce per ragioni chimiche il numero di atomi di idrogeno e carbonio che fanno parte di una serie di molecole. Ad esempio, gli alcani sono una famiglia di idrocarburi in cui, se ci sono n atomi di carbonio, ci sono 2n + 2 atomi di idrogeno, con la formula generale:

CnH2n+2

Che forma avranno i grafi di queste molecole? Utilizzando un po' di teoria dei grafi si può osservare che queste molecole devono avere una struttura ad albero.

Poiché le molecole chimiche sono connesse, ciò vuol dire che un alcano ha un totale di n (carbonio) + 2n + 2 (idrogeno) atomi. Quindi nel grafo di una tale molecola si hanno 3n + 2 vertici. Tuttavia, il carbonio è tetravalente, mentre l’idrogeno è monovalente. Per questo motivo ne risulta che 4n (4 volte il numero degli atomi di carbonio) + 1(2n +2) (1 volta il numero degli atomi di idrogeno) = 4n + 2n +2 = 2(3n+1), che è due volte il numero dei legami nella molecola. Così il numero di archi (legami) nel grafo della molecola è 3n +1. Dato che il numero dei vertici 3n + 2 supera di uno il numero degli archi, 3n +1, possiamo concludere per il teorema 2 che i diagrammi per gli alcani sono sempre ad albero.

Possiamo considerare i grafi per comprendere meglio un aspetto utile si chimici. Dato un grafo connesso, dove sono i vertici che sono “al centro” o “in mezzo” al grafo? Domande di questo tipo furono poste dal matematico francese Camille Jordan (1838 - 1922).

Il primo approccio per spiegare che cosa s'intende per “centro” di un grafo è utilizzare queste definizioni:

L’eccentricità di un vertice n è la massima distanza di n da qualsiasi altro vertice.

Un vertice n di un grafo (connesso) è detto centrale se l’eccentricità di nè la più piccola possibile.

Ricordiamo che la distanza tra due vertici è la lunghezza del cammino più breve tra di essi. Nella figura 10, per esempio, i vertici d, e, i e j hanno eccentricità 5, i vertici a, c e h hanno eccentricità 4 e i vertici b, f, g e l hanno eccentricità 3. Sono questi ultimi i vertici centrali.

Il centro C di un grafo connesso connesso G consiste di tutti i suoi vertici centrali assieme agli archi che li uniscono. Talvolta si dice che il centro di un grafo connesso è il sottografo di G “indotto” o generato” dai vertici centrali. Nella figura 10 il centro è costituito dai 4 vertici b, f, g e l e dai 5 archi bf, bg, fl, gl, e fg.

Bisogna osservare che considerazioni del genere talvolta non sono di grande utilità, poiché ogni vertice di un grafo può essere centrale e perciò il centro del grafo è il grafo stesso. Un esempio è il cubo tridimensionale (fig. 12, in due rappresentazioni isomorfiche), in cui tutti i vertici hanno eccentricità 3.


Ad ogni modo, ciò che ci interessa è che per grafi ad albero con almeno 3 vertici non tutti i vertici possono essere centrali.

Teorema:
Se T è un grafo ad albero, allora il centro di T è o un singolo vertice o una coppia di vertici con l’arco che li unisce.

Nella figura 13 si vede l’esempio di un grafo ad albero (che rappresenta la molecola di un idrocarburo: quale?) il cui centro è costituito dall’arco disegnato in rosso con i vertici che unisce.


Un’altra proprietà notevole dei grafi ad albero e dei loro centri è che se si ha un grafo T con almeno 3 vertici e si rimuovono i vertici monovalenti, il grafo ad albero che si ottiene ha lo stesso centro di quello originale. Ad esempio, il grafo di figura 14 conserva il suo centro (il vertice in rosso) anche dopo che sono stati “potati” i vertici monovalenti.


Quando Cayley iniziò a occuparsi degli isomeri degli idrocarburi ad albero, dovette decidere quale modello di grafo adottare per la molecola. Gli idrocarburi con molecola ad albero hanno vertici tetravalenti e monovalenti e abbiamo appena visto che il centro di tale molecola è lo stesso per il grafo in cui sono tolti i vertici monovalenti. Cayley doveva scegliere tra il plerogramma, con inclusi i vertici monovalenti, e il kenogramma, che invece rappresenta solo gli atomi di carbonio. Il butano C4H10è costituito da due isomeri, l’ n-butano e l’isobutano, i cui kerogrammi sono rappresentati nella figura 15.


Cui corrispondono alle seguenti formule di struttura:


L’indice di Wiener

Molto tempo dopo che Cayley, Sylvester e Jordan avevano mostrato che le loro idee sulla teoria dei grafi non si applicavano al solo campo matematico, un chimico, Harry Wiener, diede nuovo impulso alla teoria dei grafi in chimica creando, nel 1947, un invariante di un grafo che prende il nome Indice di Wiener. Si tratta del più antico indice topologico legato alla struttura molecolare. Dopo il suo successo, molti altri indici topologici di grafi chimici, basati sul dato della matrice grafica del grafo, sono stati sviluppati.

La domanda per i chimici e i matematici interessati alla chimica è se l’informazione riguardo al grafo di una molecola consente di “predire”, anche solo approssimativamente, le proprietà chimiche o fisiche della stessa. La risposta ottenuta dalle evidenze sperimentali è che ciò è possibile.
L’idea di Wiener era di guardare alle distanze tra i vertici del grafo che rappresenta la molecola. Se la molecola corrisponde a un albero, quale grafo ne rappresenta meglio le proprietà? Wiener scelse originariamente per il suo Indice il grafo degli idrocarburi che indica solo gli atomi di carbonio. Ad esempio, calcoliamo l’Indice di Wiener per i due grafi rappresentati in figura 15. La molecola dell’n-butano possiede tre coppie di vertici a distanza 1 l’uno dall’altro. due coppie a distanza 2 e 1 coppia a distanza 3, così il suo Indice vale:

3 x 1 + 2 x 2 + 1 x 3 = 10

La molecola dell’isobutano possiede 3 coppie di vertici a distanza 1 l’uno dall’altro (i le tre coppie vertice esterno-centro) e 3 coppie a distanza 2 (le coppie da vertice esterno a vertice esterno). Pertanto il suo Indice vale:

3 x 1 + 3 x 2 = 9

Questi valori sono esempi di formule di casi speciali dell’Indice di Wiener. Esso vale (n3 - n)/6 per n vertici in linea come nel caso dell’n-butano e (n - 1)2 per n vertici disposti a stella come nel caso dell’isobutano. Così, anche se queste due molecole hanno la stessa formula chimica e lo stesso numero di legami carbonio-carbonio e carbonio-idrogeno, le loro strutture diverse originano due Indici di Wiener diversi.

Wiener dimostrò che i valori del suo indice sono legati da vicino ai punti di ebollizione delle molecole degli alcani. Opere più recenti sulle relazioni quantitative tra struttura e attività hanno evidenziato che l’indice è correlato con altre quantità, come i parametri del punto critico, la densità, la tensione superficiale e la viscosità della fase liquida, e la superficie di van der Waals della molecola.

Mentre l’indice di Wiener per grafi non isomorfi è diverso, ci sono anche casi in cui grafi non isomorfi hanno lo stesso indice. Ciò non è sorprendente. I matematici da tanto tempo stanno tentando di trovare un modo semplice di dire che due grafi sono isomorfi oppure no. Nessun indice di tale tipo è finora stato trovato né sembra probabile che lo sia. Infatti, il “Problema dell’isomorfismo dei grafi”, vale a dire sapere se e in quanto tempo si può dimostrare che due grafici con n vertici sono isomorfi, è in computer science una questione tuttora irrisolta.

Riferimento Principale:

Joseph Malkevitch, Mathematics and Chemistry: Partners in Understanding Our World, AMS Feature Column, 2017

Matematica in Italia: luci e ombre

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I dati delle rilevazioni OCSE PISA 2015, resi noti lo scorso dicembre, evidenziano un miglioramento delle competenze matematiche dei nostri quindicenni rispetto al quadriennio precedente. L’Italia si colloca allo stesso livello di molti paesi industrializzati, anche se lontana dai vertici rappresentati dai paesi asiatici o dell’Europa del Nord. Eppure il nostro paese vanta prestigiose punte di eccellenza. Ma qual è davvero la situazione? Come sta la matematica in Italia? L'ho chiesto agli addetti ai lavori, che hanno espresso articolate opinioni, in qualche caso polemiche, di chi pratica e vive la matematica nella scuola, nell’università e nella ricerca. Alcune tendenze sono comunque emerse, e di esse bisognerebbe far tesoro. 
Consideriamo la rilevazione PISA-OCSE, che va analizzata senza fermarsi all’aspetto “classifica” come spesso tendono a fare gli organi di informazione. Che cosa ci dicono veramente quei dati? 
Ciro Ciliberto, presidente dell’Unione Matematica Italiana, sottolinea che risultati danno indicazioni parziali e quindi vanno studiati, interpretati e compresi in modo non superficiale. È vero che la nostra scuola, nella sua migliore declinazione, orienta più a un certo tipo di ragionamento teorico che non alla soluzione di problemi ''concreti'' o pseudo tali, il che talvolta ci penalizza, ma, da un recente documento formulato dalla Commissione Italiana per l'Insegnamento della Matematica dell'Unione Matematica Italiana, emerge che i risultati medi dei nostri studenti in Matematica sono in questo rilevamento uguali alla media generale dei Paesi OCSE (490 punti). Inoltre, se confrontiamo i nostri risultati del 2015 con quelli dei rilevamenti precedenti, notiamo che si registra un significativo e costante miglioramento: “una tendenza positiva così prolungata non può che lasciarci soddisfatti e non può essere attribuita al caso”. 

Esiste, più che un problema nazionale, un problema del nostro mezzogiorno: il divario di risultati tra le varie regioni italiane è rilevante: gli studenti del Trentino e dell'Alto Adige si collocano al livello dei migliori colleghi occidentali (516 e 518 punti), ma i giovani campani raggiungono il punteggio medio davvero esiguo di 456 punti. Si tratta di capire se da questo dato si possa dedurre un deficit di competenze matematiche o non piuttosto difetti dovuti a fattori ambientali, ma “un'analisi di questo tipo non si improvvisa, se non si vuole correre il rischio di affidarsi a valutazioni superficiali o peggio a pregiudizi”. Esiste anche un problema di genere: i maschi ottengono in media risultati di 20 punti più alti delle femmine, e questo dato si mantiene pressoché costante negli anni. In effetti esiste nel nostro paese un pregiudizio radicato per il quale la matematica sarebbe disciplina prettamente maschile. 

I risultati PISA-OCSE vanno infine esaminati nella loro interezza: nelle due altre competenze sotto indagine, Lettura e Scienze, i nostri ragazzi restano sotto la media OCSE. Paradossalmente, i nostri studenti paiono più bravi a risolvere problemi che a comprendere un testo di difficoltà studiata per la loro età. 

Più pessimista appare Vincenzo Nesi, professore di Analisi matematica e Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali a “La Sapienza" di Roma, che ritiene che “il livello culturale degli italiani sia mediamente decresciuto in tutte le discipline, non solo in matematica e quindi la domanda interessante dovrebbe essere se e quanto è decresciuto il livello della conoscenza matematica rispetto alla media delle competenze, altrimenti mischiamo un fattore di sistema (la decrescita di risorse per la scuola) con la specificità della matematica”. Inoltre “Questa decrescita generale si deve in gran parte all'allargamento della fascia più debole. L'eccellenza della Matematica vive di vita propria e non è un indice interessante per rispondere alla domanda. In pratica, il fatto che vi siano, come vi sono, ottimi o eccellenti matematici italiani in giro per il mondo non ha niente a che vedere con il livello medio della scuola italiana”. 
Molti insegnanti di matematica lamentano che i test PISA considerano abilità e competenze diverse da quelle che si privilegiano da noi e non manca chi li contesta apertamente. 
Giovanni Salmeri,Lucia Fellicò, Patrizia Plini e Anna Maria Gennai ritengono che i risultati conseguiti non sono tanto lo specchio di una scarsa cultura matematica, ma di una scarsa attitudine a rispondere a quesiti di quel genere. Il miglioramento registrato si spiega perché da qualche anno nelle scuole si dedica qualche ora ad esercitazioni mirate. Salmeri e Paola Santucci ricordano inoltre il caso della Finlandia, che per anni ha ottenuto ottimi risultati nei test internazionali di matematica e poi ha registrato un allarmato appello dei professori universitari che hanno denunciato di avere studenti capacissimi di compilare schede ma a digiuno di qualsiasi idea matematica. 

Nesi è piuttosto scettico sulla reale attendibilità di test e verifiche scritte: “Un paio di anni fa, fu fatto un sondaggio, limitato ma significativo, secondo il quale circa il 40% dei maturandi e delle maturande sosteneva di aver copiato o la versione di greco, o di latino o il compito di matematica. Credo che il dato fosse attendibile. Con questa cultura è ben difficile che qualunque test nazionale, per quanto ben fatto, possa avere un effetto positivo nell'orientare le scelte degli insegnanti. Molti, direi la maggioranza, lo boicotta apertamente e convintamente, a torto o a ragione non saprei ma direi che una ragione c'è di sicuro. Le riforme vanno prima spiegate e poi compiute. Non semplicemente imposte”. 


Non è raro sentire intellettuali di formazione umanistica o personaggi famosi affermare quasi con vanto di non saper nulla di matematica. Esiste un pregiudizio verso la matematica, una sorta di “diffidenza storica” di origine culturale che contribuisce tuttora alle difficoltà della penetrazione della cultura matematica nella società? 
Roberto Lucchetti, professore di Analisi al Politecnico di Milano, dove è stato il presidente del corso di studi di Ingegneria Matematica, ne ė convinto: “Sì, nonostante anche in questo ci siano miglioramenti, rimane diffusa l'idea che la matematica è molto utile, ma che è meglio che se ne occupino gli altri. A me sembra comunque di osservare che il rispetto nei riguardi dei matematici sia aumentato parecchio. Anche se il matematico rimane personaggio molto singolare”. 

Per Roberto Natalini, Direttore dell'Istituto per le Applicazioni del Calcolo "M. Picone", direttore della storica rivista di divulgazione Archimede e coordinatore del sito MaddMaths!, l'arretratezza tecnologica della nostra industria e la frammentazione del tessuto industriale italiano, sono fattori chiave, molto più di qualsiasi diffidenza ideologica. Così il tessuto produttivo non ha mai avuto la massa critica per porsi il problema di formare una classe di scienziati al passo con i bisogni dell'economia. Viviamo in un tessuto parassitario rispetto alla crescita scientifica, in cui i risultati della scienza sono di solito utilizzati di seconda mano, comprando tecnologia sviluppata altrove (spesso a cui concorrono scienziati italiani). Gli Stati Uniti e i paesi più avanzati hanno sviluppato la loro forte richiesta di scienza sui loro successi militari e industriali. In Italia, invece, l'industria e la pubblica amministrazione sono sempre stati arretrati e poco interessati all'interazione con la ricerca. Ci sono state eccezioni, ovviamente: Volterra, Olivetti, Natta, sono persone in controtendenza. Ma non hanno inciso più di tanto. 

Secondo Giampiero Negri bisogna considerare il carattere peculiare di “scienza teoretica” che la matematica ha assunto nella storia del nostro paese: “In contrapposizione con la valorizzazione delle applicazioni tecniche e del calcolo numerico, che hanno determinato nei paesi anglosassoni una fitta connessione tra la crescita di un sapere matematico trasformatore della società e la sua applicazione come strumento per i “meccanici”, ossia gli ingegneri, in Italia la speculazione ha, generalmente, prevalso nel contesto accademico, determinando un gap sempre più considerevole tra la cultura matematica e le sue applicazioni tecnico-pratiche”. 

Per Ciliberto, quando si parla di ''cultura'' in Italia non si pensa alla matematica, né alle scienze in generale. In altri termini, la''cultura'' in Italia non è ''scientifica''. In aggiunta, per scienza si pensa sempre e solo a quella, spettacolare, facilmente e alquanto superficialmente divulgabile, di certe trasmissioni televisive che abbondano di buchi neri, onde gravitazionali e neutrini, ma in cui di matematica non si parla mai, senza notare che questi oggetti e concetti sono ben descrivibili solo in termini matematici. E ai matematici di professione difficilmente si dà accesso nei media. A ciò si somma un più recente atteggiamento, molto diffuso tra i politici e da chi detiene il potere economico, di esclusivo apprezzamento per discipline di tipo utilitaristico immediato, che, a fronte di investimenti che comunque nel nostro paese sono esigui, danno risultati economici a breve termine, cosa che difficilmente fa la ricerca scientifica teorica, che spesso richiede decenni, talvolta secoli, per dare frutti tangibili. Altro difetto, legato al precedente, è quello di dare una marcata preferenza alla tecnologia rispetto alla scienza, senza tener conto che non esiste buona tecnologia senza scienza teorica di alto livello. 
Che cosa fa e che cosa può fare la scuola per la diffusione delle competenze matematiche? Sicuramente esistono delle criticità, ma parlare in generale può essere fuorviante. Innanzitutto si hanno approcci e risultati diversi se consideriamo la scuola primaria e le secondarie. Poi i risultati dipendono molto da fattori geografici, economici e sociali, oppure dall’organizzazione del singolo istituto. È un problema di indicazioni nazionali (i programmi di una volta), di insegnanti, di metodi?
Giovanni Salmeri vede due tendenze recenti che militano contro la considerazione della matematica nella scuola e nell’Università. “La prima è l’avversione, evidente nella politica scolastica ma che un poco alla volta si sta infiltrando anche nell’Università, verso ciò che è rigoroso e difficile. L’idea del successo formativo garantito, che pur potrebbe avere un senso accettabile, diventa così la scusa per abbassare il livello finché sia considerato sufficiente quello raggiunto da qualsiasi studente con qualsiasi, anche inesistente, impegno. La matematica è rigorosa e impegnativa, e in questo modo viene uccisa. La seconda tendenza è quella che sottovaluta tutto ciò che non serve immediatamente, considerando ovviamente come punto di riferimento il mondo del lavoro. Evidentemente le scienze pure ne fanno le spese, e la matematica per prima”. Lorenzo Meneghini aggiunge che le difficoltà rimosse da un’applicazione distorta della normativa si ripresentano amplificate nella vita reale, quando si cerca un lavoro. Sembra che la scuola non possa più fare la selezione che faceva nel passato e questo ha causato un progressivo impoverimento del livello medio dell’istruzione italiana. “Gli insegnanti italiani, negli ultimi vent’anni, hanno perso molta considerazione sociale. Bisognerebbe restituire agli insegnanti la possibilità di “pretendere” che i propri studenti studino e siano ben preparati. La matematica richiede molta fatica da parte di studenti e docenti, fatica che oggi si cerca di evitare”. 

Natalini è convinto che “Il fattore sociale e familiare (ed economico) è fondamentale per capire l'efficacia dell'insegnamento. Non c'è paragone, in termini di opportunità, tra chi proviene da una famiglia già istruita e chi no. Ovviamente, la preparazione degli insegnanti può avere un ruolo. Gli insegnanti della scuola primaria sono in media meglio preparati di quelli della secondaria di primo grado, e questo soprattutto per la matematica. Innalzare il livello di questi ultimi, sia chiedendo requisiti maggiori per poter insegnare matematica, sia cercando di attirare qualche insegnante bravo sarebbe cruciale per avvicinare maggiormente i ragazzi alla matematica. Per quanto riguarda la secondaria superiore, oltre a liberare i docenti dal peso di un esame di stato troppo difficile (sic!), andrebbe migliorato il supporto formativo agli insegnanti. Dovrebbe essere il MIUR a gestire una vera e propria formazione permanente del docente. Per quanto riguarda le indicazioni, trovo solo che siano un po' troppo vaste e irrealistiche. Credo che un buon docente dovrebbe puntare a fornire alcuni contenuti di base molto solidi e un po' di curiosità sulla materia, ma non molto di più. Fare l'integrazione per parti, o le equazioni differenziali al liceo non ha molto senso”. 

Susanna Terracini, docente del Dipartimento di Matematica "Giuseppe Peano" dell’Università di Torino, pensa che un problema della scuola contemporanea è che si coprono troppe materie, e troppi argomenti, tutti in modo un po’ superficiale, mentre andrebbe rivalutato e potenziato il ragionamento rigoroso. “In definitiva, si tratta sia un problema di programmi nazionali (troppo estesi) sia un problema di approccio “utilitaristico” alla Matematica (e non solo), che la snatura. Forse la strada è lasciare più scelta ai docenti e diminuire i programmi. Insomma, credo che sia importante che tutto sia saputo da qualcuno e che tutti sappiano bene (poche) cose. Se no diamo ai ragazzi una falsa percezione di cosa significa “sapere". 

Le ultime Indicazioni Nazionali, secondo Anita Biagini, Patrizia Plini e Assunta Chiummariello hanno inserito ulteriori argomenti da trattare e contemporaneamente è cresciuto il numero di studenti per classe. Il tempo è così diventato un motivo di preoccupazione, anche perché si chiede al docente di “recuperare” in corsi di poche ore gli studenti in difficoltà. I docenti, in particolare del liceo scientifico, sono preoccupati per la prova di matematica dell’Esame di Stato, che chiede elevate competenze e abilità e questo porta a un lavoro di preparazione con ritmi elevati”. Giuseppe Casale aggiunge che “Si tratta di scegliere: o si vogliono perseguire certi standard che poi vengano in qualche modo accertati dalla prova d'esame ministeriale oppure si lascia maggiore libertà ai docenti nella preparazione degli alunni”. 

Anche Ciliberto sostiene che “la scuola ha le sue responsabilità ed è anche vero che ci sono grandi differenze di rendimento tra primaria e secondaria dei due gradi. A fronte di tanti docenti molto preparati e motivati, ci sono anche docenti insoddisfatti dal punto di vista economico e/o organizzativo. In alcune realtà problematiche, la disciplina degli allievi non viene curata a sufficienza e dunque risulta difficile insegnare. La formazione iniziale (soddisfacente solo a livello di primaria, per la quale c'è una laurea dedicata) è assai inadeguata: non esistono, anche se previste dalla legge, lauree dedicate alla formazione di docenti della secondaria. La formazione in servizio presenta nel nostro paese ritardi e lacune che vengono colmati solo parzialmente da privati, sulla cui competenza ci sarebbe da indagare e discutere, È invece questo un territorio assai importante da battere: la matematica, contrariamente a quel che molti pensano, non è ferma alle conquiste degli antichi, ma in continua, poderosa espansione ed è necessario che i docenti abbiano la percezione di questo sviluppo per poter dare ai loro allievi la misura di quanto questa sia una scienza vitale, che incide sulle nostre vite quotidiane come mai prima di oggi”. 

Secondo Lucia Caporaso, professore ordinario di Matematica presso l’Università degli Studi Roma Tre, è necessario dedicare piú tempo all'insegnamento della matematica. Non si puó nascondere il fatto che si tratta di una disciplina particolarmente impegnativa, non solo per l'impegno intellettuale che essa comporta, ma per la sua imprescindibile verificabilità: ci vuole tempo, non soltanto per insegnare la materia, ma per abituare lo studente all'importanza della verifica personale; gran parte degli errori dei bambini e ragazzi viene dal non effettuare questo passo, né nella matematica, né in altre materie. La differenza è che un errore in matematica ha un effetto ben superiore a un errore di ortografia o sintassi in un tema d'italiano. Insomma, insegnare anche il lato "etico" della matematica, e insegnare ad apprezzarlo, richiede tempo. 

Rosetta Zan, che è stata professore associato di Matematiche Complementari presso il Dipartimento di Matematica dell’Università di Pisa e ha orientato la sua ricerca nel campo della didattica, sostiene che “ora che le Indicazioni nazionali mettono esplicitamente al centro del progetto d’insegnamento le competenze, “la scuola ha l’occasione di mettere in discussione alcune pratiche che possono produrre danni notevoli, fra i quali anche il rifiuto per la nostra disciplina che molti allievi sviluppano. Credo che il maggiore ostacolo allo sviluppo delle competenze sia l’inversione dei tempi che caratterizza l’insegnamento della matematica: prima si spiega un concetto, una definizione, un teorema, dopo si illustra un esempio o un’applicazione, quindi si propongono agli allievi un certo numero di ‘problemi’ che ricalcano tale esempio o applicazione. In questo modo i problemi si riducono in realtà a esercizi, e il successo viene identificato con una risposta corretta possibilmente data in poco tempo”. 

“In realtà l’attività matematica parte dai problemi, ed è nel tentativo di risolverli che si avanzano congetture, eventualmente si dimostrano (tra l’altro a livello di comunità, e non di singolo individuo: ciò che è congetturato da un matematico può essere dimostrato da un altro anche a distanza di molto tempo), si introducono definizioni. Errore e tempo in questa dinamica non sono nemici, ma risorse incredibili”. 

D’altra parte, prosegue Zan, “non c’è costruzione di conoscenza senza un coinvolgimento attivo dell’allievo: in questo processo di costruzione, che ha bisogno di tempi lunghi, l’errore è un passaggio inevitabile. In definitiva per favorire lo sviluppo di competenze in matematica è necessario rivalutare il ruolo dei problemi, non aver paura di proporre agli allievi compiti (adeguatamente) complessi, e al tempo stesso non identificare il successo con la produzione di una risposta corretta data in poco tempo, ma valorizzare tutti i processi tipici del problem solving (comprendere il problema, esplorare, congetturare, pianificare, controllare, …). Perché questo sia possibile l’ambiente di lavoro deve essere libero dall’ossessione della valutazione, così che i nemici di sempre, errore e tempo, possano essere visti invece come risorse. È chiaro che tutto questo richiede una formazione attenta dei docenti, sia dal punto di vista della matematica che dal punto di vista della didattica” 


Qual è la situazione della matematica nelle Università (non solamente nei Corsi di Laurea in Matematica, ma in tutti gli indirizzi in cui essa ha un ruolo importante nel curriculum)? Quali i problemi, quali le situazioni positive? Qual è la situazione della ricerca matematica italiana, pura e applicata? 
Nesi lamenta che i test d’ingresso obbligatori, che avrebbero dovuto attribuire dei debiti formativi, dovevano essere seguiti da corsi di recupero. Ebbene, “con rarissime eccezioni, questo non è stato fatto. Quando è accaduto, sia pure tardivamente, come nel caso della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali della Sapienza, si sono visti dei frutti positivi. Il primo frutto è combattere l'ipocrisia. Se circa il 40% delle studentesse e degli studenti che si vuole iscrivere in una materia scientifica ha il debito su contenuti che spesso risalgono ai primissimi anni delle superiori, che senso ha continuare ad insegnare al primo anno dell'università presupponendo un livello di entrata molto maggiore? E, ancora di più, che senso hanno libri di testo per le superiori dove sì tratta il calcolo, le derivate, gli integrali e tanto altro ancora, se poi la somma di frazioni crea difficoltà? L'Università si è adagiata colpevolmente sull'idea che non fosse un problema proprio. Secondo me il cuore del problema è che l'Università italiana, specie in ambiti dove è rimasta all'avanguardia, dovrebbe farsi carico dei problemi della scuola superiore, e reclutare in lungo ed in largo. Più accoglienza e meno respingimenti alle frontiere della conoscenza." 

Caporaso precisa che nella gran parte degli atenei italiani la didattica della matematica in aree non scientifiche è gestita autonomamente, e quindi con competenza limitata e scadente investimento di risorse. Questo comporta un doppio danno: alla qualità dell'insegnamento e a quella della ricerca. 

In un ateneo che vuole sostenere la ricerca di base, continua Lucia Caporaso, la didattica in matematica di tutti i corsi di laurea dovrebbe essere gestita in stretta collaborazione con i matematici professionisti che operano al suo interno, incardinati in una struttura di ricerca (i dipartimenti di matematica, per intenderci). Da un'organizzazione di questo tipo ne guadagnerebbe molto sia la preparazione di base degli studenti (ingegneri, architetti...), che la crescita scientifica dei dipartimenti di matematica, che impegnandosi sulla didattica ne guadagnerebbero in termini di risorse. Ciò avviene, ad esempio, in Nord Europa e negli Stati Uniti. In Italia pochi atenei (tra quelli "prestigiosi") hanno realizzato un modello simile, in seguito al nuovo assetto universitario imposto dalla legge 240/2010. Questo è un segnale positivo, da contrapporre alla realtà di altri atenei che, rimanendo indietro sull'attenzione verso la ricerca, rischiano di veder diminuire le assegnazioni ministeriali di risorse; impoverimento finanziario che accompagna quello scientifico e didattico. 

Ciliberto sostiene che la matematica italiana, sia quella teorica che applicata e industriale, ha un ruolo di grande rilievo nella comunità matematica mondiale. “Siamo nel gruppo di testa delle nazioni matematicamente più avanzate. I matematici italiani sono costantemente invitati a parlare in prestigiosi convegni internazionali e sono pubblicati sulle riviste di maggiore impatto. La fuga dei cervelli, pur nella sua drammaticità, testimonia che i nostri giovani laureati in matematica sono tanto ben preparati da trovare posto nelle migliori istituzioni scientifiche e di ricerca straniera. Quindi non esiterei a definire i corsi di laurea in matematica in generale un’eccellenza nazionale. Purtroppo è vero che la matematica ha invece subito un arretramento di ore ad essa dedicate in altri corsi di laurea, tipicamente in quelli in ingegneria, dove viene ingiustificatamente compressa”. 

Natalini, sulla base della sua esperienza, afferma che l'Italia ha un'ottima scuola, collegata ai filoni di punta della ricerca mondiale. Le problematiche principali sono tre: a) mancanza di reclutamento e di promozione, che porta molti validi ricercatori ad andare (con successo) all'estero. Ciò alla lunga rischia di indebolire la ricerca italiana (sia perché risulta meno attrattiva per studenti mediamente motivati, sia per la mancanza di massa critica in certi settori). Siamo anche poco attrattivi per studenti e ricercatori stranieri. b) La matematica non è menzionata nei Piani Nazionali della ricerca, e, a differenza degli altri paesi, il supporto nazionale non compensa la mancanza di riferimenti espliciti alla matematica in Horizon 2020 [la rete europea per la ricerca e l’innovazione]. Questo rende difficile il finanziamento della ricerca di base. c) Per la matematica applicata, la carente sensibilità delle industrie porta ad uno scarso sviluppo delle ricerche direttamente connesse alle applicazioni ed ad una visione spesso settoriale e accademica della matematica. A ridurre questa scarsa attenzione mira lo Sportello Matematico per l'Industria Italiana, ma è ancora troppo poco. 
Per concludere, parlando in generale, le competenze matematiche specialistiche sono apprezzate dalle imprese italiane? Ci sono opportunità lavorative per chi le possiede? 
Lucchetti esprime “l'impressione molto forte che chi ha una solida preparazione matematica non abbia grandi difficoltà a trovare lavoro, da qualunque laurea arrivi. Esperienza illuminante è quella dei laureati in Ingegneria Matematica, che probabilmente anche perché si collocano geograficamente in un'area privilegiata, che trovano lavoro con estrema facilità. Anzi, un numero significativo di loro lavora già durante lo svolgimento della tesi”. 

Per Natalini, “In realtà, quando alla fine si riesce ad entrare in contatto con delle industrie, e si è preparati a farlo, si scopre che c'è tanto bisogno di matematica e anche una scarsa conoscenza delle sue potenzialità. Questo non influenza tanto il reclutamento dei nostri laureati magistrali (il tasso di occupazione a 5 anni è del 95%, e quel 5% è principalmente è prevalentemente composto da persone che vorrebbero ancora provare a fare ricerca), ma potrebbe espandere il bacino degli studenti interessati. Una solida conoscenza dell'ottimizzazione vincolata, della gestione dei dati avanzata, della modellistica, sono apprezzate dalle aziende, che però in media non pensano di potersi permettere di investire in ricerca. Insomma, le competenze ci sono già, sono di interesse, ma manca la comprensione delle loro potenzialità nelle aziende e anche manca, nel laureato medio, la capacità di comunicare efficacemente”. 

Secondo Ciliberto, le qualità dei migliori laureati in matematica sono apprezzate non solo nel comparto scuola (dove sono indispensabili) ma anche in attività più specificamente produttive: “I matematici sono ben preparati, flessibili, capaci di risolvere problemi anche apparentemente lontani dalle loro specifiche competenze, grazie alla capacità di razionalizzare e opportunamente modellizzare le situazioni loro proposte. Da una recente indagine effettuata in Gran Bretagna, è emerso che ben il 16% del PIL di quel paese da attribuirsi in forma diretta o indiretta all'apporto scientifico e lavorativo dei matematici. In Italia non abbiamo dati simili, ma mi azzardo a ritenere che, pur in una situazione industriale probabilmente meno florida e intraprendente come quella d'oltre Manica, i dati sarebbero paragonabili. Questo dovrebbe spingere politici e detentori del potere economico ad investire di più e meglio nella matematica”. 

Terracini considera un paradosso che le competenze specifiche che dà un corso di laurea magistrale in matematica sono del tutto inutili alle imprese (con pochissime eccezioni di centri di ricerca avanzata) e “tuttavia i laureati magistrali in matematica sono quelli che hanno la più alta occupabilità in Italia, secondi solo a quelli in informatica (che però sono molti di meno). Essi hanno opportunità lavorative molto diversificate (a Torino avevamo fatto dei Ritratti di matematici al lavoro) perché sono svegli e affidabili". 

Nesi, un po' provocatoriamente, chiosa che paradossalmente l'Italia crea ottimi talenti che regala alle nazioni "concorrenti" semplicemente perché sono troppo bravi per le condizioni di lavoro (if any) offerte in Italia. 



Si ringraziano per la disponibilità: 

Lucia Caporaso, Direttore del dipartimento di matematica e fisica di Roma 3; 
Ciro Ciliberto, presidente dell’Unione Matematica Italiana; 
Roberto Lucchetti, professore di Analisi al Politecnico di Milano; 
Roberto Natalini, Direttore dell'Istituto per le Applicazioni del Calcolo "M. Picone", CNR, Roma;
Vincenzo Nesi, Preside della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali a “La Sapienza" di Roma; 
Susanna Terracini, docente del Dipartimento di Matematica "Giuseppe Peano" dell’Università di Torino; 
Rosetta Zan, ex-presidente della CIIM, professore associato in Matematiche Complementari all'Università di Pisa ed esperta di didattica della matematica; 
Antonio Salmeri, fondatore e direttore di Euclide, Giornale di matematica per i giovani, che ha raccolto e coordinato le risposte della sua redazione; 
Gli insegnanti ed esperti: Anita Biagini– Liceo “B. Russell” di Roma; Giuseppe Rocco Casale– Liceo “B. Russell” di Roma; Assunta Chiummariello– IISS “C. Darwin” di Roma; Diana Cipressi – Scuola Sec. “Mezzanotte-Ortiz” di Chieti; Carla Degli Esposti– già 1° CTP “Nelson Mandela” di Roma; Daniela Favale– Scuola Sec. di 1° Gr. “Ugo Foscolo” di Torino; Lucia Fellicò– già Liceo “De Sanctis” di Roma; Antonella Ferri– Scuola Sec. di 1° Gr. di Gramolazzo, LU; Anna Maria Gennai– Liceo Classico “Andrea da Pontedera” di Pontedera, PI; Adriana Lanza– già Liceo “Cavour” di Roma; Lorenzo Meneghini– Liceo “F. Corradini” di Thiene, VI; Annarita Monaco – IC Via San Biagio Platani, Roma; Giampiero Negri;Patrizia Plini– Liceo “B. Russell” di Roma; Rita Risdonne– IISS “C. Darwin” di Roma; Giovanni Salmeri, Responsabile tecnico di Euclide; Paola Santucci– Liceo “B. Russell” di Roma; Franca Tortorella– Liceo Sc. “E. Siciliano” di Bisignano, CS. 



Questo articolo ė comparso in forma ridotta con il titolo Come sta la matematica italiana? su "Il Tascabile", la bella rivista online a vocazione enciclopedica della Fondazione Treccani. Come spesso succede, le esigenze editoriali del periodico hanno consigliato numerosi tagli, riducendo di molto il materiale preparato, stilato esaminando i quasi 30 questionari di risposta pervenuti allo scrivente. Tra le reazioni ricevute, in molti hanno espresso l’invito ad ampliare l’articolo tenendo conto di ulteriori pareri, per avere un panorama più completo e stimolante. Spero che sia stato di vostro interesse.

Gli indivisibili di Cavalieri

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Jorge Luis Borges, ossessionato dall’idea di infinito, nella terza nota a La Biblioteca di Babele, in Finzioni (1944), fa questa considerazione, attribuendola come suo solito a un autore inventato:
“Letizia Alvarez de Toledo ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe un solo volume, di formato comune, stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d'un numero infinito di fogli infinitamente sottili. (Cavalieri, al principio del secolo XVII, affermò che ogni corpo solido è la sovrapposizione d'un numero infinito di piani). Il maneggio di questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe in altri simili; l'inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio”. 
 Il riferimento dello scrittore argentino è al cosiddetto Principio di Cavalieri, anticipato dalle idee di Oresme, Keplero e Galileo ed espresso dal matematico milanese Bonaventura Cavalieri, che afferma che un’area può essere considerata come formata da un numero indefinito di segmenti paralleli equidistanti e sottilissimi (“indivisibili”) e che allo stesso modo un volume può essere considerato come composto da un numero indefinito di aree piane parallele. Cavalieri si rese conto che il numero di indivisibili che costituiscono un’area o un volume deve essere indefinitamente grande, tuttavia non cercò di approfondire questo fatto (che, come vedremo, gli costò feroci critiche), limitandosi a una serie di suggestive metafore: una retta è composta da punti come un rosario da grani; una superficie è composta da rette come una stoffa da fili e un volume è composto da aree piane come un libro da pagine. 

Ma chi era Cavalieri? Nato a Milano nel 1598 e battezzato Francesco, Cavalieri assunse il nome del padre, Bonaventura, quando nel 1615 entrò nei Gesuati, un ordine secolare che sarebbe stato soppresso nel 1668 da Clemente IX sia per carenza di vocazioni, sia perché i suoi beni servivano per pagare i Veneziani nella guerra contro i Turchi. Cavalieri studiò teologia nel convento di San Gerolamo a Milano e poi geometria all’Università di Pisa, dove fu allievo di padre Benedetto Castelli, collaboratore di Galileo, che si accorse della sua forte inclinazione per la matematica.

Terminati gli studi, nel 1619 si candidò alla cattedra di matematica a Bologna, ma fu considerato troppo giovane per l’incarico. Analoghi rifiuti gli giunsero da diversi altri atenei, tra i quali quelli di Pisa e di Roma, al punto che si chiedeva se non ci fosse una prevenzione nei suoi confronti a causa dell’appartenenza ai Gesuati, congregazione molto chiacchierata e malvista dalle gerarchie romane. Nel 1621 conobbe Galileo, del quale volle subito dichiararsi allievo. L’incontro era stato propiziato da Federico Borromeo (il cardinal Federigo di manzoniana memoria), che conosceva e stimava Cavalieri al punto da farlo diacono e suo assistente. Iniziò allora una lunga corrispondenza con lo scienziato pisano, durata per circa vent’anni. Fu in questo periodo che ideò il metodo degli indivisibili per il calcolo di aree e volumi, al quale è associato il suo nome, che anticipa il calcolo integrale e ricorda il metodo di esaustione degli antichi. In una lettera del 1621 a Galileo scriveva:
“Vado dimostrando alcune proposizioni d'Archimede diversamente da lui, et in particolare la quadratura della parabola, divers’ancora da quello di V.S.” 
Galileo lo incoraggiò a pubblicare in un libro le sue idee, dichiaratamente influenzate da Keplero, che, nella Stereometria doliorum vinariorum (1615) aveva calcolato aree e volumi suddividendo i corpi in infinite parti infinitesime, giungendo a risolvere il problema della quadratura dell’ellisse. Cavalieri sviluppò il suo metodo negli anni successivi. Nel novembre del 1627, in un’altra lettera a Galileo, sosteneva di essere in procinto di pubblicare un libro sull’argomento, 
“ho perfettionato un'opera di geometria…. Et è cosa nova, non solo quanto alle cose trovate, ma anco al modo di trovarle, da niuno adoperate insin'ora, ch'io mi sappi”. 
Finalmente ottenuta nel 1629 la sospirata cattedra di matematica a Bologna, ritardò la pubblicazione della sua opera a causa di ripensamenti e riscritture, ma soprattutto per rispetto verso Galileo, che Cavalieri pensava dovesse pubblicare un’opera sugli infinitesimi. In realtà il pisano era interessato solo al risvolto fisico del problema, la struttura atomica della materia, e non intendeva approfondire l’aspetto matematico. Finalmente, nel 1635, diede alle stampe Geometria Indivisibilibus Continuorum Nova Quadam Ratione Promota (Un certo metodo per lo sviluppo di una nuova geometria dei continui indivisibili). Nel testo Cavalieri parla a proposito delle superfici come formate dalla “totalità di tutte le linee” e dei solidi come formati dalla “totalità di tutti i piani”, ciò gli consente di introdurre il suo principio, con il quale giunge a elaborare un nuovo strumento per la determinazione di aree e volumi. Nella sua prima è più semplice formulazione, il principio afferma che: 
“se due solidi hanno uguale altezza e se le sezioni tagliate da piani paralleli e ugualmente distanti da queste stanno sempre in un dato rapporto, anche i volumi dei solidi stanno in questo rapporto”.
Leggiamo dalle sue stesse parole, tratte dalla Geometria Indivisibilibus, come egli sia giunto alla formulazione di tale principio. Così scrive nelle pagine introduttive: 
“Meditando dunque un giorno sulla generazione dei solidi che sono originati da una rivoluzione intorno ad un asse e confrontando il rapporto delle figure piane generatrici con quello dei solidi generati mi meravigliavo moltissimo del fatto che le figure generate si discostassero a tal punto dalla condizione dei propri genitori da mostrare di seguire un rapporto completamente diverso dal loro. Per esempio un cilindro, che sia ottenuto insieme ad un cono della stessa base per rotazione attorno a un medesimo asse, è il triplo di esso, anche se nasce per rivoluzione da un parallelogramma doppio del triangolo che genera il cono. [...] 
Avendo dunque più e più volte fermato l'attenzione su tale diversità in moltissime altre figure, mentre prima, raffigurandomi ad esempio un cilindro come l'unione di parallelogrammi indefiniti per numero e il cono con stessa base e stessa altezza come l'unione di triangoli indefiniti per numero passanti tutti per l'asse, ritenevo che ottenuto il mutuo rapporto di dette figure piane dovesse subito venirne fuori anche il rapporto dei solidi da esse generate, risultando invece già chiaramente che il rapporto delle figure piane generatrici non concordava affatto con quello dei solidi generati mi sembrava si dovesse a buon diritto concludere che avrebbe perduto il tempo e la fatica e che avrebbe trebbiato inutile paglia chi si fosse messo a ricercare la misura delle figure con tale metodo. Ma dopo aver considerato la cosa un po' più profondamente pervenni finalmente a questa opinione e precisamente che per la nostra faccenda dovessero prendersi piani non intersecantisi tra di loro, ma paralleli. In questo infatti, investigati moltissimi casi, in tutti trovai perfetta corrispondenza tanto tra il rapporto dei corpi e quello delle loro sezioni piane quanto tra il rapporto dei piani e quello delle loro linee [...]. 
Avendo dunque considerato il cilindro e il cono suddetti secati non più per l'asse ma parallelamente alla base, trovai che hanno rapporto uguale a quello del cilindro al cono quei piani che chiamo nel libro II ``tutti i piani'' del cilindro a ``tutti i piani'' del cono, con riferimento alla base comune [...]. Stimai perciò metodo ottimo per investigare la misura delle figure quello di indagare i rapporti delle linee al posto di quello dei piani e i rapporti dei piani al posto di quello dei solidi per procurarmi subito la misura delle figure stesse. La cosa, ritengo, andò come era nei miei voti, come risulterà chiaro a chi leggerà tutto”. 
Nei primi due libri dell’opera, Cavalieri espone le ”proposizioni lemmatiche” sulle quali si basa il suo metodo, introduce il concetto di “tutte le linee” di una figura piana e di “tutti i piani” di una figura solida e stabilisce che “tutte le linee” di figure piane (e “tutti i piani di figure solide”) sono grandezze che hanno tra loro rapporto, per cui è possibile poter operare con esse. Ai lemmi si aggiungono poi dimostrazioni e corollari riguardanti, rispettivamente, le sezioni cilindriche e coniche (Libro I) e i triangoli, i parallelogrammi e i rettangoli e le figure le solide derivanti dalle loro rotazioni di (Libro II). 



Il Libro III è dedicato al cerchio, all’ellisse e ai solidi da essi generati. Come esempio del metodo degli indivisibili, vediamo come Cavalieri determina l’area racchiusa dall’ellisse. 



Consideriamo un ellisse di asse maggiore 2a ed asse minore 2b e un cerchio che ha come diametro l'asse maggiore dell'ellisse. Ogni retta perpendicolare al diametro intercetta sul cerchio il segmento PQ e sull’ellisse il segmento P’Q’ considerati appunto come indivisibili delle due curve. Il rapporto fra i due segmenti è a/b

Infatti, utilizzando il linguaggio della geometria analitica le equazioni delle curve sono: 

 


Intersecando le due coniche con rette parallele all’asse delle ordinate, di equazione x = k, si ottengono le coordinate e quindi le misure dei due segmenti intercettati: 


il cui rapporto è sempre a/b

Per il principio di Cavalieri, allora, un uguale rapporto deve intercedere fra l'area del cerchio e quella dell'ellisse in quanto il cerchio è la totalità delle linee PQ e l’ellisse la totalità delle linee P’Q’. Indicando con A l'area dell'ellisse avremo: 


quindi: 


Nei libri successivi Cavalieri dimostra i risultati relativi a figure piane e solide originate dalle sezioni coniche e dalle spirali. Nel libro VII, l’ultimo, formula quello che chiamerà “secondo metodo” in cui chiarisce i fondamenti degli indivisibili. Nel teorema I espone la versione definitiva di quello che ancor oggi è noto come "principio di Cavalieri": 

"Figure piane qualsiasi, poste tra le stesse parallele, in cui, condotte linee rette qualunque equidistanti alle parallele in questione, le porzioni così intercettate di una qualsiasi di queste rette siano uguali, sono parimenti uguali tra loro. E figure solide qualsiasi, poste tra gli stessi piani paralleli, in cui, condotti piani qualunque equidistanti a quei piani paralleli, le figure piane di uno qualsiasi dei piani condotti così determinate nei solidi siano uguali, saranno parimenti uguali tra loro. Si chiamino allora tali figure ugualmente analoghe, sia le piane che le solide confrontate tra loro, e rispetto alle linee di riferimento, o i piani paralleli, tra i quali si suppongono poste, se è necessario indicarlo". 

 Questo principio si dimostra facilmente “a posteriori” con gli strumenti del calcolo integrale, perchè equivale a dire che due integrali definiti, tra gli stessi estremi di integrazione, aventi uguali funzioni integrande, sono uguali; o che se due funzioni hanno rapporto costante allora i loro integrali definiti hanno lo stesso rapporto (una costante moltiplicativa si può portare indifferentemente dentro o fuori dal segno di integrazione): se f(x) = kg(x) allora: 


Cavalieri applica il principio per calcolare aree e volumi confrontando le proprietà di due figure (ad esempio le aree di due superfici o i volumi di due solidi) sulla base del rapporto fra gli indivisibili staccati dall'una e dall'altra sopra un medesimo fascio di rette parallele o di piani paralleli. Il metodo gli consente, ad esempio, di verificare la validità di alcuni problemi risolti da Archimede con il metodo di esaustione sul calcolo dei volumi dei solidi (come il volume del cono è 1/3 di quello del cilindro con la stessa base e la stessa altezza). Allo stesso modo tratta l’area compresa fra due curve, considerando le aree come somma delle ordinate, e se le ordinate stanno in un certo rapporto allora anche le aree stanno nello stesso rapporto. 

Cavalieri conosce il metodo di esaustione, ma è convinto della superiorità del metodo degli indivisibili rispetto ad esso: l’esaustione fa uso essenzialmente della dimostrazione per assurdo, mentre il metodo degli indivisibili è un metodo costruttivo per calcolare aree e volumi. 

Un importante risultato ottenuto da Cavalieri, presentato nell’opera Centuria di varii problemi (1639), riguarda l’area sottesa a certe curve algebriche. Nella moderna simbologia dell’analisi, esso corrisponde alla formula: 


che Cavalieri dimostrò per i valori interi di n compresi tra 1 e 9. La dimostrazione è puramente geometrica. Utilizzando metodi algebrici, Newton generalizzerà la formula, estendendola a tutti i valori razionali di n

L’opera di Cavalieri non venne accolta con molto favore dai geometri sostenitori del pensiero e dell’opera di Archimede. In particolare dovette subire le critiche del matematico svizzero Paul Guldin, noto come Guldino, un ebreo convertito poi diventato gesuita, che era stato solidale con padre Orazio Grassi nella polemica contro Galileo sulle comete e arrivò persino ad accusare Cavalieri di plagio nei confronti di Keplero. Come tutti i gesuiti, Guldino si impegnò a screditare i fondamenti della teoria degli infinitesimi, attaccando Cavalieri nel libro De centro gravitatis, trium specierum quantitatis continuæ, pubblicato a Vienna tra il 1635 e il 1641. L’obiezione principale riguardava la natura delle grandezze geometriche continue (linee, superfici, solidi), a proposito delle quali Guldino sostiene l'impossibilità che vengano costruite riunendo grandezze aventi una dimensione in meno:
"che dunque quella superficie sia, e in linguaggio geometrico possa chiamarsi tutte le linee di tale figura, ciò a mio avviso non gli sarà concesso da nessun geometra; mai infatti possono essere chiamate superficie più linee, oppure tutte le linee; giacché la moltitudine delle linee, per quanto grandissima essa sia, non può comporre neppure la più piccola superficie.” 
La tesi di Guldino è che “il continuo è divisibile all'infinito, ma non consta di infinite parti in atto, bensì soltanto in potenza, le quali [parti] non possono mai essere esaurite”. La conclusione di Guldino è che “questa proposizione sulle figure piane non è stata in alcun modo dimostrata in maniera valida”. Il bersaglio delle critiche dei geometri gesuiti è proprio il concetto di vicinanza infinita, che sfugge ad ogni tentativo di definizione geometrica rigorosa (e soprattutto va in direzione contraria al metodo di Esaustione di Archimede). 

In risposta alle critiche, Cavalieri, nel 1647, pubblicò Contro Guldino. Esercitazione terza, inclusa nelle Exercitationes geometricae sex. Così Cavalieri critica alcune contestazioni di Guldino: 
“Infatti in molti passi, sia Archimede, sia molti altri dediti alla Geometria più pura, dimostrano che si possono inscrivere, e circoscrivere ad una figura data altre figure, in modo che la figura circoscritta superi l’inscritta per una grandezza, la quale sia minore di qualsiasi grandezza data del medesimo genere. Concludono dunque che la circoscritta è uguale all’inscritta? Per niente affatto; adoperato invece un altro termine medio, dimostrano che la figura alla quale è stata fatta l’inscrizione e la circoscrizione, è uguale a una certa altra, la quale sia invero minore della circoscritta, maggiore invece della inscritta”. 
La polemica finì per concentrarsi su questioni filosofiche: il metodo di esaustione sostenuto da Guldino è rigoroso, ma scomodo, mentre quello degli indivisibili è di più immediata applicazione pratica, anche se non è ancora sorretto da un adeguato impianto concettuale e formale. Polemicamente, Cavalieri giunse ad affermare persino che “il rigore (...) è affare della filosofia e non della geometria”

Nelle già citate Exercitationes geometricae sex del 1647, Cavalieri, seguendo una via diversa, confrontò non più singoli indivisibili corrispondenti sulle due figure, ma la somma degli indivisibili della prima figura con la somma di quelli della seconda. La teoria degli indivisibili può essere applicata per dimostrare, ad esempio, che l’area di un parallelogramma è il doppio dell’area di ognuno dei triangoli in cui lo suddivide ciascuna delle diagonali. 

Se, nel parallelogramma ABCD si scelgono, sui lati AD e BC, i punti G ed E in modo che GD = BE, allora i segmenti GH ed FE della figura, aventi il secondo estremo sulla diagonale, e paralleli alla base, hanno la stessa lunghezza. Quindi i due triangoli ABD e BCD sono composti da due somme uguali di segmenti a uno a uno corrispondenti, e quindi, secondo il principio degli indivisibili, le loro aree sono uguali. 


Nonostante le critiche, il metodo degli indivisibili si diffuse subito in Italia e in Europa.. Non mancarono ulteriori sviluppi, soprattutto grazie a Torricelli, che con il metodo di Cavalieri riuscì a calcolare il volume del solido iperbolico, suscitando l’ammirazione dei contemporanei e il loro stupore, dato che il problema era ritenuto impossibile. Torricelli ebbe l’accortezza di accostare alla dimostrazione con il metodo degli indivisibili anche quella “con il metodo solito di dimostrazione degli antichi geometri, il quale è bensì più lungo ma non per questo, secondo me, più sicuro”

Lo stesso Torricelli non mancò tuttavia di esprimere perplessità sul metodo di Cavalieri invitando alla prudenza nel suo impiego. In molti frammenti, raccolti sotto il titolo di Contro gl’infiniti, Torricelli presenta diversi ragionamenti fallaci, tranelli in cui si può facilmente cadere facendosi prendere troppo dal fascino degli indivisibili. Torricelli mostra ad esempio una variante scorretta del ragionamento sul parallelogramma,, che conduce ad un risultato erroneo. 


Il triangolo ABD è unione dei segmenti, paralleli ad AD, delimitati dal lato AB e dalla diagonale BD: FG è uno di questi. Analogamente, il triangolo BDC è formato dai segmenti che, come FE, sono paralleli ad AB e sono delimitati dal lato BC e dalla diagonale. Confrontando a due a due i segmenti delle due schiere, come FG e FE, si vede che ad ogni segmento del triangolo ABD ne corrisponde, nel triangolo BDC, uno più lungo. Apparentemente segue che l’area di BDC è maggiore di quella di ABD, il che, naturalmente, è falso. 

Cavalieri ebbe il merito di aver coraggiosamente preso in esame il concetto di infinitesimo e per questo deve essere considerato come uno degli anticipatori del Calculus. Il suo metodo sembrava destinato a un impiego duraturo, tuttavia, ben presto ritenuto laborioso e non sufficientemente rigoroso, venne abbandonato in seguito alla diffusione di nuovi e potenti strumenti di calcolo.

Semplicità della matematica

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Esiste un’opinione molto diffusa secondo la quale la matematica è la scienza più difficile, mentre in realtà è la più semplice di tutte. La causa di questo paradosso sta nel fatto che, proprio per la loro semplicità, i ragionamenti matematici equivoci si vedono subito. In una complessa questione di politica o arte, ci sono tanti fattori in gioco, sconosciuti o non evidenti, che è molto difficile distinguere il vero dal falso. Di conseguenza qualsiasi idiota si crede in grado di discutere di politica o arte - e in realtà lo fa - mentre guarda la matematica da una rispettosa distanza.


Da Ernesto Sábato, Uno y el Universo (1945), una delle letture più interessanti in cui mi sono imbattuto in questi giorni
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La Grande Muraglia di Kafka (e Cantor)

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"Durante la costruzione della muraglia cinese" (Beim Bau der chinesischen Mauer) è una raccolta di racconti postumi di Franz Kafka il cui titolo deriva da uno di loro, così come sono stati editi dall’amico Max Brod nel 1931. In Italia ha avuto tre edizioni: Racconti, a cura di Ervino Pocar, I Meridiani Mondadori, Milano 1970; Schizzi, parabole, aforismi, a cura di Giuliano Baioni, Mursia, Milano 1983; Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi 1917–24, a cura di Andreina Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1994.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta fu scritto nel 1917, e, purtroppo, non è concluso. Esso inizia con la descrizione delle strane modalità di costruzione del gigantesco manufatto, delle quali la voce narrante azzarda alcune spiegazioni. Ecco l’incipit, nella traduzione che ho tratto dalla rete.
La muraglia cinese è stata terminata nel suo cantiere più settentrionale. La costruzione fu condotta da sud-est e da sud-ovest, e qui ebbe luogo l’unificazione. A questo sistema di frazionamento ci si attenne in piccolo anche nell’ambito dei due grandi eserciti di operai, l’esercito dell’est e quello dell’ovest. Avvenne così, vennero formati gruppi di circa venti operai i quali avevano da erigere una frazione di muraglia della lunghezza di circa cinquecento metri, incontro a loro un gruppo adiacente edificava poi una muraglia della stessa lunghezza. Dopo però che l’unificazione era effettuata, la costruzione, al termine di questi circa mille metri, non veniva proseguita, anzi, i gruppi di lavoro erano inviati in tutt’altre regioni a edificare la muraglia. Naturalmente risultarono in questo modo molte grosse lacune, che soltanto poco a poco, lentamente, vennero colmate, parecchie addirittura soltanto dopo che si era proclamato il completamento della costruzione della muraglia. Anzi, ci devono essere lacune che proprio non sono state chiuse, secondo molti esse sono molto più estese delle frazioni costruite, un’affermazione del resto che appartiene forse solo alle numerose leggende che sono sorte intorno alla costruzione e che non sono verificabili da parte delle singole persone, almeno, non con i loro occhi e con il loro metro, in conseguenza dell’estensione della costruzione. Ora, si crederebbe a priori che sarebbe stato in ogni senso più vantaggioso costruire in modo continuo o almeno in modo continuo entro le due frazioni principali. La muraglia fu sì pensata, come viene in genere divulgato, ed è noto, con scopo di difesa dai popoli del nord. Come poteva tuttavia difendere, una muraglia discontinua? Di più, una tale muraglia poteva non soltanto non difendere, la stessa costruzione è costantemente in pericolo. Queste frazioni di muraglia abbandonate possono anzi sempre di nuovo esser distrutte con facilità dai nomadi, tanto più che costoro, una volta messi in stato di angoscia dalla costruzione della muraglia, ad una velocità misteriosa, come cavallette, cambiavano d’insediamento, e per questa ragione forse possedevano una visione d’insieme dell’avanzamento della costruzione migliore di quella che avevamo noi stessi costruttori. Ciò nonostante la costruzione non poteva certo esser condotta altrimenti che come è avvenuto. 

In un articolo comparso recentemente sul Journal of Humanistic Mathematics, Kevin P. Knudson, matematico e divulgatore dell’Università della Florida (1) fa notare come la costruzione della Muraglia nel racconto di Kafka proceda più o meno per iterazioni successive in modo contrario a quello con cui si costruisce l’insieme di Cantor. Si tratta quasi certamente di una scelta narrativa non intenzionale da parte del grande autore praghese, ma indica come avesse ragione Jorge Luis Borges quando scrisse che “Due idee – o piuttosto due ossessioni – pervadono l’opera di Franz Kafka. La prima è la subordinazione, la seconda è l’infinito” (e si sa quanto l’argentino parlasse anche di sé).

Trovo affascinante questa idea di Knudson, e mi piace pensare al fatto che la più grande costruzione dell’umanità possa essere pensata come nata a partire da una polvere (di Cantor, vabbè).

(1) Knudson, K. P. «Franz and Georg: Cantor’s Mathematics of the Infinite in the Work of Kafka,» Journal of Humanistic Mathematics, Volume 7 Issue 1 (January 2017), pages 147–154. DOI: 10.5642/jhummath.201701.12 . Available at: http://scholarship.claremont.edu/jhm/vol7/iss1/12

La predestinazione di Durval (Galois secondo Leo Perutz)

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Nato a Praga da una agiata famiglia ebreo-tedesca di commercianti, lo scrittore Leo Perutz (1882-1957) aveva studiato calcolo delle probabilità, statistica, matematica attuariale ed economia politica e trovò lavoro come statistico attuariale in una società d'assicurazione di Vienna (come altri austro-ungarici, da Kafka a Svevo, arrivati alla narrativa dalla scrivania). Nella capitale imperiale incominciò a frequentare i circoli e i caffè letterari. Nel 1906 pubblicò il suo primo racconto e, nel marzo 1907, la sua prima novella. Come statistico attuariale, Perutz avrebbe anche lasciato un contributo scientifico degno di nota, studiando i tassi di mortalità, pubblicando articoli su riviste specialistiche e ricavando la cosiddetta formula di equivalenza di Perutz, relazione che sarebbe stata a lungo utilizzata nel settore. Per tutta la vita lo scrittore si interessò di matematica, che ebbe un ruolo chiave nella costruzione della sua opera letteraria. 

Era sulla trentina allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914. Arruolato nell'esercito austro-ungarico, partì tra i primi per il fronte orientale, ma fu ferito quasi subito e rimpatriato. Quegli anni videro i suoi primi successi letterari: i racconti brevi Il terzo proiettile, del 1915, e Il miracolo dell’albero di mango, dell’anno successivo, scritto assieme a Paul Frank, dal quale fu tratto anche un film nel 1921. Il successo continuò dopo la guerra, quando pubblicò una serie di racconti e novelle storico-fantastici come Il Marchese di Bolibar (1920), il bestseller Il Maestro del Giudizio Universale (1923), Turlupin (1926) e Tempo di spettri (1928). Giunto all’apice della carriera, la sua esistenza subì un tracollo. La morte della moglie, nel 1928, gli provocò una grave crisi. Si risposò nel 1934, poco prima che l’Anschluss dell’Austria alla Germania nazista lo costringesse a una vita d’esilio. Nel 1938 trovò rifugio in Palestina, dovendo ricominciare tutto daccapo, a disagio in un ambiente di cui non comprendeva la lingua e, da laico non praticante, le idee. Dopo la guerra tornò in Austria nel 1950, ma il pubblico sembrò essersi dimenticato di lui. Nel 1953 pubblicò la novella di ambientazione praghese Di notte sotto il ponte di pietra, mentre la sua ultima opera, Il Giuda di Leonardo, uscì postuma nel 1959, due anni dopo la sua morte avvenuta a Bad Ischl nel 1957. 

Trascurato dalla critica per decenni, ci fu chi lo considerò uno scrittore di avventure bizzarre, un po’ Salgari un po’ Balzac. In Italia, come fece notare Oreste Del Buono, Ladislao Mittner nella prima edizione della sua Storia della letteratura tedesca non lo citava nemmeno nell'indice dei nomi. Fu riscoperto negli anni ’70 del Novecento, quando Borges curò la pubblicazione di alcune sue opere in Argentina e, da noi, incominciarono le traduzioni uscite presso Adelphi. Corrado Augias ha scritto che “Una delle ragioni per le quali Perutz è stato trascurato potrebbe nascondersi proprio nella difficoltà di capire che razza di scrittore fosse, cioè di dare ai suoi romanzi una collocazione sicura all' interno d'un genere riconoscibile”. Né giallista, né scrittore di noir, né troppo realista né troppo fantastico, secondo Augias 
“Leo Perutz sembra, in conclusione, un vero scrittore d'avventure, uno di quei narratori da feuilleton nei quali questi vari generi si ritrovano e s'intrecciano e dove pagine di alta scrittura si alternano ad altre più di maniera. Un narratore, insomma, capace di costruire con immensa abilità d'artigiano e alta resa drammatica, una storia intorno a dei personaggi e a una trama abilmente calcolata. Uno degli elementi comuni a tutti i suoi romanzi, è il ruolo giocato dal destino sullo sviluppo dei fatti e la vita dei protagonisti. Il nocciolo dei suoi racconti gira attorno a un uomo prigioniero d'una ossessione, cioè un fanatico, col quale il destino si diverte a giocare un po', prima d'assestargli il colpo conclusivo”. 
Proprio questo è il tema dominante di Il giorno senza sera (Der Tag ohne Abend), un racconto breve pubblicato nel 1930 nella raccolta Signore, abbi pietà di me (Herr, erbarme dich meiner). Secondo i diari di Perutz, egli scrisse questa storia in preda a una sorta di “furor” nell’arco di cinque giorni nel novembre 1924. Questo estro (che ricorda il Furor mathematicus che dà il titolo a una raccolta di Leonardo Sinisgalli del 1944) si riflette nell’atteggiamento del protagonista, Georges Durval, affetto da una vera e propria esplosione di creatività matematica, evidentemente ispirato alla biografia degli ultimi mesi di vita di Évariste Galois. Perutz non parla direttamente del matematico francese, collocando le vicende nel 1912 e spostandole da Parigi a Vienna, ma, anche se Durval non è affatto un rivoluzionario o un matematico “per vocazione”, il nucleo della storia è evidente a chi è familiare con la storia della matematica e con la biografia di Galois. 

Il riferimento a Galois si accompagna già dal titolo a un'altra significativa circostanza: gli scritti di Agostino d’Ippona. “Il giorno senza sera” è il dies sine vespera che si trova nelle Confessioni (XIII, 36, 51) e che conferisce un senso profondamente filosofico e teologico alla storia. Ecco il passo: 
“Ma il settimo giorno è senza sera e non ha tramonto. L'hai santificato per farlo durare eternamente. Il riposo che prendesti al settimo giorno, dopo compiute le tue opere assai buone, benché niente turbasse la tua quiete, è una predizione che ci fa l'oracolo del tuo Libro: noi pure, dopo compiute le nostre opere, buone assai per tua generosità, nel sabato della vita eterna riposeremo in te”. 

Il racconto di Perutz trasforma i riferimenti alla leggenda di Galois e alla meditazione teologica agostiniana sulla Genesi in una riflessione che parte dal senso (o il nonsenso) della storia controfattuale ("che cosa sarebbe successo se...") e termina stabilendo i confini tra la conoscenza e creazione umana e quella divina. Così, la cronaca romanzata, meta-biografica sulla fine di Durval/Galois evolve in una cronaca romanzata, filosofica, sulla condizione umana. 

La struttura dell’opera è articolata in ordine cronologico in sette parti (come i giorni della creazione), che nella prima edizione erano suddivise graficamente da asterischi. La trama è abbastanza semplice: Georges Durval è un dandy dai molti interessi, che pratica in modo dilettantesco e improduttivo, tra i quali gli scacchi, la musica e la matematica. Il suo stile di vita prosegue immutato fino a quando, come dichiara il narratore, “il fato e la predestinazione di Georges Durval si ricordarono di lui”

La svolta avviene la sera del 14 marzo 1912, quando un suo commensale in un ristorante lo insulta per futili motivi e poi lo sfida a duello. Mentre la sfida viene rimandata di alcune settimane, Durval è colto da una “particolare inquietudine” e incomincia a occuparsi sempre più di matematica. I suoi studi matematici presto lo coinvolgono completamente, spezzando i suoi precedenti legami con la società. 

L’ossessiva attività matematica continua persino quando arrivano i suoi secondi, la mattina del duello, il 25 aprile 1912, e poi durante la preparazione dello stesso (il trasferimento fino alla località prescelta, il tentativo di riconciliazione, le ultime istruzioni). Durval è interessato solo ai suoi problemi matematici. Alla fine i duellanti sparano, e il narratore afferma laconicamente: “Questo giorno non ebbe sera”, rivelando così la morte del protagonista. Nell’ultima parte dell’opera, Perutz fornisce un commento in cui accenna, da un lato, ai fatti successivi (la pubblicazione postuma degli scritti di Durval da parte di una “società accademica”) e, dall’altro lato, a una possibile interpretazione della storia: 
“La storia di Georges Durval doveva essere raccontata. Certe volte ho l’impressione che possa fornire una comprensione degli eventi del mondo. Si può discutere se i grandi della scienza, dell’arte o della letteratura (…) che morirono giovani avessero potuto aggiungere anche solo una riga alle loro opere, se la morte li avesse risparmiati. Può darsi che il destino chiama solamente coloro che non hanno più niente da dare, che, alla fin fine, sono finiti, vuoti, e consumati”. 
Queste considerazioni sono degne di nota per molti motivi. Il narratore le introduce per interrompere improvvisamente la narrazione, per rivelarsi come il narratore in prima persona e usurpare il lettore della sua propria interpretazione. In effetti, altri racconti di Perutz contengono commenti interpretativi finali, ma in questo caso non c’è semplicemente la rivelazione della morale, e neppure un semplice riferimento all’esemplarità storico-filosofica delle vicende narrate. Piuttosto, attraverso il caso specifico di Durval/Galois, Perutz chiama in causa la pratica degli scenari controfattuali, la domanda che le vite dei “grandi morti giovani” sembrano suscitare. 

Che cosa sarebbe successo se Galois non fosse morto così giovane? Pensieri di questo tipo sono sempre affiorati nella letteratura su Galois che Perutz sfida, invitando a una discussione più approfondita. Liouville, che aveva raccolto e fatto conoscere le opere di Galois, sostenne nel 1846 che se non ci fosse stato quel tragico duello, il giovane matematico avrebbe potuto espandere le scienze matematiche in modi interessanti. Felix Klein era convinto che Galois avrebbe potuto aprire nuove strade che il mondo non poteva neanche immaginare. Entrambi erano convinti della linearità storica e della crescita cumulativa del sapere matematico, che singoli tragici eventi possono rallentare ma non fermare. In questo contesto le domande controfattuali sembrano lecite, anche se nulla aggiungono alla conoscenza storica. 

Più scettico sull’immaginazione controfattuale riguardante la vita non vissuta di Galois fu lo storico della scienza George Sarton che, nella sua biografia del 1921, considerava simili speculazioni totalmente inutili. Piuttosto pensava che l’immortalità del matematico francese risiede proprio nella brevità della sua esistenza terrena. Perutz sembra concordare in parte con Sarton, anche se l’arma narrativa che possiede in più dello storico gli consente una maggior libertà di esprimere le sue idee, che i critici hanno contrassegnato come “una visione fatalistica della storia”, secondo la quale “caso e necessità” coincidono in modi che sembrano assurdi all’osservatore umano. 

In Il giorno senza notte queste idee ricevono una declinazione particolare, collegata sia ai riferimenti biografici a Galois, sia al contesto teologico delle idee agostiniane sulla creazione e la predestinazione. Perutz trae da Agostino non solo il titolo, ma anche la struttura narrativa in sette parti in cui si articola il racconto. 

Ciò che il narratore identifica come l’intervento del destino e la “predestinazione” di Georges Durval è quanto il protagonista stesso prova come una spinta interna di cui si ssente completamente succube. Dopo che il suo interesse per i problemi matematici è stato risvegliato, egli sperimenta eccitazione e una “particolare inquietudine” la cui origine non risiede nei suoi timori sull’incipiente duello. Egli si sente come se fosse eccitato da un “demone” (“la fureur des Mathématiques le domine”, come ebbe a dire il professore di Galois) e trova pace e temporaneo conforto solamente nell’attività matematica. La matematica lo aveva interessato anche in precedenza e talvolta aveva varcato i confini della “matematica superiore” pensando, come ci informa il narratore, “alla rettificazione di famiglie di curve isotermiche” attraverso “l’espansione del teorema di Picard”. Contrariamente alla maggior parte dei biografi di Galois, Perutz sembra essere indifferente alle idee politiche del protagonista. Durval è dominato dal suo furor mathematicus, il solo interesse cui si dedica prima del duello: 
“Il suo momento era la sera. Una profonda lucidità lo coglieva tutte le sere alla luce della lampada, portandogli la percezione di collegamenti nascosti. In quei momenti lavorava con quieta maestria, gli occhi sullo scopo”. 

La descrizione di Perutz della creatività matematica poco si discosta dal diffuso stereotipo del matematico socialmente isolato, concentrato per intero sul suo lavoro, che scorda anche la situazione di pericolo in cui si trova. Contemporaneamente, Perutz consente al Durval di “maturare”, con una chiara eco dell’idea agostiniana di una pace interiore (“nel sabato della vita eterna riposeremo in te”) raggiunta attraverso l’esercizio contemplativo e intellettuale dopo una giovinezza sprecata negli eccessi. Per Durval, dopo essere stato sfidato a duello, l’avventura che aveva in precedenza cercato nella vita sociale sembra aver perso ogni traccia di fermento, soppiantata dall’avventura spirituale che trova nella matematica, nel regno “dei punti singolari” delle curve di Cayley e della “teoria delle equazioni differenziali”

Durval raggiunge il suo “scopo”. Lavora sui suoi problemi matematici letteralmente fino al suo ultimo respiro: poco prima di partire per il duello, butta giù “formule algebriche” sul retro di uno “scontrino di lavanderia”, approfitta di una fermata della carrozza per scrivere “un lungo sviluppo in serie sul tavolo di marmo” di un locale, e chiede persino al testimone “un pezzettino di carta” sul quale spera di scarabocchiare qualche idea dell’ultimo minuto. Il riferimento alle leggende che circondano l’ultima notte di Galois è inequivocabile. La descrizione di Perutz non è inferiore in drammaticità, in quanto Durval non smette mai di far calcoli. La narrazione parallela degli eventi del duello e dei pensieri matematici, entrambi sempre più concitati e prossimi alla conclusione, raggiunge il suo climax: 
“I secondi misurarono la distanza. Indifferente a quanto stava accadendo attorno a lui, Georges Durval stava presso la parete di legno che delimitava l’area del duello e faceva calcoli. Il secondo aveva caricato le pistole… In quel momento Georges Durval si girò. Con il pezzo di carta ancora in mano, camminò verso il Capitano Drescovich [uno dei suoi padrini]. Il suo viso mostrava pace e completa indifferenza. Aveva portato a termine il suo lavoro”. 

Con questo gesto Durval conferma dal proprio punto di vista la teoria del narratore che segue immediatamente: “il destino chiama solamente coloro che non hanno più niente da dare, che, alla fin fine, sono finiti, vuoti, e consumati”. Durval aveva completato il percorso assegnatoli dal destino attraverso la soluzione del suo problema matematico, così che la pace e l’indifferenza che prova nonostante l’incombente duello, che contrastano con il precedente disordine della sua vita e il furore matematico, si possono pienamente giustificare con il completamento della sua creazione. La sua progressiva rinuncia agli interessi mondani in favore della contemplazione matematica trova qui il suo definitivo epilogo. Ciò nonostante, la catena di pensieri persiste nella sua testa. Appena dopo aver raggiunto la soluzione, inizia a pensare a una riformulazione più elegante della sua idea e pensa di rifletterci la sera: 
“La formula può essere facilmente suddivisa in una parte reale e una immaginaria, disse Durval a se stesso. Ci deve essere un altro tipo di soluzione, più elegante. Ad ogni modo, stasera, quando…” 
Due spari interrompono questi pensieri e il narratore smentisce il suo eroe caduto: “Questo giorno non ebbe sera”

Durval ha completato il cammino a cui era predestinato, tuttavia la sua opera creativa rimane incompleta e, in un certo senso, non può essere completata. In effetti egli ha dato solo un piccolo e incompleto contributo al complesso del sapere matematico, che progredisce con il tempo e nel tempo e rimane tutt’altro che finito e completabile. Durval lo comprende nel momento stesso in cui giunge la morte: ci deve essere ancora “un altro tipo di soluzione, più elegante”. Perutz sottolinea l’impressione di incompletezza con un ultimo cenno a quanto Durval lascia dietro di sé. I curatori della pubblicazione del suo archivio non potranno mai ammirare la sua soluzione completa: 

“Quando la sua opera sarà disponibile, raccolta in 10 volumi, anche allora rimarrà un incompiuto. Il suo lavoro finale non sarà mai trovato. Esso è distribuito tra il retro di uno scontrino di lavanderia, il tavolo di marmo di un caffè e un foglietto di taccuino, disperso nel vento”.



Albrecht, A. "The Day Without Evening: Leo Perutz, Evariste Galois, and Augustine,"
Journal of Humanistic Mathematics, Volume 2, Issue 1 (January 2012), pages 2-21.
DOI: 10.5642/jhummath.201201.03.

La matematica come struttura letteraria: la combinatoria

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Negli anni fecondi delle neoavanguardie letterarie, nella prima metà degli anni ’60, si cominciò a teorizzare l’applicazione di concetti matematici per la costruzione di testi letterari, poetici o in prosa, in modo che la matematica, da oggetto di letteratura, ne diventasse la struttura. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di applicazioni diverse, come il calcolo combinatorio, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Inoltre lo sviluppo di quelli che allora si chiamavano calcolatori elettronici favorì la nascita dei primi esperimenti ipertestuali. In queste righe ci occuperemo in particolare delle opere basate sulla combinatoria.

Il poeta, romanziere e saggista Nanni Balestrini, già al suo esordio letterario (1961), scrisse Tape Mark 1, una “poesia combinatoria composta con l’ausilio di un calcolatore elettronico” IBM, pubblicata nell’Almanacco Letterario Bompiani del 1962. Il testo si compone di 15 elementi ripresi da opere già esistenti, il Diario di Hiroshima di Michilito Hachiya, Il mistero dell’ascensore di Paul Goldwin e il Tao Te King di Laotse, e costituiti da sintagmi a loro volta formati da 2 o 3 unità metriche e contraddistinti da un codice di testa e uno di coda a indicare le possibilità sintattiche di legame. Da questo materiale è stata tratta dal calcolatore una poesia di sei strofe di sei versi ciascuna con ogni verso di 4 unità metriche; ciascuna strofa risulta formata da una diversa combinazione parziale del testo (10 elementi per volta), con minimi interventi grammaticali e di punteggiatura apportati alla fine. Il risultato, voluto secondo i canoni estetici dell’autore, è un’opera in cui i normali rapporti sintattici sono stravolti o aboliti. Ecco la prima strofa:

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

Immagine di Andrea Valle

Più noti e meno ostici sono I Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau (1961), che offrono un dispositivo di lettura combinatoria a base di linguette intercambiabili sulle quali sono scritti uno per uno i versi di un insieme di dieci sonetti (con 14 versi ciascuno). Ciò perché l’autore ha scritto i sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione. In termini matematici si tratta di una disposizione con ripetizione con n=10 e k=14, per un totale di 1014 combinazioni (centomila miliardi, appunto). Così, a seconda di una qualsiasi delle eventuali scelte, è possibile leggere sonetti come quelli di cui si propone come esempio la prima strofa:

(da http://www.parole.tv/cento.asp , dove un generatore automatico permette di ottenere tutti i 1014 sonetti di Queneau)

Nelle “Istruzioni per l'uso” poste a introduzione del suo libro, Queneau sostiene un po’ compiaciuto che “Calcolando 45" per leggere un sonetto e 15" per cambiare la disposizione delle striscioline, per otto ore al giorno e duecento giorni all'anno, se ne ha per più di un milione di secoli di lettura. Oppure, leggendo tutta la giornata per 365 giorni l'anno, si arriva a 190.258.751 anni più qualche spicciolo (senza calcolare gli anni bisestili e altri dettagli)” (ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, Einaudi, Torino, 1981).



Nella prefazione alla prima edizione dei Cent mille milliards de poèmes, il matematico François Le Lionnais (ora nell’opera collettiva La letteratura potenziale - Creazioni Ricreazioni Ri-creazioni, Bologna, Clueb, 1985) coniò la formula “letteratura combinatoria” per collocare l’opera di Queneau, definendola come l’insieme delle pratiche letterarie in cui l’opera non fissa a priori l’ordine dei brani di testo che la compongono, ma ne dispone anzi la ricombinazione secondo procedimenti formalizzati. In questo modo, l’opera combinatoria non viene letta, ma giocata: nel puzzle della “letteratura combinatoria” il fruitore trova delle tessere di partenza, che può smontare e rimontare a piacere seguendo le “regole del gioco” indicate. Al lettore non viene più chiesto solo un lavoro di interpretazione o d'immaginazione, ma, a seconda dei casi, un'attività di costruzione o di coproduzione del testo stesso. Il lettore interagisce, viene condotto a manipolare un dispositivo che produce ciò che gli è dato da leggere, e due lettori non leggeranno forse mai lo stesso testo. Questo gioco del fare letterario delega così al lettore una parte rilevante della funzione di autore.

Ancor più radicale di quella di Queneau è la scelta di Marc Saporta, che nel romanzo Composizione n. 1 riduce il testo ad una sequenza di frammenti che possono essere letti in un ordine qualsiasi. Ogni pagina descrive una scena in cui agisce un personaggio. In questo caso la libertà del lettore è totale, perché egli può leggere il testo disponendo come crede l’ordine delle pagine. Per questo scopo, le pagine del romanzo, non numerate, sono separate fisicamente le une dalle altre, e stampate solo sul recto, mentre il verso è bianco. La fascetta che tiene unite le pagine riporta la frase: “TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo” (Marc Saporta, Composizione n. 1, Lerici, Genova, 1962). Nella prefazione all’edizione originale francese, Saporta avverte: “Il lettore è pregato di mescolare queste pagine come un mazzo di carte. Di tagliare, se lo desidera, con la mano sinistra, come si fa da una cartomante. L’ordine con il quale le pagine usciranno dal mazzo orienterà il destino di X. Infatti il tempo e l’ordine degli avvenimenti regolano la vita più che la natura degli avvenimenti stessi”. In questo caso si tratta di una permutazione di 143 pagine, gli elementi, per cui le possibili combinazioni sono date da 143! = 2,69 × 10245, numero che giustifica la successiva considerazione:“Una vita si compone di elementi multipli, ma il numero delle possibili combinazioni è infinito”.



Ogni pagina è un elemento a sé stante. Evidentemente non c’è una trama lineare: l’impressione è che i frammenti di testo si presentino così come affiorano nella testa di X, il protagonista, alla maniera di ricordi strappati dal terapeuta alla mente di un paziente. Per fortuna una qualche sorta di lasco legame c’è: i personaggi ricompaiono, certe scene sono simili ad altre, certe situazioni sembrano ripetersi, in qualche caso si sovrappongono. La scelta di Saporta fa sì che Composizione n°1 sia il tipico libro in cui succede poco. Poiché le pagine devono poter essere lette in ogni combinazione possibile, è come se ciascuna di esse dovesse essere abbastanza indefinita da non vincolarne troppo il senso. Il lettore che si aspetta il racconto di una storia, che cerca la sicurezza di parametri di riferimento spazio-temporali precisi, rimane deluso. Il libro va preso per quello che è: un serio esperimento anticipatorio, il cui solo godimento, che è quello di comporre i pezzi di un puzzle, è penalizzato dal supporto cartaceo, l’unico disponibile quando fu scritto.

La differenza tra i due testi risiede nel grado di libertà che è concessa al lettore, che a sua volta è funzione del congegno combinatorio adottato. Nei Cent mille milliards des poèmes la struttura testuale è suddivisibile in classi di elementi combinabili secondo un ordine stabilito, con una logica che il matematico oulipiano Claude Berge ha definito esponenziale, mentre in Composizione n. 1 le combinazioni (permutazioni) tra i frammenti sono totalmente affidate al caso, con una logica fattoriale. Lo schema illustra le due strutture:


Queneau, Le Lionnais e Saporta erano tutti francesi. E in Francia nel 1960 proprio i primi due avevano fondato l’organismo di ricerca sperimentale OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), al quale avrebbero poi aderito Perec e Calvino. È da questo gruppo di matematici con passioni letterarie e uomini di lettere con l'amore per i numeri che il fantasma della combinatoria ha cominciato ad aggirarsi nel mondo letterario.

Sin dalla fondazione, le regole del gruppo furono così enunciate: “Definiamo letteratura potenziale la ricerca di nuove forme e strutture che potranno essere utilizzate dagli scrittori nella maniera che più gli piacerà”. “Potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che possa creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. Queneau spiegava spesso che alcuni suoi lavori potevano sembrare semplici passatempi, semplici jeux d'esprit, ma ricordava che anche la topologia o la teoria dei numeri nacquero, almeno in parte, da quella che una volta si chiamava "matematica divertente".

Nanni Balestrini tornò nel 1966 alla letteratura combinatoria, questa volta in prosa, con il “romanzo” Tristano, e le virgolette sono più che giustificate. Si tratta infatti di un testo, che nulla ha a che fare con l’archetipo del romanzo d’amore suggerito dal titolo. Composto da dieci capitoli, a loro volta composti da venti paragrafi di frasi tratte da testi già esistenti (atlanti, romanzi rosa, giornali, guide turistiche, manuali), in cui le convenzioni del romanzo sono sovvertite, è il tutto a generare la frase, o meglio a rivelare il meccanismo di scrittura. Ogni frase compare due volte in due diversi capitoli, cambiando senso a seconda del contesto, e spesso la giustapposizione di questi elementi fa vacillare il significato e i consueti riferimenti spazio-temporali. Inoltre alcune delle frasi inserite sono volutamente ambigue, potendo riferirsi alla vicenda descritta o al dispositivo di scrittura in maniera autoreferenziale:

“Ma in certi casi è necessario per impedire che la vicenda continui a svilupparsi introdurre elementi che servano ad arrestarla e giustifichino la ripetizione”.

“Niente obbliga a finire una frase essa è infinitamente catalizzabile vi si si può sempre aggiungere qualcosa”.

“La questione non è tanto la storia in sé bensì quali effetti può produrre quali sviluppi quali dinamiche innescare”.

“Le combinazioni sono infinite. Tutte le storie sono diverse una dall’altra. È tutto come un gioco”.

Un nome proprio, indicato con la lettera C (non puntata) fa riferimento di volta in volta a un personaggio femminile, a uno maschile, a un luogo, o a tutto ciò che porta un nome, volendo sottolineare come ogni elemento sia realtà intercambiabile, sia cioè funzione di C in base a leggi che il lettore deve, più che indovinare, imporre al testo. Non si tratta certamente di una lettura agevole! Le tecnologie dell’epoca consentirono nel 1966 la pubblicazione di uno solo dei 1,09 × 1014 libri differenti potenzialmente generati dal dispositivo di scrittura adottato. La nascita della stampa digitale e il printing on demand consentono ora al lettore di avere una copia fisica del libro unica e sua personale, diversa da tutte le altre. La riedizione di Tristano attuata nel 2007 consiste di diecimila copie uniche, ciascuna caratterizzata da un codice alfanumerico di 6 caratteri.

Un altro scrittore affascinato dalle possibilità della combinatoria è stato Italo Calvino, che aderì all’Oulipo nel 1973 durante il suo lungo soggiorno parigino, anche se da tempo aveva mostrato interesse per i rapporti tra lettere e scienza. Le concezioni oulipiane influenzano la struttura di alcuni dei suoi ultimi libri, in particolare deIl castello dei destini incrociati, di cui ebbe a dire che si trattava di una macchina "per moltiplicare le narrazioni partendo da elementi figurali dai molti significati possibili come può essere un mazzo di tarocchi". In effetti, come spiega lo stesso autore nella postfazione, la spinta alla stesura del testo che dà il nome all’opera venne dall’invito dell’editore Franco Maria Ricci a scrivere un commento per la lussuosa edizione di un mazzo di tarocchi del XV secolo noto come Tarocchi Viscontei. Le suggestioni evocate dalle splendide illustrazioni delle lame hanno spinto Calvino a congegnare dodici storie, a ciascuna delle quali l’autore ha posto in chiusura la sequenza di carte utilizzata per raccontarla. Le infinite possibilità della combinatoria sono rappresentate per lo scrittore da “questo quadrilatero di carte che continuo a disporre sul tavolo tentando sempre nuovi accostamenti non riguarda me o qualcuno o qualcosa in particolare, ma il sistema di tutti i destini possibili, di tutti i passati e i futuri, è un pozzo che contiene tutte le storie dal principio alla fine tutte in una volta”.

Nell’opera, alcuni personaggi, resi muti da un incantesimo, raccontano la propria avventura allineando su un tavolo dei tarocchi. La prima carta estratta da ciascuno dei commensali è fondamentale, perché si identifica con il personaggio e ne rappresenta il destino. Questi utilizza poi sedici carte (che estrae dal mazzo o trova già disposte da altri), che, sistemate in due colonne o righe, rappresentano l’effettivo svolgimento della storia. Dal meccanismo combinatorio delle diverse disposizioni scaturisce una matrice di racconti, leggibile in ogni direzione.

Nella figura è illustrata la disposizione delle carte sul tavolo. Come esempio sono evidenziate quelle che determinano i primi due racconti, cioè Storia dell’ingrato punito (con bordo rosso) e Storia dell’alchimista che vendette l’anima (con bordo blu). Le carte iniziali sono numerate.


Alcuni commentatori hanno fatto notare come Il castello non rispetti fino in fondo il meccanismo combinatorio adottato: le carte utilizzate sono 73, mentre l’intero mazzo dei tarocchi ne comprende 78 (22 arcani maggiori più 56 arcani minori). Se Calvino ha sacrificato delle carte alle esigenze combinatorie dello schema, non si comprende allora perché ne abbia utilizzata una in più del necessario, quella indicata con il fondo grigio.

La letteratura combinatoria meriterebbe una trattazione più ampia, per non dire “infinita”. Non abbiamo parlato delle sue radici (dai trovatori provenzali a Mallarmé); delle restrizioni formali mutuate dalla matematica inventate dagli oulipiani, delle opere anticipatrici di un grande scrittore come Jorge Luis Borges, del capolavoro La vita: istruzioni per l’uso di Georges Perec, e di molto altro ancora. Con la combinatoria ci vuol pazienza.

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Questo articolo è comparso sul numero 03/2016 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.

Euclide in Cina

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Nel 1582 un gruppo di missionari gesuiti condotto da Matteo Ricci (1552-1610) entrò in Cina, con lo scopo di evangelizzare quel lontano paese. I cinesi non erano tuttavia molto propensi a convertirsi a questa nuova e straniera religione e i missionari scoprirono che questi presunti "pagani" erano un popolo altamente civilizzato. L'obiettivo della conversione sarebbe stato lungo e difficile. I missionari si stabilirono, impararono la lingua cinese e adottarono molti costumi locali. Anche se non erano interessati al sapere religioso che questi europei portavano con sé, i dirigenti cinesi furono incuriositi dalle abilità tecniche e scientifiche possedute dai gesuiti.

Pur essendo istruito in teologia, ciascun gesuita possedeva anche una formazione accademica nelle arti e nelle scienze del tempo. Accettati come sapienti, i Gesuiti furono ammessi nel 1601 nei circoli della corte dei Ming, dove insegnarono ai cinesi in vari campi, tra cui la riforma del calendario, l'astronomia, la cartografia, la gittata dei cannoni e la matematica. Matteo Ricci tradusse in cinese i testi della matematica occidentale che aveva portato con sé. Assistito da Xu Guangqi, alto funzionario della burocrazia imperiale, nonché scienziato, studioso di agricoltura ed astronomo, nel 1607 Ricci iniziò a tradurre gli Elementi di Euclide. Il testo che utilizzarono fu il commentario latino redatto nel 1574 da Cristoforo Clavio, maestro di Ricci al Collegio Romano, gli Euclidis elementorum libri XV, che era il testo euclideo più facilmente reperibile in Europa. Ricci e Xu intrapresero la traduzione e la trascrizione dei primi sei libri degli Elementi. La loro opera, Yuan rong jioa yi (Trattato sulla Geometria), fu pubblicata a Pechino nel 1607. Nella sua prefazione, Ricci si indirizzava al pubblico cinese, dicendo:
"[Gli Elementi] procedono dai dettagli evidenti a quelli particolari, dal dubbio alla certezza. Ciò che appare inutile è utilissimo, in quanto è il fondamento di tutto. [Gli assiomi e i postulati] sono la forma fondamentale delle miriadi di forme, il risultato di cento scuole di sapienza".
Il testo conteneva diciotto proposizioni. La sfera e il suo volume erano trattati come un esempio della perfezione divina. I gesuiti sostenevano ancora il concetto di un universo strutturato in sfere concentriche e tentarono di promuovere questa idea tra i cinesi, ma gli astronomi di corte la rifiutarono. Notando che tutto sulla Terra ha una forma, il testo proseguiva spiegando le proprietà di cerchi, poligoni, rettangoli e del triangolo equilatero. La sfera era promossa come l'oggetto geometrico che possiede il volume più grande. Mentre alcuni studiosi cinesi trovarono affascinante è utile il metodo deduttivo di ragionamento, il Trattato sulla Geometria ebbe solo un impatto limitato sulla matematica cinese. Xu voleva tradurre tutta l'opera di Clavio, preoccupato per la gravità della crisi degli studi matematici cinesi iniziata alla fine del XIV secolo. Due secoli dopo, molti dei principali risultati della ricerca matematica risultavano incomprensibili alla maggior parte degli intellettuali cinesi. Xu attribuiva le cause di questa situazione all’abbandono delle pratiche del calcolo da parte degli studiosi, al legame fortissimo che nella cultura popolare intercorreva tra matematica e pratiche divinatorie, per cui la numerologia mistica squalificava tutta la scienza matematica, e, infine, alla difficoltà dei testi della letteratura matematica, che usavano un linguaggio assai lontano da quello contemporaneo. Ricci, tuttavia, forse volendo prima vedere l'effetto del loro lavoro, si rifiutò, sperando che qualcun altro completasse il progetto. La traduzione fu completata solo nel 1875, quando l'erudito Li Shanlan e un traduttore occidentale, Alexander Wyle, tradussero i libri rimasti degli Elementi.


Xu, nel testo “Varie riflessioni sugli Elementi di Geometria”, mostrò tutto il suo entusiasmo per la riscoperta di questa scienza e la comprensione del suo carattere e significato. Egli elogiò la sua lucidità e la sua coerenza logica, la modestia intellettuale e le virtù morali. Inoltre replicava a coloro che lamentavano lo stile asciutto della traduzione consigliando di studiarla con impegno per dieci giorni e prediceva che entro cento anni tutto il mondo l’avrebbe studiata. Xu informava nelle note che, dopo la pubblicazione del 1607, circolavano due copie riviste in manoscritto, la seconda delle quali redatta da Ricci prima della morte. Questa copia, rivista da Xu e dai gesuiti Diego Pantoja e Sabatino De Ursis, fu stampata a Pechino intorno al 1611.

Nel 1644 cadde la dinastia Ming, sostituita dai Qing, fondata dai manciuriani invasori. Una missione gesuita rimase alla corte imperiale. L’imperatore Kangxi era interessato alla civiltà dell’Occidente, particolarmente alla scienza e alla matematica. Scelse allora due missionari francesi, Jean Francois Gerbillon e Joachim Bouvet, il futuro corrispondente di Leibniz sul sistema binario e lo I-Ching, per insegnargli queste discipline. Essi pensarono che la Geometria di Xu e Ricci fosse troppo complicata per fini didattici e intrapresero una loro personale traduzione degli Elementi.

Per questo scopo utilizzarono gli Elements de geometrie (1671) del gesuita francese Ignace Gaston Pardies (1636-1673). Costui aveva rotto con la tradizione e, in aggiunta all’opera di Euclide, aveva introdotto nel suo testo anche idee di Archimede e Apollonio. La traduzione di Gerbillon e Bouvet, Ji he yuan ben [Gli Elementi di Geometria], fu completata nei primi anni ‘90 del Seicento.


“Pietroburgo” e il paradosso di Banach-Tarski.

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La copertina dell'edizione di Adelphi

Come far passare la voglia di costruire ponti


Il moscovita Andrej Belyj, pseudonimo di Boris Nikolaevic Bugaev (1880-1934), è stato un poeta e romanziere, teorico del movimento simbolista in Russia nei primi decenni del ‘900. La sua opera più nota è il romanzo Pietroburgo, inizialmente pubblicato a puntate tra il 1913 e il 1914 e poi in forma rivista e abbreviata nel 1922 (la prima edizione italiana comparve da Garzanti nel 1961, con traduzione e saggio introduttivo di Angelo Maria Ripellino, e fu poi riedita nel 2014 da Adelphi). Secondo Vladimir Nabokov (1899-1977), Pietroburgo fa parte dei quattro più grandi capolavori del ventesimo secolo, accanto a l’Ulisse di Joyce, a La Metamorfosi di Kafka e Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Nonostante tale prestigioso elogio, l’opera ha diviso la critica: a Trotsky non piacque, e altri non apprezzarono il suo stile modernista, le metafore insistite, l’atmosfera cupa e apocalittica. Per saperne di più invito a leggere la splendida recensione che scrisse Pietro Citati quando l’opera fu pubblicata da Adelphi.

La critica più recente (Citati lo accenna) ha messo in evidenza l’utilizzo frequente nel testo dell’immaginario matematico, il che non sorprende se si pensa che Belyj, oltre a essersi laureato in scienze naturali, era figlio di Nikolai Bugaev (1837-1903), allievo di Weierstrass e Liouville, fondatore della scuola matematica di Mosca, una delle più attive sullo scenario europeo del Novecento. Inoltre, suoi compagni di Università erano stati due studenti del padre: Nikolai Luzin (1883-1950), che avrebbe retto la scuola matematica moscovita per molti anni, e Pavel Florenskij (1882-1937), figura geniale del milieu spiritualista russo, matematico, prete ortodosso, scrittore, scienziato, filosofo e mistico. Anche Belyj fu a lungo influenzato da questo contesto, approdando all’antroposofia di Rudolf Steiner.

Una delle più ricorrenti immagini presenti in Pietroburgo è quella di una sfera che si espande e alla fine esplode. Ecco alcuni esempi, tratti dai pensieri del protagonista, Nikolaj Apollonovic Ableuchov:
“Il suo cuore prese a martellare e si espanse, mentre nel suo petto crebbe la sensazione di una sfera cremisi sul punto di rompersi in pezzi”
“la sua anima stava diventando la superficie di un’enorme bolla in rapida crescita, che si era gonfiata fino all’orbita di Saturno. Oh, oh, oh! Nikolaj Apollonovic fu percorso da brividi. Venti soffiarono sulla sua fronte. Tutto stava esplodendo”
Questa metafora è stata interpretata in vari modi, dall’ansia per una catastrofe imminente, personale o collettiva, a un simbolo della bomba che il protagonista si è impegnato a utilizzare per conto di un gruppo rivoluzionario contro il proprio padre, odiato e decrepito funzionario imperiale Apollon Apollonovic Ableuchov. Mancava, pensate un po’, un’ardita interpretazione matematica, che due ricercatori americani, Noah Giansiracusa e Anastasia Vasilyeva dello Swarthmore College (PA) hanno pubblicato il 16 ottobre scorso in un paper su ArXiv (From Poland to Petersburg: the Banach-tarski Paradox in Bely’s modernist novel).

Secondo i due autori, esiste un collegamento tra l’immagine della sfera in espansione e il cosiddetto paradosso di Banach-Tarski, che fu pubblicato una decina d’anni dopo la prima versione del romanzo (nel 1924). La sfera che si espande sarebbe in collegamento con il famoso, paradossale, teorema dei due matematici polacchi Stefan Banach e Alfred Tarski, di cui mi sono occupato in un articolo precedente, secondo il quale, applicando l’assioma della scelta, si può suddividere una sfera piena (una palla) nello spazio tridimensionale in 5 parti, in modo che sia possibile ricomporre con questi pezzi due sfere entrambe perfettamente identiche alla sfera iniziale prima della suddivisione. Una versione analoga dimostra che è possibile suddividere una sfera piccola (ad es. una pallina da golf) in modo tale che i pezzi ottenuti, una volta assemblati, possano ricomporsi in una sfera più grande, magari delle dimensioni di Giove.

Il teorema di Banach Tarski: la sfera iniziale viene suddivisa e poi ricomposta in due copie identiche a se stessa
Giansiracusa e Vasilyeva si chiedono se Belij possa essere stato influenzato da versioni originarie del teorema, giunte chissà come dalla Polonia a Mosca, o addirittura se la lettura di Pietroburgo possa aver ispirato Banach e Tarski. Essi stessi ammettono che la risposta è “probably not,” nondimeno si preoccupano di tracciare gli sviluppi storici che potrebbero aver creato queste coincidenze. La premessa contenuta nell’Abstract iniziale merita una citazione:
“Belij credeva nelle corrispondenze spirituali e nelle predizioni mistiche, così, allo stesso modo, esploriamo anche le (talvolta sorprendenti) coincidenze che uniscono Pietroburgo al paradosso di Banach-Tarski. Questo articolo è la vera storia, parte storia e parte mistero, di un legame improbabile tra matematica e letteratura”.
Belij durante il viaggio in Sicilia nel 1905
Dopo questa allarmante premessa, l’articolo procede affrontando il teorema da un punto di vista matematico, poi analizzando il contesto in cui nacque (il dibattito sui risultati di Cantor, sull’assioma della scelta e la nascita della cosiddetta Scuola Polacca) e l’ipotetico “ponte” che sarebbe stato rappresentato dalla forzata permanenza a Mosca di Waclaw Sierpinski (1882-1969), il quale, allora insegnante a Lublino e già famoso specialista degli insiemi cantoriani e paradossi geometrici, allo scoppio della Prima guerra mondiale (1914), si trovava in Russia con la famiglia. Poiché sia l’impero austriaco sia quello russo tentavano di utilizzare la questione polacca come arma politica, egli fu arrestato e internato in un campo di prigionia, ma poco dopo fu liberato grazie all'intervento dei matematici russi Dmitrij Egorov e Nikolaj Luzin (amico di Belij). Sierpinski trascorse così gli anni della guerra a Mosca, collaborando soprattutto con Luzin, fino a quando tornò in Polonia nel 1918.

Ora, il fatto che Luzin conoscesse sia Belij sia Sierpinski è un legame talmente lasco che Giansiracusa e Vasilyeva sono costretti ad ammettere che “le somiglianze (...) tra le sfere in espansione nell’opera di Belij e di Banach-Tarski sono semplicemente una coincidenza”, anche perché compaiono già nelle prime versioni di Pietroburgo, date alle stampe, come si è detto, prima dell’arrivo a Mosca di Sierpinski e, giova ripeterlo, assai prima del 1924, anno in cui comparve lo storico teorema di Banach e Tarski. Ce ne sarebbe abbastanza per alzare bandiera bianca e ritirarsi dopo un’onorevole sconfitta. Invece no. I due autori dell’articolo si fanno allora esperti in analisi del testo (per fortuna non in senso strutturalista: ci mancava anche quello), ma per riportare alcuni brani di Pietroburgo che presenterebbero somiglianze con il teorema e - udite! udite! - “alcune previsioni e coincidenze che riguardano Belij e che altri studiosi hanno notato”. Il brano più significativo è questo:
“Una bomba è una rapida espansione di gas. La sfericità dell’espansione evocò in lui un terrore primordiale, a lungo dimenticato. Nella sua fanciullezza era stato soggetto a deliri. Nella notte, una piccola bolla elastica si materializzava talvolta di fronte a lui e rimbalzava intorno - fatta forse di gomma, forse della materia di strani mondi. [...] Gonfiandosi orribilmente, spesso assumeva la forma di un grasso compagno sferico. Questo grasso compagno, essendo diventato una sfera molesta, continuava a espandersi, espandersi ed espandersi e minacciava di precipitare addosso a lui. [...] Ed esplodeva in pezzi. Nikolenka incominciava a gridare cose senza senso: di incominciare anche lui a diventare sferico, che era uno zero, che tutto in lui si stava azzerando - azzerandO - zerO - O - O”.
E allora? Dov’è la sfera che si decompone in cinque parti e si duplica? Dove sono queste parti composte da insiemi di punti, che in realtà non possiedono alcuna misura? Queste nuvole di punti senza numero, senza volume, sono riconoscibili nell’accenno allo zero che si ritrova nel brano citato? Non ci sono, ma esistono invece, nell’ultima sezione dell’articolo, delle “coincidenze cosmiche”:
- il rivoluzionario doppiogiochista che consegna al protagonista la piccola bomba preparata per assassinare il padre si chiama Lippanchenko. Ebbene, Belij dichiarò di aver modellato la sua figura su quella dell’agente provocatore Evno Fishelevich Azef, che aveva lavorato sia per gli zaristi e i rivoluzionari. Più tardi Azef si rifugiò a Berlino e, dopo la pubblicazione di Pietroburgo, assunse proprio lo pseudonimo di Lipchenko!
- il sole svolge un ruolo importante nel pensiero antroposofico, e Belij morì nel 1934 per un’insolazione contratta in Crimea!
- la sfera di Banach-Tarski viene suddivisa in cinque parti, e ci sono almeno cinque frasi nel romanzo (riportate) in cui si cita il numero cinque in un contesto geometrico!

Con l’argomentum numerologicum termina l’articolo di Giansiracusa e Vasilyeva e il vostro recensore si chiede se i due ci sono o ci fanno. Ci troviamo di fronte ad un livello infinitamente inferiore alla “manifesta ciarlataneria” che Sokal imputava agli strutturalisti francesi e ai loro seguaci americani. Posso augurarmi che si tratti di un gioco perverso, ma vedo nelle note che un articolo simile i due l’hanno già pubblicato sulla rivista Math. Intelligencer. Su queste basi, per questa volta, mi tocca dar ragione a quell’amico che continua a dire che tra scienza e umanesimo non esiste alcun ponte, nessun periglioso “passaggio a Nord-Ovest”, ma solo un abisso profondo e insuperabile come il Grand Canyon.



(scritto con la penna intinta nel veleno durante la prima nevicata d’inverno)

Newton, Pitagora e la Prisca Sapientia

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È curioso che la maggior parte degli uomini che parteciparono alla rivoluzione scientifica, i contributi dei quali sembrano così originali e innovativi, erano convinti di stare semplicemente riscoprendo il grande corpus di sapienza originaria (Prisca Sapientia) che era stata posseduta dagli antichi, e che era andato perduto o dimenticato durante i secoli. Questa credenza non era del tutto inventata, perché le grandi opere, sia materiali, sia intellettuali, delle civiltà classiche erano (e, in qualche misura, sono) davvero impressionanti (basti pensare alle conoscenze scientifiche di epoca ellenistica messe in luce da Lucio Russo nel prezioso saggio La rivoluzione dimenticata).

La cultura intellettuale dell'Occidente europeo declinò realmente dopo la caduta di Roma, e le istituzioni in grado di preservare e trasmettere la conoscenza, così come l’attitudine a farlo, furono fortemente ridotte. Perciò, dopo una così lunga assenza, quando si riscoprirono gli antichi testi, gli umanisti e poi gli intellettuali del Rinascimento e dei secoli successivi erano consapevoli della loro inferiorità di fronte agli “antichi”. Inoltre, il fatto che molti degli antichi testi erano disponibili solamente in forma frammentaria, spesso come traduzioni di terza mano, e molti dei riferimenti fossero a opere totalmente sconosciute e presumibilmente perse, contribuì alla credenza che gli antichi avessero saputo molto di più, se solo avessimo potuto scoprirlo.

Questa attitudine rispetto al passato è, in qualche maniera, l’esatto opposto dell’idea che abbiamo oggi, che è quella di una sequenza totalmente ordinata di epoche che sono progredite da una minore conoscenza nel passato a una maggiore nel futuro. È difficile per noi immaginare il clima intellettuale tra persone che pensavano (sapevano) di essere scientificamente e matematicamente inferiori ai loro antenati di un lontano passato, di cui bisognava riscoprire i segreti.

In realtà il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt’altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un’incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente originali o del tutto folli, che spesso convivevano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Anche la biografia di tanti matematici del tempo presenta aspetti fortemente contraddittori, così pervasi di mentalità magica assieme a intuizioni e opere geniali.

Siamo poi abituati a considerare così assodate certe conoscenze da ignorare o dimenticare quanto queste nascano da un lungo processo di tentativi ed errori, da uomini per loro natura incoerenti e viventi in società e tempi contraddittori, così ci stupiamo di come uomini di grande valore potessero elaborare le loro straordinarie scoperte e contemporaneamente credere in idee sbagliate, coltivare passioni bizzarre, auspicare la realizzazione di sogni messianici. Esemplare è, a questo proposito, la figura di Nepero (John Napier), che inventava i logaritmi ma li considerava un passatempo di fronte alla sua grande missione di rovesciare il papa di Roma (che, tanto per cambiare, considerava l'Anticristo).

Inoltre, il valore immutato del sapere che ci era giunto, e quella sorta di immortalità che esso dava ai suoi autori, che erano sopravvissuti a un millennio e più di oblio solo per suscitare meraviglia quando erano infine riscoperti, fu una fonte di fascino immenso, e inevitabilmente indusse gli uomini a partecipare al processo, anche se solo (all’inizio) con la traduzione e la copiatura delle grandi opere.

Tra le figure più ammirate dell’antichità spicca Pitagora, oggetto di un mito duraturo, iniziato già ai tempi in cui era attiva la sua scuola a Crotone nel VI secolo a. C. e proseguito nel corso dei secoli attraverso fonti disparate che avevano tramandato le facce di un enigmatico semidio: sciamano, taumaturgo, mago, ierofante, ma anche matematico, fisico, riformatore morale e politico. Per quanto Pitagora fosse originario di Samo, parlasse greco e agisse nelle colonie greche dell’Italia meridionale (la Magna Grecia), i filosofi di Crotone e Taranto, anch’essi di stirpe greca, che ne avevano riportato e sviluppato gli insegnamenti furono designati da Aristotele come Italici. I Latini sfruttarono l’ambiguità della definizione di “scuola italica” a scopi patriottici, utilizzando anche la variante del racconto che attribuiva al filosofo origini etrusche. In quel contesto si ebbe persino la fusione della leggenda pitagorica con quella di Numa Pompilio, il re-sacerdote e riformatore romano che sarebbe stato allievo di Pitagora (mentre era vissuto un secolo e mezzo prima dello sbarco del filosofo in Calabria).

Il mito pitagorico fu tramandato attraverso gli scritti di Aristotele (che però contestava l’idea pitagorica che tutto in natura è numero, e che i numeri sono cause delle cose) e, in chiave più mistica ed esoterica (che privilegiava i detti oracolari, la dottrina dell’anima e della reincarnazione, il simbolismo arcano dei numeri, l’idea di un’Anima Mundi che governasse tutte le cose terrestri e celesti), dai filosofi neoplatonici e anche da alcuni autori cristiani. I frammenti biografici e dottrinali giunti dai tempi immediatamente successivi al fiorire della scuola pitagorica furono integrati da un vasto insieme di leggende, che andarono a infoltire la letteratura e il mito del filosofo di Samo, deformandolo e falsificandolo, spesso con evidenti contraddizioni tra una fonte e l’altra.


Parzialmente dimenticato dopo la fine dell’antichità, il mito pitagorico ebbe una nuova fioritura nei decenni centrali del Quattrocento, quando il revival neoplatonico, originato dalla diaspora bizantina precedente e successiva al crollo dell’Impero d’Oriente (1453) e dall’arrivo di una gran mole di opere greche, portò con sé anche la rivalutazione di colui che, a torto, era considerato maestro del filosofo ateniese al pari di Socrate. Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della Mirandola (1463-1494) furono tra gli umanisti italiani che più contribuirono al rinnovarsi del mito. Per Ficino esisteva una lunga catena iniziatica che comprendeva Zoroastro, Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone e infine Plotino. La sapienza di questi maestri, frutto della rivelazione divina, fu nascosta al volgo sotto il velo di favole e misteri, fu poi rivelata da Cristo, ma di nuovo perduta dopo di lui. Nella prefazione alla sua traduzione delle opere di Plotino, scriveva:
“Era costume degli antichi teologi occultare i misteri divini con numeri e figure matematiche, o con finzioni poetiche, per non divulgarli a caso”
e il vincolo della segretezza e della trasmissione orale della conoscenza in uso nella setta pitagorica ben si adattava a questa opinione.

Pico attuò invece un’audace sintesi tra le teorie numerologiche di origine pitagorica e la Kabbalah ebraica, aprendo la strada a tutte le interpretazioni cabalistiche cristiane delle Scritture e alle elucubrazioni numerologiche e angeliche dei due secoli successivi (da Johannes Reuchlin a John Dee e, in misura minore, Giordano Bruno). Nel pitagorismo Pico indicò la chiave della numerologia mistica, musicale, simbolica, ben distinta, secondo Platone, dalla matematica volgare “del mercante”. Fu in questi ambienti che emerse l’idea della distinzione tra numero numerante e numero numerato, cioè tra il numero considerato in chiave simbolica e mistica, origine e mistero della realtà, e quello, profano, utilizzato nei calcoli e nelle misure.

La scoperta, ai primi del Cinquecento, della soluzione generale delle equazioni polinomiali di terzo grado viene considerata da alcuni come un punto di svolta significativo nella storia della scienza, perché fu la prima volta che un uomo “moderno” fece una scoperta scientifica che andò oltre la conoscenza degli antichi. Nacque così la prospettiva stuzzicante di “migliorare” gli antichi e ciò fu un incentivo incredibilmente potente per fare nuove scoperte. Non sorprende che Galileo Galilei (1564-1642), esponente di un nuovo clima intellettuale, tracci una netta linea di demarcazione tra matematica e numerologia, relegando quest’ultima tra le pseudoscienze. Così leggiamo nel Dialogo sui massimi sistemi (1632) la risposta sferzante di Salviati (che esprime le idee di Galileo stesso) alle argomentazioni del pedante Simplicio:
SIMPLICIO. Par che voi pigliate per ischerzo queste ragioni: e pure è tutta dottrina dei Pittagorici, i quali tanto attribuivano a i numeri; e voi, che siete matematico, e, credo anco, in molte opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.

SALVIATI. Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano e lo stimasse partecipe di divinità solo per l’intender esso la natura de’ numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano da farne l’istesso giudizio; ma che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione la scienza de’ numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e le carte del volgo, non credo io in veruna maniera.
La magia pitagorica dei numeri non ebbe più corso presso la cerchia dei matematici di punta del Seicento (Cavalieri, Wallis, Cartesio, Leibniz, Fermat, ecc.), i quali dimenticarono il misticismo dei numeri interi per gli algoritmi da applicare a vecchi e nuovi campi di indagine: la quadratura delle curve, il calcolo delle tangenti, le tecniche del calcolo infinitesimale.

L’eredità pitagorica, sotto questo punto di vista, restò estranea agli sviluppi della matematica, che riprendeva piuttosto una serie di problemi lasciati insoluti da altri autori: Archimede, Apollonio, Euclide, Pappo. Tuttavia, la fascinazione per la Prisca Sapientia continuò a operare. Ancora alla fine del Seicento uomini come Pierre de Fermat (1601-1665) sviluppavano le loro idee originali sotto forma di “ricostruzioni” speculative di opere perdute dell’antichità. Fermat portò a compimento una ricostruzione dell’opera perduta di Apollonio di Perga sui Luoghi piani, portando direttamente allo sviluppo di ciò che oggi chiamiamo geometria analitica (non mancò una disputa sulla primogenitura tra lui e Cartesio). John Wallis (1616-1703) scrisse che la progressione distintamente criptica di molte delle presentazioni di Archimede gli sembrava:
“Come se ci fosse il proposito stabilito di coprire le tracce delle sue ricerche, come se avesse voluto negare ai posteri il segreto del suo metodo di indagine, mentre desiderava ottenere da essi l’assenso ai suoi risultati. Non solo Archimede, ma quasi tutti gli antichi nascosero così ai posteri il loro metodo di Analisi (anche se è chiaro che ne avevano uno), che i matematici più moderni trovarono più facile inventare una nuova analisi che cercare di trovare la vecchia”.
Cartesio (1596-1650), nella quarta delle sue Regulae, andò oltre, e cominciò a mettere in dubbio la sapienza degli antichi:
“Abbiamo prove sufficienti che gli antichi geometri facevano uso di una certa “analisi” che applicarono per la risoluzione dei loro problemi, sebbene, come sappiamo, essi celarono ai loro successori la conoscenza di questo metodo. (…) Sono convinto che certi semi primordiali di verità seminati dalla natura nelle nostre menti umane, semi che sono soffocati in noi a causa della lettura e dell’ascolto, giorno dopo giorno, di così tanti diversi errori, hanno avuto una tale vitalità in quel grezzo e semplice mondo antico che la luce della mente (…) consentì loro di riconoscere le idee vere nella filosofia e nella matematica, sebbene essi non fossero ancora capaci di ottenere una vera padronanza di esse (…) Questi scrittori, sono propenso a credere, con una certa astuzia nociva, tennero i segreti di questa matematica per se stessi”.
Come si vede, anche quando persisteva l’idea di una antica sapienza nascosta, i riferimenti non erano più a Pitagora, ma ad altri autori. Il mito pitagorico sarebbe veramente finito nell’oblio se non fosse stato sorprendentemente recuperato dal maggior matematico di quel periodo, Isaac Newton (1642-1727).



La prima versione dei Principia mathematica, intitolata De mundi systemate, scritta in modo divulgativo nel 1686 e mai data alle stampe, si apre in questo modo solenne:
“La più antica opinione dei Filosofi era che le stelle fisse stavano senza muoversi nelle parti più alte del Mondo, e che i pianeti giravano attorno al Sole sotto queste stelle; che allo stesso modo la Terra viene mossa in un corso annuale, così come con un moto giornaliero intorno al proprio asse, e che il Sole, o cuore dell’Universo, resta fermo al centro di tutte le cose. Questa era infatti la credenza di Filolao, di Aristarco di Samo, di Platone nei suoi anni più maturi, della setta dei Pitagorici, e (molto più antichi di questi), di Anassimandro e del più saggio dei re dei Romani, Numa Pompilio. Quest’ultimo eresse un tempio a Vesta, di forma circolare, e ordinò che vi bruciasse al centro un fuoco perpetuo, a simboleggiare la forma rotonda dell’Orbe con il fuoco solare al suo centro”.
Come si vede, egli era chiaramente influenzato dalla tradizione che attribuiva ogni tipo di sapere e conoscenza segreta agli “antichi”, non solo quella matematica. Ma c’è di più.

Tra il febbraio 1693 e i primi mesi del 1694, Newton si mise nei panni del filologo classico per dimostrare, a suo modo, una tesi nobile, e cioè che gli antichi filosofi avevano intuito due millenni prima di lui la fisica matematica e la meccanica celeste esposte nella prima edizione dei Principia mathematica (1687). Attente letture di decine di autori antichi e dei loro commentatori lo avevano convinto che i veteres avevano compreso i fondamenti dell’astronomia gravitazionale. Non aveva forse scritto Plutarco nel De facie Lunae che, secondo i filosofi, la Luna è un satellite della Terra, anzi un’altra Terra, così come lo sono tutti gli altri pianeti? Democrito e Lucrezio non avevano confermato che questi centri di gravità si attraggono reciprocamente?

Newton, nei cosiddetti Scolii classici, passa a interpretare una serie di testimonianze su Pitagora, al quale attribuisce la scoperta della legge dell’inverso dei quadrati. La formula, scrive, è implicita nella divinizzazione pitagorica del Sole come “carcere di Giove”, definizione che nasconde la “grandissima forza d’attrazione con la quale tiene prigionieri i pianeti nelle loro orbite”. E l’antica metafora di Pan, che suona e modula il mondo come uno strumento musicale, va interpretata come l’armonia cosmica dell’Anima Mundi: il mondo, che è il tempio di Dio, obbedisce a una legge matematica semplice e suprema, che fa sì che i corpi si attraggono secondo una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale alle loro distanze.

Non ancora soddisfatto, l’inglese prende in considerazione la scala musicale pitagorica e cita il celebre aneddoto della scoperta degli intervalli musicali. Secondo la versione di Macrobio, Pitagora verificò nell’officina di un fabbro la legge di corrispondenza tra i vari accordi, la lunghezza delle corde e i pesi che le sollecitano. Newton evita di accennare al fatto che Pitagora parlava di numeri interi e pare che ignori volutamente la confutazione attuata da Keplero nel III libro dell’Harmonice Mundi (1619), secondo la quale gli intervalli consonanti dipendono da quantità continue, geometriche, e non dai numeri [naturali] che sono quantità discrete. Newton si limita a interpretare l’aneddoto in chiave simbolica, per cui Pitagora avrebbe conosciuto la legge dell’inverso dei quadrati e
“applicò ai cieli e in tal modo apprese l’armonia delle sfere (…) intendendo l’armonia dei cieli nel senso che i pesi dei pianeti verso il sole (verso il quale tutti danzano come al suono della lira) sono reciprocamente come i quadrati delle loro distanze”
L’inglese, tra i suoi contemporanei, fu uno degli ultimi a esprimere l’idea che essi avessero nascosto la loro scienza sotto metafore e immagini mitiche. Soprattutto, fu il solo a scegliere Pitagora come suo predecessore in fisica e matematica.

Le considerazioni filologiche di Newton, destinate a commentare una serie di proposizioni di dinamica celeste del III libro dei Principia, rimasero allo stato di abbozzi manoscritti e non furono mai pubblicate. Si potrebbe osservare che, così facendo, egli si mostrò restio a farli conoscere. Eppure decise di affidare questi scolii all’astronomo e matematico scozzese David Gregory (1661-1708) perché ne divulgasse il contenuto. Così le considerazioni su Pitagora comparvero nella trascrizione che ne fece Gregory presentando uno dei primi manuali di astronomia newtoniana, gli Astronomiae physicae et geometricae elementa (1702), pubblicato in inglese nel 1726.



Come tutti gli uomini dei suoi tempi, come tutti gli uomini, anche il più grande scienziato della sua epoca dimostra che si può essere geniali e allo stesso tempo legati a pregiudizi e idee pseudoscientifiche. La sua interpretazione di retroguardia non ebbe conseguenze in campo matematico, ma ravvivò ancora per qualche tempo il mito dell’antica sapienza italica, soprattutto ad uso dell’orgoglio patriottico dei filosofi e dei politici italiani, sino al nazionalismo risorgimentale e all’epoca fascista.

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Questo articolo è comparso sul numero 01/2017 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.
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