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Un atomo nell’universo

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“Gli atomi entrano nel mio cervello, eseguono una danza, e se ne vanno; 
atomi sempre nuovi ripetono sempre la stessa danza, ricordando quella di ieri”.
(Richard Feynman, da “Che t’importa di cosa dice la gente?”, 1988) 


Ci sono le onde che si frangono
montagne di molecole
ciascuna stupidamente intenta ai fatti suoi
milioni di milioni, divise,
eppure formano spuma bianca, all'unisono.

Un'era dopo l'altra
prima che occhi potessero vederle
anno dopo anno
martellando fragorosamente la costa come ora.
Per chi, per cosa?
Su un pianeta morto
senza vita da ospitare.

Senza posa
torturate dall'energia
sprecata prodigiosamente dal Sole
riversata nello spazio.
Un microbo fa ruggire il mare.

Nelle profondità marine
tutte le molecole ripetono
la struttura l’una dell’altra
finché se ne formano di nuove e complesse.
Queste ne creano altre come se stesse
e una nuova danza ha inizio.

Crescendo in dimensioni e complessità
cose viventi
masse di atomi
DNA, proteine,
danzano una struttura ancor più intricata.

Fuori dalla culla
sulla terra emersa
eccolo in piedi:
atomi con la coscienza
materia con la curiosità.

Di fronte al mare
stupito dallo stupore: io
un universo di atomi
un atomo nell'universo.

Richard P. Feynman (1918-1988)


There are the rushing waves
mountains of molecules
each stupidly minding its own business
trillions apart
yet forming white surf in unison.

Ages on ages
before any eyes could see
year after year
thunderously pounding the shore as now.
For whom, for what?
On a dead planet
with no life to entertain.

Never at rest
tortured by energy
wasted prodigiously by the sun
poured into space.
A mite makes the sea roar.

Deep in the sea
all molecules repeat
the patterns of one another
till complex new ones are formed.
They make others like themselves
and a new dance starts.

Growing in size and complexity
living things
masses of atoms
DNA, protein
dancing a pattern ever more intricate.

Out of the cradle
onto dry land
here it is standing:
atoms with consciousness;
matter with curiosity.

Stands at the sea,
wonders at wondering: I
a universe of atoms
an atom in the universe.




Il concetto matematico di cui non potrei fare a meno: piano cartesiano

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Lasciamo perdere l’aneddoto leggendario della mosca sul soffitto, e anche se davvero fu Cartesio il primo a immaginare un sistema di assi ortogonali orientati che, in pratica, assegna a ogni punto del piano un indirizzo dove trovarlo. Di sicuro il piano cartesiano fu una grande idea, perché sposò la geometria e l’algebra e consentì di vedere e studiare quel tipo di relazione tra due variabili (tra gli elementi di due insiemi) che chiamiamo funzione, o, non a caso, mappa. Dico non a caso, perché l’idea di rappresentare graficamente punti, distanze, percorsi c’era già da molto tempo, e sappiamo tutti quanto sia più efficace vedere una carta geografica di un territorio piuttosto che sentirselo raccontare a parole. Mancava solo l’idea di mappare gli enti geometrici, le coniche e altre funzioni in modo che in ogni loro punto sia verificata un’equazione, e il sistema Oxy venne a soddisfare questo bisogno in modo rigoroso. Quei punti, quelle curve che vediamo sul piano, che vediamo incrociare gli assi o non toccarli mai, che vediamo salire e scendere, raggiungere massimi e minimi, proiettarsi verso l’infinito, oppure interrompersi, o convergere verso un punto o una retta, non sono poi fini a se stessi, ma possono rappresentare grandezze di ogni tipo e i fenomeni in cui sono coinvolte. Senza il sistema di assi ortogonali cartesiani lo studio e la rappresentazione dei fenomeni naturali sarebbero assai più complicati. E, lasciatemelo dire perché è un mio chiodo fisso, senza questi "disegni" sarebbe più difficile cogliere l'intrinseca bellezza della matematica.



Un problema di geometria analitica di Verne

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Nel 1863, Jules Verne pubblicò il suo primo libro, Cinque settimane in pallone, che si rivelò un successo e gli diede la tanto sospirata indipendenza economica. Lo stesso anno inviò al suo editore, Pierre-Jules Hetzel, il manoscritto di una seconda opera, Parigi nel XX secolo, un romanzo d’anticipazione che aveva probabilmente iniziato a scrivere nel 1860.

Il romanzo è ambientato a Parigi nel 1960 e presenta una società in cui si apprezza solo il profitto e la tecnologia. Il protagonista, Michel Dufrénoy, un sedicenne poeta e letterato bretone nato troppo tardi, tenta senza successo di vivere in una società tecnologicamente avanzata, ma regredita mostruosamente dal punto di vista umano e culturale. La storia, in cui come suo solito Verne profetizza invenzioni e fenomeni economici e sociali che poi si sarebbero effettivamente realizzati (le automobili, la metropolitana, la musica elettronica, la cultura di massa, le grandi corporazioni industriali e finanziarie, la guerra affidata alle macchine e la reciproca deterrenza tra le potenze, il potere delle banche e del denaro), termina tragicamente con il giovane Dufrénoy che muore di freddo aggirandosi attorno al cimitero dove è sepolta l’amata, mentre una nuova terribile glaciazione ha colpito la Terra alla fine del 1961. Questa opera ucronica è stata interpretata da molti come una critica di Verne alla mentalità positivista prevalente ai suoi tempi e al capitalismo senza freni e controlli che si stava imponendo nelle società avanzate europee.

Con sorpresa dell’autore, il romanzo venne rifiutato, con una cortese e dura lettera in cui Hetzel rimproverava Verne di aver scritto con troppo pessimismo, senza brillantezza, facendo previsioni impossibili e senza possibilità di piacere al pubblico. Egli ripose l’opera nel cassetto e se la dimenticò. Una vasta e fortunata produzione di romanzi d’avventura gli fece dimenticare per tutta la vita questo episodio negativo.

Nel 1989, Jean Verne (pronipote dello scrittore ) ritrovò il manoscritto nella casa di famiglia e Parigi nel XX secolo fu finalmente pubblicato nel 1994 da Hachette diventando subito un caso editoriale e un bestseller. Vi fu persino chi propose di assegnare a Verne il premio per il miglior racconto di fantascienza del 1994!

L’atmosfera del romanzo è ben rappresentata dal primo capitolo, ambientato presso la sede di una grande società privata, la Società Generale di Credito Istruzionale, che ha assunto il monopolio dell’istruzione in Francia (centralizzandola tutta in una cittadella all’interno di Parigi), durante la cerimonia di assegnazione. dei premi per i migliori allievi in ogni disciplina. Ne riporto un passaggio, giovandomi della traduzione italiana di Maurizio Grasso ripubblicata da Newton Compton nel 2012, perché contiene un problema di matematica che non si sa se fu inventato dallo stesso Verne, o suggeritogli da qualcuno, o ripreso da qualche testo di esercizi.

“Intanto, poiché tutto deve avere una fine a questo mondo, anche i discorsi, la macchina si fermò. Essendosi conclusi senza incidenti gli esercizi oratori, si procedette alla distribuzione dei premi.
Il quesito di matematica superiore posto al grande concorso era il seguente:
Date due circonferenze OO’, da un punto preso su O si traccino le tangenti a O’; si congiungano i punti di contatto di queste tangenti; si tracci la tangente in A alla circonferenza O; si chiede il luogo del punto di intersezione di questa tangente con la corda dei contatti nella circonferenza O’.
Tutti comprendevano l’importanza di un simile teorema. Era noto come fosse stato risolto secondo un nuovo metodo dall’allievo Gigoujeu (François Némorin) di Besançon (Alte Alpi). Gli applausi raddoppiarono al richiamo di quel nome; durante quella memorabile giornata fu pronunciato settantaquattro volte: in onore del vincitore si fracassavano le sedie, cosa che, anche nel 1960, altro non era se non una metafora destinata a rappresentare una metafora destinata a rappresentare i furori dell’entusiasmo. 
Gigoujeu (François Némorin) vinse in quella circostanza una biblioteca di tremila volumi. La Società Generale di Credito Istruzionale faceva le cose per bene. 
Non possiamo citare per intero la sterminata nomenclatura di scienze che si insegnavano in quella caserma dell’istruzione: un albo d’oro del tempo avrebbe lasciato di stucco i bisnonni di quei giovani studiosi. La distribuzione seguiva il suo corso, e gli sghignazzamenti scoppiavano quando qualche povero diavolo della divisione di lettere, provando vergogna sentendo chiamare il proprio nome, riceveva un premio per un tema in latino o una menzione per una versione dal greco.” 

Michel Dufrénoy, il protagonista del romanzo, incurante delle risate e delle frasi di scherno, riceve il premio per i versi latini, consistente nell’unico volume Il manuale del buon industriale, che guarda con disprezzo e lascia cadere per terra prima di tornare al suo posto senza neanche baciare le guance al Presidente come d’usanza.

Lasciamo ora lo sfortunato e ribelle Dufrénoy e torniamo al problema brillantemente risolto da Gigoujeu. Ho provato a rappresentarlo con Geogebra, e lo riformulo in modo meno sintetico.

Abbiamo dunque due circonferenze disgiunte di centro O e O’. Sulla prima circonferenza consideriamo un punto A, dal quale mandiamo le tangenti (in blu) alla seconda circonferenza, che individuano i punti B e C. Essi giacciono su una retta (in rosso) che è il prolungamento della corda BC. Disegniamo la tangente in A alla prima circonferenza (in rosso) e consideriamo il punto M di intersezione tra queste due rette in rosso. Tale punto dipende dalla scelta di A (e quindi dall’angolo θ). Come varia la posizione di M al variare di A? 


Il problema non è difficilissimo per chi ha una discreta conoscenza della trigonometria: il luogo cercato è una quartica, che la funzione “luogo” di Geogebra disegna immediatamente (in verde). Se si considera la prima circonferenza come unitaria e la seconda di raggio r con centro di coordinate O’ (d; 0), si ottengono le coordinate di M: 





Ponendo: 



si ottiene che il luogo di questi punti, per

è


e cioè:



Una poesia insiemistica di incomprensione e tradimento

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Brian Bilstonè un geniale poeta umoristico e visuale inglese che seguo da tempo su Twitter (nel quale si fregia del titolo di Poet Laureate). Riconoscibile dall’inseparabile pipa, afferma di provenire dal mondo delle cronache calcistiche. Di sé dice che “Influences on his work include John Keats, W.B. Yeats and the American modernist, Bronski Beats”. Ha anche dedicato una serie di opere a “Mozza” Morrissey e agli Smiths, dei quali ha costruito una saga fatta di versi e Photoshop. 

Un simile eclettico personaggio, va da sé, si occupa di ogni aspetto dell’umano, nessuno dei quali può essere considerato “minore”, dalla morte al calcio, passando per il frisbee e la storia. Non sorprende quindi il fatto che abbia recentemente vinto il premio letterario The Great British Write Off 2015 con una poesia a struttura insiemistica, sfruttando umoristicamente le proprietà della rappresentazione dell’intersezione di due insiemi con i diagrammi di Eulero-Venn. L’opera si intitola “At the intersection”.


Ho provato a rendere l’opera in italiano, scontrandomi con le inevitabili difficoltà date dalle differenze nella costruzione della frase. Ho inviato al mio adattamento molto infedele a Brian, il quale ha risposto in maniera inequivocabilmente britannica: “I don't speak any Italian but I bet it's great!”. Ecco il mio misfatto:


Erezione di un problema fisico-matematico

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“Si chiede [di definire] la Curva i i I descritta dall'estremità i di un Corpo V i, il quale essendo inizialmente in una situazione verticale capovolta, cambia in seguito di grandezza e posizione, diventando successivamente V i, V I, e così via.
Al fine di fissarne lo spirito, limiteremo questo Problema, di cui l’enunciato è troppo generale. Faremo riferimento a qualche Arte particolare, conforme a ciò che succede in Natura: è solo consultandola che la Geometria si eleva fino alla Fisica. Partiremo dai seguenti principi, che sarà piacevole verificare: 
1. La forza che produce l’estensione del corpo V i, sia che abbia la natura dell’attrazione, sia che si manifesti per degli impulsi meccanici, agisce uniformemente, cioè produce aumenti uguali in tempi uguali. Se si verifica, soprattutto nel caso in cui la forza è meccanica, che gli impulsi siano più forti e solleciti verso la fine, il Corpo V iè allora così vicino al massimo che si può trascurare, con riferimento alla figura della Curva i i I, ciò che avviene in questi ultimi istanti, per quanto sia [invece] necessario tenerne conto per gli altri oggetti che offre questa importante ricerca. 
2. L’angolo secondo il quale il corpo V iè sostenuto dopo un numero qualsiasi d’azioni momentanee dell’agente è proporzionale a questo numero. 
Posti questi due principi, si trova assai facilmente che l’angolo I V i e il raggio I V sono proporzionali, il che fornisce la seguente costruzione. 
Data la minore e la maggiore lunghezza del corpo in questione, si considererà la differenza che misura la forza assoluta dell’agente. Si tracceranno in seguito a piacere gli angoli i V c, i V c, I V c sui lati V c dei quali si determineranno le parti V i, V i, V I che siano in misura della forza assoluta, come gli angoli i V c, i V c, I V c sono a 180 gradi. I punti i, i, I così determinati saranno quelli della curva cercata. 
Tutti riconosceranno, sulla base della precedente descrizione, la spirale di Archimede, sulla quale i Geometri si sono tanto esercitati, ma senza aver trovato la sua vera proprietà”.
Questo problema (qui l'originale), dall'evidente riferimento piccante (il corpo di cui si tratta è un pene in erezione), comparve in forma anonima nel volumetto Recueil de ces Messieurs, pubblicato ad Amsterdam nel 1745. I Messieurs del titolo sono i membri della Societé du bout-du-banc, un sodalizio informale di grandi ingegni, conviviale e letterario, che fu attivo negli anni 1741-1746 a Parigi, dietro l’impulso dell’attrice della Comedie Française Jeanne-Françoise Quinault-Dufresne. La raccolta di Amsterdam fu il frutto dello spirito giocoso e libertino del gruppo: gli autori contribuirono tutti anonimamente, in ossequio a una regola condivisa (e anche per sfuggire ai rigori della censura, il che spiega anche perché fu stampato nella liberale Olanda invece che a Parigi). La Societé du bout-du-banc finì quando lo spirito che lo animava fu travolto dai dissidi tra i filosofi. 

Uno dei membri più influenti della congrega (che si riuniva il lunedì sera presso l’abitazione della Quinault e, in seguito, in locali più ampi), lo storico e scrittore Charles Pinot de Duclos, così scrisse a commento del “teorema”: 
“Ah! Ecco finalmente la geometria applicata a qualcosa di utile; ciò mi riconcilia con essa; fino ad ora le scienze mi erano sembrate adatte solo a dare una spiegazione difficile di ciò che noi facciamo senza il loro soccorso”. 
Come è facile immaginare, il vincolo dell’anonimato era rivolto solo verso l’esterno, in quanto il segreto sull’autore del teorema fu svelato quasi subito: si tratta del matematico Alexis Clairaut (1713 – 1765), per la biografia del quale rimando alla Treccani e, per i più curiosi, a Mac Tutor (in inglese). 


Hooke vs. Newton

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In un breve manoscritto non datato, intitolato “La verità sul caso e la controversia tra Sir Isaac Newton e il dottor Robert Hooke sulla priorità di quella nobile ipotesi del moto dei pianeti intorno al Sole come loro centro” (A True state of the Case and Controversy between Sr Isaak Newton and Dr Robert Hooke as the Priority of that Noble Hypothesis of Motion of ye Planets about ye Sun as their Centers), Hooke esponeva la sua ipotesi sulla fisica del moto orbitale e la sua teoria della gravitazione universale. Il memorandum di Hooke, che rimase inedito fino a dopo la sua morte, è assai accurato storicamente, e contraddice le numerose critiche dei suoi contemporanei e degli storici della scienza sul fatto che egli avesse sempre rivendicato per sé più meriti di quanto effettivamente gli competessero.

In effetti, per sostenere la sua priorità, Hooke citava alla lettera da diversi documenti esistenti:
 − la trascrizione della sua conferenza sui "Movimenti Planetari come Problema Meccanico", tenuta presso la Royal Society il 23 maggio 1666;
− la sua monografia di 28 pagine intitolata "Un tentativo di provare il moto della Terra tramite osservazioni" (An Attempt to prove the motion of the Earth by Observations), pubblicata nel 1674;
− la sua lunga corrispondenza con Newton dell’autunno del 1679.

Tuttavia, Hooke non faceva menzione del suo importante studio sul moto orbitale per il moto di una forza centrale, basato sull’applicazione dei suoi principi fisici, ritrovato nel secolo scorso in un manoscritto datato settembre 1685 è mai pubblicato dall’autore.

Come si può vedere,  la costruzione geometrica di Hooke (sopra) è praticamente la stessa di quella descritta da Newton (sotto), in relazione con la sua prova della legge delle aree di Keplero contenuta nel De Motu, una breve nota che Newton inviò alla Royal Society nel 1684, che poi ampliò nella sua monumentale opera, i Principia.

Nel suo scritto, Hooke riferisce che già nel 1666 egli aveva ipotizzato che il moto dei pianeti intorno al Sole può essere interpretato come “la trasformazione di un moto rettilineo (inerziale) in una curva, per l’effetto dell’intervento di un principio attrattivo”, l’attrazione gravitazionale della nostra stella. Egli sosteneva questa nuova visione fisica con un’analogia meccanica, vale a dire il moto di un doppio pendolo conico, che dimostrò sperimentalmente facendolo pendere dal soffitto della sala dove parlò ai membri della Royal Society. 

Egli analizzò anche matematicamente il moto del pendolo, dimostrando che la forza netta diretta verso l’asse del pendolo cresceva linearmente [e non con legge quadratica] con la distanza, riconoscendo che essa “sembra comportarsi diversamente nell’attrazione del sole...”

Nella sua monografia del 1674, che contiene il testo della sua prima conferenza tenuta al Gresham College di Londra nel 1670, Hooke ribadiva i suoi principi fisici sull’origine del moto curvilineo per l’azione di una forza attrattiva, e in seguito annunciava la sua “supposizione” della legge di gravitazione universale, cioè che:
Assolutamente tutti i corpi celesti possiedono un’attrazione o un potere di gravitazione verso i loro stessi centri, per cui essi attraggono non solo le loro stesse parti e le trattengono dal volar lontano da loro, come si può vedere che fa la Terra, ma essi attraggono anche tutti gli altri corpi celesti che sono nella sfera della loro attività”.
Per quanto è dato sapere, questa affermazione è la prima ipotesi mai pubblicata che la forza di gravità che attrae gli oggetti verso la superficie della Terra agisce anche tra i corpi celesti. Hooke elaborò la sua teoria supponendo che:
 “(…) non solo il Sole e la Luna hanno un’influenza sul corpo e il movimento della Terra e la Terra su di essi, ma che anche Mercurio, Venere, Marte, Saturno e Giove, con i loro poteri attrattivi, hanno un’influenza considerevole sul suo moto, come nella stessa maniera il corrispondente potere attrattivo della Terra ha una considerevole influenza anche su ciascuno dei loro movimenti”. 
A dire il vero, un resoconto della monografia di Hooke del 1674 che introduceva l’idea della gravitazione universale era comparso su The Philosophical Transactions, Vol. IX, 101, 12, (1674), e quattro numeri più tardi erano stati pubblicati estratti di diverse lettere che contenevano commenti, tra le quali uno di Huygens. Evidentemente, dopo la pubblicazione dei Principia nel 1687, la priorità di Hooke nel proporre la gravitazione universale era stata dimenticata. 

Nella prima edizione dei Principia, l’ipotesi di Hooke sulla gravitazione universale non era citata, mentre nella seconda (1713), Newton lasciò che il suo editore, Roger Cotes, ammettesse nella prefazione 
“che la forza di gravità sia in tutti i corpi universalmente, altri lo hanno sospettato o immaginato, ma Newton è stato il primo e unico capace di dimostrarlo dai fenomeni e di renderlo un solido fondamento delle sue brillanti teorie”

Anche questa piccola concessione ad “altri” fu tolta nella terza e definitiva edizione dell’opera (1726). Apparentemente, dopo aver sentito delle rivendicazioni sulla priorità di Hooke, Newton eliminò molti riferimenti a Hooke nelle prime bozze del testo. In una lettera a Halley, Newton si lamentava che: 
“Egli [Hooke] non sapeva come metterci mano. Adesso non è invece molto elegante? I matematici che scoprono, risolvono e fanno tutto il lavoro devono accontentarsi di essere nient’altro che degli aridi calcolatori e uomini di fatica, e un altro che non fa niente, ma pretende, si accaparra tutte le cose e spazza via tutta la scoperta così come quelli che lo dovevano seguire e quelli che lo hanno preceduto”. 
Nel suo memorandum, Hooke non sosteneva di sapere come la forza gravitazionale varia con la distanza, supponendo solamente “che questi poteri attrattivi sono tanto più potenti nell’agire quanto più vicino il corpo è portato al loro stesso centro”. Proponeva invece che questa dipendenza fosse determinata sperimentalmente, e ipotizzò che essa “assisterà fortemente l’Astronomo a ridurre tutti i moti celesti a una certa regola, che dubito potrà mai essere trovata senza di essa”. Infine, Hooke ricordava di aver comunicato i suoi principi del moto orbitale in una corrispondenza con Newton. In una lettera del 24 novembre 1679, egli chiese esplicitamente a Newton 
(…) se come grande favore potreste gentilmente farmi sapere le vostre obiezioni contro la mia Ipotesi o opinione, se mi faceste conoscere i vostri pensieri su questa composizione di moti celesti dei pianeti dal moto diretto per la tangente e un moto attrattivo verso il corpo centrale”. 

Hooke nota che “in risposta a ciò, Newton pretende di non conoscere l’ipotesi”, riferendosi alla risposta di Newton del 28 novembre, che sosteneva 
(…) forse siete più propenso a credermi quando vi dico che non ho ricevuto in precedenza la vostra ultima lettera piuttosto che sentire [che ricordo] della vostra ipotesi di comporre i moti celesti dei pianeti da un moto diretto per la tangente alla curva (…)”. 
Nella stessa lettera, tuttavia, Newton osservava “sono lieto di sentire che questa notevole scoperta che avete fatto del parallasse annuale della Terra è confermata dalle osservazioni del signor Flamsteed. Poiché Hooke non aveva fatto menzione del proprio ruolo in questa presunta scoperta, questa osservazione indica che Newton già conosceva la monografia di Hooke del 1674, in cui questi aveva pubblicato le sue osservazioni, che aveva erroneamente interpretato come dovute al parallasse annuale della Terra. Ma nella monografia Hooke aveva anche enunciato i suoi principi sulla dinamica orbitale, che Newton “pretendeva” di non aver mai sentito. 

Rimane aperta la questione su quanto Newton possa aver appreso dalla sua corrispondenza con Hooke del 1679. La prima bozza di Newton, il Waste book, indica che già nel 1664 egli stesse studiando il moto circolare uniforme per l’azione di una serie di impulsi su un corpo in movimento diretti verso il centro dell’orbita circolare. È pertanto sbagliato sostenere, come hanno fatto diversi storici della scienza, che Newton abbia appreso da Hooke quest’idea sul moto orbitale. 

È tuttavia sorprendente che, nella sua lettera a Hooke del 28 novembre, Newton sostenesse di non essere a conoscenza che Hooke aveva avuto idee simili sul moto orbitale, perché Newton aveva letto la sua monografia del 1674. Nel suo memorandum, Hooke rammentava che nella sua lettera di risposta aveva ricordato a Newton che 
 “(…) potrei aggiungere molte altre considerazioni che sono in accordo con la mia teoria dei moti circolari composti da un moto diretto e da uno attrattivo verso un centro”. 
In seguito, nella sua corrispondenza del 1686 con Halley riguardante ciò che aveva sentito sulle pretese di priorità di Hooke, Newton si concentrò principalmente sulla scoperta della dipendenza della forza gravitazionale dall’inverso del quadrato della distanza, omettendo di citare la prima formulazione di Hooke dei principi della dinamica orbitale e la teoria della gravitazione universale.

Secondo David Gregory, che visitò Newton a Cambridge nel 1694, 
(…) vidi un manoscritto [scritto] prima del 1669 (…) dove sono stesi tutti i fondamenti della sua filosofia: in particolare la gravità della Luna verso la Terra, e dei pianeti verso il Sole. E effettivamente tutte queste sono poi anche soggette al calcolo (…)”. 
Il manoscritto, che si trova tra le carte ancora esistenti di Newton, indica che nel 1669 Newton era andato molto più in là che Hooke, avendo riscoperto la relazione matematica per l’accelerazione radiale o forza centrale nel caso di un moto circolare uniforme, che era stata scoperta in precedenza da Christiaan Huygens, ma non pubblicata fino al 1673, quando fu pubblicato l’Horologium Oscillatorium. Newton applicò questa relazione al moto planetario e, ritenendo che essa soddisfaceva la legge armonica di Keplero, scoprì che 
“Le forze di allontanamento dal Sole sono reciprocamente come i quadrati della distanza da esso”.
Newton ipotizzò che tale dipendenza dalla distanza si applicava anche alla forza di attrazione della Luna sulla Terra, che tentò di identificare con la forza gravitazionale che agisce sui corpi sulla superficie terrestre. Tuttavia, a causa di un errore nel valore del raggio terrestre che aveva utilizzato nei calcoli, fu portato a pensare erroneamente che la dipendenza dall’inverso del quadrato non fosse accurata per la gravità terrestre. 

In effetti, fu solo quando scoprì il suo errore intorno al 1685, applicando al suo calcolo il valore del raggio terrestre corretto da Jean Picard, che Newton provò che la dipendenza è valida sulla superficie di qualsiasi corpo sferico. Nella sua corrispondenza con Halley del 1686, nella quale rigettava le accuse di Hooke sulla dipendenza dall’inverso del quadrato, egli scriveva che 
“Il signor Hooke, senza conoscere ciò che ho trovato sin dalle lettere che mi inviò, non può sapere altro che la proporzione è duplicata approssimativamente a grandi distanze dal centro, e può solo avere indovinato ciò che ho calcolato accuratamente, e immagina per sbaglio di estendere quella proporzione fino al vero e proprio centro”. 
Newton utilizzò più volte il verbo “indovinare” per sottolineare che Hooke non aveva fornito alcuna prova matematica della sua ipotesi “che l’attrazione è sempre in una proporzione duplicata reciprocamente alla distanza dal centro”, come Hooke gli aveva scritto. In una lettera a Halley, Newton segnalava che:
"nella teoria sono chiaramente davanti al signor Hooke. Infatti egli, circa un anno dopo [1673], nel suo tentativo di provare il moto della Terra, dichiarò di non aver ancora verificato sperimentalmente il modo in cui la gravità diminuiva, cioè non sapeva come ricavarlo dai fenomeni, e pertanto raccomandava che altri proseguissero il lavoro”
Newton affermava inoltre che Hooke aveva esteso la proporzione dell’inverso del quadrato all’interno della Terra. Al contrario, Hooke aveva correttamente indicato che all’interno della Terra la forza di gravità varia linearmente con la distanza dal centro, sostenendo che 
“Immagino piuttosto che, quanto più il corpo si avvicina al Centro, tanto meno sarà sottoposto all’attrazione – possibilmente qualcosa come la gravitazione di un pendolo o un corpo mosso in una sfera concava dove la forza decresce continuamente tanto più vicino il corpo si avvicina a un moto orizzontale (…)” 
Il 13 dicembre 1679 Newton scrisse un’importante lettera a Hooke, nella quale si può vedere che a quella data aveva raggiunto una profonda comprensione della fisica del moto causato da una forza centrale, e fornisce la prova che aveva sviluppato un metodo matematico approssimato molto efficace per calcolare le orbite per diverse forze centrali. La lettera contiene un diagramma (sotto) che mostra la traiettoria di un corpo sotto l’azione di una forza centrale di grandezza costante. Hooke rispose immediatamente che 
"Il vostro calcolo della curva di un corpo attratto da una forza uguale a tutte le distanze dal centro, come quello di una palla che rotola in un cono concavo rovesciato, è corretto, e i due apogei [i punti più lontani dal centro di forza] non si uniranno per circa un terzo di una rivoluzione”. 


Hooke deve essere stato molto sorpreso che Newton fosse in grado di calcolare una traiettoria che precedentemente egli aveva osservato in uno dei suoi esperimenti meccanici per comprendere il moto orbitale. Nel testo della lettera a Hooke, Newton discuteva anche i cambiamenti dell’orbita quando la forza cresce al diminuire della distanza dal centro o, con le sue parole, 
“Così ritengo che possa essere se la gravità fosse la stessa a tutte le distanze dal centro. Ma se si suppone più grande vicino al centro, il punto O [più vicino al centro C] può cadere sulla linea CD o nell’angolo DCE o negli altri angoli che seguono, o anche da nessuna parte. Perché l’aumento della gravità nella discesa si può supporre tale che il corpo discenderà continuamente con un infinito numero di rivoluzioni a spirale fino ad attraversare il centro con un moto trascendentalmente rapido”.
Pur non avendo identificato nella lettera la legge responsabile di tale caduta “con un infinito numero di rivoluzioni a spirale”, nel 1684 tornò sull’argomento in una nota a margine di una delle prime bozze dei Principia. In questa aggiunta egli rivelava che questa forza dipende inversamente dal cubo della distanza radiale. Questa nota, tuttavia, non fu inclusa nella copia finale dell'opera, ed è stata generalmente ignorata in passato. Quindi è evidente che al tempo della sua corrispondenza con Hooke, Newton aveva già sviluppato un metodo piuttosto sofisticato per calcolare il moto orbitale intorno a forze centrali. 

Il metodo di Newton era basato sull’osservazione che, per forze centrali, la componente della forza normale all’orbita determina il suo raggio di curvatura in base alla formula di Huygens-Newton per il moto circolare, purché sia nota là velocità. Newton indicò questo legame in una criptica nota nel suo diario del 1664: 
“Se il corpo B si muove su un’ellisse, allora la sua forza in ciascun punto (se è dato il suo moto [velocità]) si può trovare con la circonferenza tangente di uguale curvatura con quel punto dell’ellisse”. 
Ma in questo approccio della curvatura è difficile vedere che la legge di Keplero delle aree (conservazione del momento angolare) è una conseguenza dell’azione di forze centrali. Newton scoprì questo fondamentale legame, che diventò una pietra angolare dei suoi Principia (proposizione 1 nel Libro 1) solo dopo la sua corrispondenza con Hooke. Per provare questo teorema, Newton doveva inizialmente rendere discreta la forza centrale continua con una serie di impulsi, e poi applicare al moto orbitale generale i principi sostenuti per lungo tempo da Hooke, che li aveva illustrati a Newton in una lettera del 1679 come “componenti il moto diretto con una curvatura verso il centro di forza”



Sebbene in precedenza Newton avesse applicato tale scomposizione al moto circolare uniforme, evidentemente l’impulso a considerarla in generale giunse da Hooke, ma Newton negò con forza di mai saputo nulla da lui, ammettendo solamente che: 
(...) La sua correzione della mia Spirale favorì la mia scoperta del Teorema con il quale in seguito ho esaminato l’ellissi; tuttavia non gli sono debitore di alcuna luce in questa questione, tranne che per la diversione che mi ha dato dagli altri miei studi (...)” 
Senza l'intervento di Hooke nel 1679 è tuttavia probabile che Newton avrebbe continuato i suoi “altri studi” [alchimia e teologia] privandoci della sua meravigliosa costruzione matematica e fisica.

Matematica e pianeti (1)

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L'Anti-Terra dei pitagorici 

Il pitagorico Filolao (470-390 a.C.) sosteneva che esisteva un pianeta che non era mai stato visto da nessuno: l'Anti-Terra. Quest'idea balzana nasceva dal fatto che nel cielo vedeva nove astri, ma ce ne dovevano essere dieci! I pitagorici pensavano che il numero dieci avesse virtù particolari, e che fosse degno di venerazione. Esso era la Tetractys, in cui si rinosce il prefisso greco per quattro, perché 10 = 1+2+3+4, cioè la somma dei primi quattro numeri naturali. Ci si potrebbe chiedere: perché fermarsi al 4 e non, per esempio, attribuire la stessa importanza al 15? La risposta è fornita dallo stesso Filolao: 
"In realtà, 1 è il punto, 2 la linea, 3 il triangolo, 4 la piramide (...). Nelle superfici e nei volumi, gli elementi primi sono il punto, la linea, il triangolo e la piramide: tutti contengono in loro il numero dieci e gli devono la loro perfezione". 
In linguaggio più moderno, i numeri da 1 a 4 corrispondono alle dimensioni (più uno) dei diversi oggetti geometrici che si possono trovare nello spazio: un punto, una curva, una superficie o un volume. La Tetractys contiene in sè tutte le dimensioni dello spazio fisico. Esistevano perciò due motivi, uno aritmetico e l'altro fisico, per venerare questo numero. 


Questo modo di pensare che la matematica possiede un legame profondo con la natura era spinto fino alla totale identificazione. Filolao pensava che: 
"La geometria è il principio della patria e di tutte le scienze". 
In pratica, tutte le scienze devono essere espresse in termini matematici. Tuttavia, questa prescrizione epistemologica è il corollario di un'affermazione molto più forte: 
"Tutte le cose conosciute posseggono un numero e nulla possiamo comprendere e conoscere senza di questo". 
Secondo Filolao, se la scienza dev'essere matematica, non dipende, ad esempio, dal fatto che essa è un linguaggio comodo o universale, ma perché è l'Universo stesso che possiede una struttura matematica. Non è il linguaggio della Natura di Galileo: la matematica è per i pitagorici la Natura stessa! 

Da queste concezioni è facile capire perché nacque l'idea dell'Anti-Terra. Ai tempi di Filolao (e fino alla scoperta di Urano da parte di Herschel nel 1781) si conoscevano 8 astri erranti nel cielo (è questo che significa pianeta): Mercurio, Venere, Terra, Luna, Sole, Marte, Giove e Saturno. A questi andava aggiunta la Sfera che contiene tutte le altre stelle, e che ruota attorno alla Terra in 24 ore, e che Filolao considerava come il nono pianeta. Doveva per forza essercene un decimo, interno all'orbita terrestre e più vicino al centro di rotazione, dove Filolao collocava un "fuoco invisibile".



Questa Antiterra, primo dei pianeti del sistema pirocentrico, era invisibile dalla terra, perchè, secondo le idee dell’ epoca, soltanto l’emisfero boreale era abitato. L’ altro emisfero era sempre rivolto verso l’Antiterra, con la quale la terra era in congiunzione, e l’Antiterra era sempre rivolta verso il fuoco. L'idea sembrò assurda già ad Aristotele: 
"A ciò che affermano [i pitagorici], non arrivano cercando, come è giusto fare, le ragioni e le cause dei fenomeni, ma, al contrario, essi sollecitano i fenomeni nel senso di opinioni e ragioni che sono loro proprie: essi si sforzano di adattarli a queste opinioni, il che è sconveniente al massimo grado".
In sintesi, l'lluminato Filolao scambiava dei desideri matematici per realtà. Ma non sbagliava del tutto... 

Nettuno, il pianeta scoperto in cima alla penna 

Il 18 settembre 1846, Urbain Le Verrier, astronomo dell'Osservatorio di Parigi, dopo un anno e mezzo di studi, inviava una lettera all'astronomo tedesco Johann Gottfried Galle di Berlino, in cui gli chiedeva di cercare con il telescopio in un angolo ristretto di cielo dove si doveva trovare un corpo celeste che non era una stella, nè una cometa, bensì un nuovo pianeta. 

Galle ricevette la lettera il giorno 23. La sera stessa scoprì, entro 1 grado dalla posizione prevista, nella costellazione dell'Aquario, una stella non ancora classificata, che il giorno successivo si era mossa. Il 25 settembre, egli inviò al francese una lettera di risposta, nella quale gli comunicava che "il pianeta esiste davvero". Era stato individuato il decimo pianeta, Nettuno. 

La scoperta proiettò Le Verrier nel Pantheon degli astronomi (c'è anche da dire che gli diede una certa prosopopea, perché se la tirava un po'). Il grande fisico François Arago commentò con queste parole: 
"Il signor Le Verrier ha scorto il nuovo pianeta senza aver bisogno di gettare un solo sguardo verso il cielo: l'ha visto in cima alla sua penna." 
Che cosa voleva dire Arago? Come era stata possibile questa scoperta stupefacente? Come aveva fatto Le Verrier a intuire la presenza di Nettuno senza osservarlo personalmente? 

La storia incomincia nel 1781, esattamente il 13 marzo, quando il musicista e astronomo William Herschel scopre per caso un nuovo pianeta del sistema solare, Urano. Negli anni Venti del secolo successivo, l'astronomo francese Bouvard si rende conto che l'orbita di Urano (il pianeta più interno nella figura) non si accorda con i calcoli teorici basati sulla gravitazione universale di Newton. Inoltre lo scarto osservato, più di due minuti d'arco, è ben oltre gli errori di misura ipotizzabili, e cioè qualche decimo di secondo d'arco.


Secondo la gravitazione newtoniana, tutti i corpi celesti sono attirati vicendevolmente secondo leggi matematiche precise. Si può dunque predire, tenendo conto dell'influenza della massa del Sole e di quella dei grandi pianeti come Giove e Saturno, la massa e la traiettoria di un nuovo pianeta. Le Verrier avanza proprio questa ipotesi e, calcolo dopo calcolo, è anche in grado di prevedere la sua orbita. Così sa anche dove andarlo a cercare. Fu il trionfo della meccanica celeste, del cielo considerato come un orologio perfettamente funzionante. 

Riassumendo la situazione: un astronomo crede che il Mondo sia strutturato secondo le leggi di Newton, constata che la realtà non è in accordo con la sua teoria, e postula allora l'esistenza di un nuovo pianeta, la cui massa è in grado di spiegare le anomalie dell'ultimo pianeta scoperto, cioè di Urano. Si scopre così Nettuno. Un nuovo pianeta è stato scoperto perché doveva essere dove si trova. Non è l'Anti-Terra di Filolao, ma Nettuno è stato scoperto proprio sulla base di considerazioni matematiche. Si potrebbe obiettare che la gravitazione newtoniana è "vera" e le idee di Filolao erano false, ma il processo era stato simile.

Matematica e pianeti (2)

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La precessione del perielio di Mercurio 

La prima legge di Keplero stabilisce che i pianeti ruotano intorno al Sole percorrendo orbite ellittiche, con il Sole in uno dei fuochi. Essa è però esattamente verificata solo se non si considera l’azione gravitazionale degli altri pianeti. In effetti, come in seguito si dimostrò applicando al moto dei pianeti la legge gravitazionale di Newton, le masse dei pianeti si influenzano reciprocamente, generando quel fenomeno noto come precessione del perielio, che è l'avanzamento nel tempo del punto dell'orbita in cui il pianeta è più vicino al Sole. 

In pratica, la traiettoria del pianeta non si chiude in un'ellisse, ma compie un moto “a rosetta” con il quale l'asse maggiore dell'ellisse ruota lentamente rispetto all’ipotetica orbita kepleriana. L'effetto di questa precessione è minimo, anche tenuto conto del fatto che le ellissi descritte dalle orbite dei pianeti sono quasi dei circoli. 


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Di WillowW - Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3416065

Si può esprimere questo leggero movimento dell'ellisse come una velocità angolare, che ha le dimensioni di un angolo piano diviso il tempo. Nel corso dell'Ottocento si effettuarono misurazioni sempre più precise di questa quantità e ci si accorse che, nel caso di Mercurio, la precessione del perielio è pari a 5600 secondi d’arco (ca. 1,6 gradi) per secolo. I calcoli fatti sulla base della teoria newtoniana prevedevano 5557 secondi d’arco per secolo, con una discrepanza di 43’’. 

Per spiegare questa differenza piccola ma intollerabile tra la teoria e la realtà, Le Verrier, sempre lui, osò, calcolò e ipotizzò l'esistenza di un nuovo pianeta vicino alla nostra stella e interno rispetto all’orbita di Mercurio: Vulcano, che si sarebbe rivelato non più reale dell'Anti-Terra. L'orologio celeste incominciava a rivelare qualche malfunzionamento. Non era colpa di Le Verrier (anche se una brutta figura in fondo se la meritava), ma del fatto che emergevano i limiti della gravitazione newtoniana e della natura stessa delle leggi fisiche. 

La spiegazione dell’anomala precessione del perielio di Mercurio fu uno dei grandi successi di Albert Einstein e della teoria della relatività generale. Essa prevede una precessione del perielio dei pianeti anche in assenza di interazione gravitazionale tra di essi. Einstein introdusse un termine correttivo nella formula in base alla quale si calcola la precessione del perielio. La correzione riguardava il quadrato del rapporto fra velocità del corpo e la velocità della luce. Le differenze rispetto alla gravità newtoniana sono apprezzabili solo quando la velocità del corpo è elevata; ora, fra tutti i pianeti, Mercurio è quello che ha la velocità maggiore e quindi risulta quello dove è stata riscontrata l'anomalia. La correzione apportata da Einstein per la precessione di Mercurio dava conto dello scarto precedentemente rilevato, anche se il suo valore più preciso è stato determinato con l'affinamento degli strumenti e dei metodi di misura solo negli anni '70 del secolo scorso. Per una trattazione matematica dell'intera vicenda si può fare riferimento a questo documento.

L'errore dell'astronomo francese dimostra che una legge fisica ha valore finché è compatibile con l'esperienza, cioè fino a quando emergono fatti che impongono il suo superamento o, almeno, una sua correzione. Anche nel caso della gravitazione newtoniana, una descrizione matematica dell'universo che sembrava inattaccabile e che aveva dimostrato una straordinaria capacità predittiva (come nel caso della scoperta di Nettuno), fu il vaglio della natura a rendere necessaria una nuova teoria, più efficace e precisa nel descrivere e prevedere determinati fenomeni. La relatività generale ha così sostituito la meccanica newtoniana come legge generale per descrivere i fenomeni celesti, almeno finché non emergeranno fatti in grado di mettere in luce i suoi limiti. 



Il sistema planetario di 55 Cancri-A 

Le osservazioni strabilianti dei nostri telescopi spaziali potrebbero far pensare che la scoperta di nuovi pianeti possa fare a meno del calcolo. A partire dal 1992, anno della scoperta dei primi pianeti extrasolari (i tre pianeti del sistema gravitante attorno alla pulsar PSR B1257+12 nella costellazione della Vergine), il numero degli esopianeti conosciuti è salito in modo rilevante: dai 20 pianeti scoperti nel 2000, ai 189 del 2011, ai quasi 2000 del 2015. La realtà è che mai come ora la matematica è indispensabile, senza tener conto delle raffinatissime equazioni che governano la progettazione e il funzionamento delle missioni spaziali di esplorazione come Kepler. 

A circa 40 anni-luce da noi si trova la stella doppia 55 Cancri, che, pur non essendo molto luminosa, è visibile con un buon binocolo, data la “vicinanza”. Il sistema stellare è composto da una nana gialla (A) di massa leggermente inferiore a quella del nostro Sole, con una magnitudine apparente di 5,95, e da una nana rossa di tredicesima magnitudine (B), visibile solo con il telescopio. Le due stelle distano tra loro circa mille unità astronomiche (U.A.), vale a dire mille volte la distanza media tra la Terra e il Sole. Attorno a 55 Cancri-A gravita un certo numero di esopianeti gassosi (che vengono indicati a partire dalla lettera b in base alla data della loro scoperta). 55 Cancri b fu scoperto nel 1996. Nel 2002 fu annunciata la scoperta di altri due pianeti, 55Cancri c e 55Cancri d, il più grande e più esterno. Nel 2004 si aggiunse 55 Cancri e, il più piccolo e più interno. 


La situazione del sistema planetario di 55 Cancri-A in quell’anno era la seguente, dall’interno verso l’esterno (le masse sono indicate in masse gioviane Mj, cioè in rapporto alla massa di Giove*; il semiasse maggiore delle orbite, tutte leggermente più eccentriche rispetto a quelle dei pianeti solari, in U.A.): 

e (Mj = 0,027; U.A. = 0.0156) 
b (Mj > 0,824; U.A. = 0,115)
c (Mj > 0,169; U.A. = 0,240) 
d (Mj > 3,835; U.A. = 5,77) 

Come si vede, si tratta di pianeti tutti molto vicini alla stella: basti pensare che b, di massa quasi come quella di Giove, descrive un’orbita che sarebbe interna a quella di Mercurio, mentre d, uno dei più grandi esopianeti conosciuti, ha un’orbita di poco esterna se paragonata a quella del nostro gigante gassoso. 

Molti sistemi esoplanetari sono assai vicini all’instabilità, e la situazione come si presentava nel 2004 portò gli astronomi a pensare che anche quello intorno a 55 Cancri-A lo fosse, in mancanza di una massa addizionale. Si provò allora a ripetere i calcoli di Le Verrier basati sulla legge di gravitazione universale e si fecero dei test teorici, noti come Test Particle Simulations, consistenti nel simulare la presenza di particelle senza massa in una determinata regione di un sistema planetario e calcolare se la loro presenza si può considerare stabile in un periodo di qualche milione d’anni. Si trovò che le ipotetiche particelle colloocate nell’ampia zona tra c e d mostravano una stabilità superiore ai 10 milioni d’anni e si concluse che era probabile l’esistenza di un pianeta, la cui posizione precisa dipendeva dalle masse degli altri pianeti e dall’eccentricità delle loro orbite. 

L’ipotesi fu confermata tre anni dopo, quando un gruppo di radioastronomi americani annunciò la scoperta di un nuovo membro del sistema planetario, collocato proprio tra c e d. Il quinto pianeta del sistema, 55Cancri f, possiede una massa gioviana > Mj e il semiasse maggiore della sua orbita è di circa 0,781 U.A. (che nel sistema solare orbiterebbe internamente alla Terra).

Lo studio del 2007, condotto dall’equipe di Debra Fischer, si basava sulle misurazioni dell’effetto Doppler di 55 Cancri-A per un periodo di diciotto anni. Come si sa, l’effetto Doppler consiste nell’apparente variazione di frequenza delle onde emesse da una sorgente in moto rispetto a un osservatore. Esso è riconoscibile quando le linee spettrali riferite a un oggetto celeste in movimento non si trovano alle frequenze ottenute in laboratorio, utilizzando una sorgente stazionaria. La differenza in frequenza può essere tradotta direttamente in velocità utilizzando apposite formule. Le misurazioni effettuate con lo spettroscopio, combinate con le formule dell'effetto Doppler relativistico, costituiscono il mezzo più affidabile per misurare le velocità radiali di stelle e galassie, rivestendo così un ruolo fondamentale nell'astronomia contemporanea. 

Il diagramma delle velocità radiali di 55 Cancri-A nel tempo mostra delle variazioni periodiche che dipendono dalla presenza delle masse dei pianeti che orbitano intorno alla stella. Essa sembra “danzare” nel tempo, descrivendo un orbita con un periodo di 14 anni, che corrisponde al periodo di rivoluzione del pianeta di massa maggiore, cioè 55Cancri d. Tuttavia, questa oscillazione principale è perturbata da altre più rapide, che corrispondono alle masse e ai periodi di rivoluzione degli altri pianeti.



La matematica fornisce uno strumento formidabile per scomporre un fenomeno ondulatorio: la trasformata di Fourier, con la quale è possibile trasformare un segnale generico in una somma infinita di sinusoidi con frequenze, ampiezze e fasi diverse; la formula inversa di sintesi (o "antitrasformazione") consente la costruzione di un segnale a partire dalle sue componenti. Ad esempio, l'oscillazionein blu (parte alta della figura) può essere ricondotta alle sue tre componenti colorate rispettivamente in arancione, nero e violetto.


Applicando la trasformata di Fourier all’oscillazione composta osservata per 55 Cancri-A si è potuto capire che il sistema comprendeva anche un quinto pianeta. Lo spettro della stella ha infatti rivelato dei picchi che corrispondono esattamente alle orbite dei pianeti. E questi picchi sono cinque.



*La massa gioviana equivale a 317,83 masse terrestri

La saga del grafene

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(tre limerick in sequenza)

C’era a Thiene uno strato di grafene 
che si comportava come conviene, 
con un abito esagonale 
da perfetto collegiale: 
faceva da guida agli elettroni per bene. 


Aveva un fratello molto cattivo 
che si ribellava al nastro adesivo: 
era arruffato 
e spiegazzato. 
Di lui si diceva che fosse nocivo. 


Mamma grafite ebbe un terzo bambino 
con legami anche tripli sul vestitino 
e celle disposte in un frac 
capace del cono di Dirac: 
un bel piccino chiamato Grafino.


Estinzioni

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Arturo era un grosso bovino alpino. Voleva farsi chiamare Artù, ma quegli ignorantoni degli svizzeri lo chiamavano Uro. Dalla rabbia lui si estinse. 

Edoardo era un grosso uccello che viveva su un'isola. Arrivarono i marinai e si misero a chiamarlo Dodo. Dalla rabbia lui si estinse. 

Quando l’alca impenne seppe che Linneo l’aveva chiamata Pinguinus, se la prese così tanto che per la rabbia si estinse. 

Latimeria era un pesce che nuotava nelle acque degli oceani che circondavano la Pangea. Tutti lo chiamavano Celacanto, ma a lui quel nome non piaceva. Se la prese talmente da nascondersi per un centinaio di milioni d’anni, finché non gli fu passata.

La tigre dai denti a sciabola perse la finale mondiale all'ultima stoccata contro il solito ungherese. Dalla rabbia lei si estinse.

Finché ti chiamano mastodonte, va bene. Poi questi uomini eretti incominciano a darti del mammut e tu ti arrabbi. E ti estingui.



Alexander Grothendieck, il ribelle

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ResearchBlogging.org Alla fine degli anni Sessanta “scoppiava finalmente la rivolta”, oppure Alexander Grothendieck, in qualche modo, si era rotto. Si può essere un matematico geniale e avere la ribellione nel proprio destino, che si manifestò nei modi che vedremo, frutto anche dello spirito dei tempi. Non a caso, Grothendieck aveva una grande stima di Évariste Galois, che chiamava il suo frère de tempérament: furono infatti entrambi attivisti radicali, sia nella vita sia nella loro disciplina, che portarono a nuovi livelli di astrazione con un interesse particolare per le relazioni tra gli oggetti matematici. E ambedue finirono in anticipo la loro carriera: Galois tragicamente a causa di uno stolido duello, Grothendieck per un volontario isolamento dal mondo, non solo quello accademico, durato quasi un quarto di secolo, fino alla morte avvenuta a 86 anni nel novembre 2014.

La ribellione di Grothendieck era, possiamo quasi dire, ereditaria. Suo padre, Alexander Schapiro era un ebreo di famiglia ortodossa, che a quindici anni faceva già parte di un gruppo anarchico che partecipò al tentativo rivoluzionario del 1905 di abbattere il regime zarista. Catturato, condannato all’ergastolo, dieci anni più tardi riuscì a evadere, raggiunse l’Ucraina e si associò a un’altra banda armata anarchica. Arrestato di nuovo e condannato a morte, riuscì di nuovo a fuggire, lasciando ai carcerieri solo il suo braccio sinistro.

Partecipò alla rivoluzione del febbraio 1917, ma, quando i bolscevichi presero il potere nel novembre dello stesso anno, l’anarchico Alexander si trasferì a Berlino, dove si manteneva come fotografo di strada. Intorno al 1924 conobbe Hanka (Johanna) Grothendieck, anche lei attivista rivoluzionaria, che viveva dei pochi articoli che riusciva a pubblicare sui giornali. I due si innamorarono e, nel 1928, nacque Alexander Jr., detto Schurik, che visse i suoi primi cinque anni a Berlino con i genitori e una sorellastra.



Nel 1933, quando i nazisti presero il potere, Alexander Schapiro si trasferì a Parigi, dove fu presto raggiunto dalla moglie. Schurik fu affidato a una famiglia fidata di Amburgo. Intanto in Germania la situazione per gli ebrei era ormai diventata insostenibile e, anche se l’origine di Alexander era tenuta nascosta (fu in  quel periodo che assunse il più sicuro cognome tedesco della madre), i suoi genitori adottivi nel 1939, per maggiore sicurezza, lo misero su un treno per la Francia, dove poté riunirsi di nuovo con i genitori naturali, che intanto avevano partecipato alla Guerra di Spagna con gli anarchici ed erano tornati dopo la vittoria dei franchisti.

La Francia non si rivelò un rifugio sicuro: nel 1940 fu invasa dalle truppe tedesche, che insediarono nella parte meridionale del paese il governo collaborazionista del maresciallo Pétain, fortemente antisemita. I genitori di Alexander furono arrestati e il padre fu deportato ad Auschwitz, dove sarebbe morto nel 1942.

Il quattordicenne Alexander fu portato con la madre nel campo di detenzione di Le Chambon-sur-Lignon, una cittadina nel Massiccio Centrale, centro attivo di resistenza all’occupazione nazista. Lì poté comunque frequentare la scuola secondaria, protetto dalla popolazione che, durante le retate della Gestapo, nascondeva i ragazzi ebrei a piccoli gruppi nella foresta. Gli abitanti di Chambon furono poi dichiarati tra i “Giusti nelle Nazioni” per aver salvato la vita di 5.000 ebrei. Nel 1945, con la fine del nazismo, arrivò anche il baccalaureato.

Grothendieck e la madre si trasferirono a Montpellier, dove Alexander poté iscriversi alla facoltà di matematica. Si capì subito che non era uno studente come gli altri: quello che imparava durante le lezioni non gli bastava, e la sua formazione fu in gran parte da autodidatta.

Nel 1948 vinse una borsa di studio per andare a Parigi, dove entrò in contatto con la ricerca matematica. Frequentò il famoso Seminaire Cartan. Non aveva paura di discutere con famosi ricercatori, era ambizioso e appassionato. Più tardi avrebbe scritto:“ero un matematico, uno che fa matematica, nel vero senso della parola, come si fa l’amore”. Riscoprì da solo l’integrale di Lebesgue, seguendo le proprie intuizioni piuttosto che studiare la letteratura esistente.

Poiché Alexander voleva esplorare gli spazi topologici vettoriali, Elie Cartan, l’ormai vecchio padre della matematica francese, che ne aveva capito le potenzialità, lo consigliò di trasferirsi all’Università di Nancy, dove lavoravano due esperti del calibro di Jean Dieudonné e Laurent Schwartz, recente medaglia Fields nel 1950. Questi mostrò a Grothendieck il suo ultimo articolo, che si concludeva con una lista di quattordici questioni aperte, importanti per gli spazi localmente convessi. Il nuovo arrivato risolse tutti i quattordici problemi nel giro di meno di un anno: era nata una nuova stella nel cielo della matematica, all’età di 22 anni.

Nonostante il successo, per Grothendieck era difficile trovare un lavoro in Francia, a causa del suo stato di apolide (l’archivio di Berlino, sua città di nascita, era stato distrutto nel 1945 e lui aveva solo  un passaporto delle Nazioni Unite). I suoi supervisori si preoccuparono della situazione infelice di questo giovane genio, e gli trovarono un posto come visitatore all’università brasiliana di São Paulo, dove Alexander si trasferì tra il 1952 e il 1954. In quel periodo finì la sua tesi di dottorato su Prodotti tensoriali e spazi nucleari (termine quest’ultimo introdotto da lui).


Secondo Dieudonné, in quel periodo Grothendieck aveva già pronto del materiale sufficiente per scrivere sei tesi, alcune delle quali in analisi funzionale. Per avere un’idea di questo dato, basti pensare che una buona tesi in dottorato in matematica richiede almeno due anni di duro impegno.  Pubblicò articoli in francese su riviste brasiliane, nei quali introdusse le “costanti di Grothendieck”, tenne lezioni sugli spazi vettoriali topologici e cominciò a interessarsi di geometria algebrica, l’analisi sistematica delle proprietà geometriche delle soluzioni delle equazioni polinomiali. Lavorava senza posa, fermandosi solo per dormire e mangiare, conducendo una vita spartana, interessato solo ai problemi che stava cercando di risolvere.

Tornato in Francia, dopo la morte della madre nel 1957, Grothendieck si associò con Dieudonné e Jean-Pierre Serre nell’Institut des Hautes Études Scientifiques (IHES), appena fondato presso Parigi, che diventò un centro di riferimento per la matematica e la fisica teorica. Grothendieck guidò un brillante gruppo di giovani matematici tra il 1958 e il 1970, l’epoca d’oro della sua carriera. Per qualche tempo fu anche membro del gruppo di Bourbaki.

Il suo ex collega Pierre Cartier ricorda che conduceva “uno dei seminari di matematica più prestigiosi che il mondo avesse visto”. Esso attraeva i migliori matematici dalla Francia e da tutto il mondo. Le sessioni potevano durare dalle 10 alle 12 ore, portando a improvvise note che Grothendieck scriveva e dava a Dieudonné per essere messe in buona forma. Grothendieck era un insegnante di talento, che spiegava pazientemente anche i passaggi “banali” pur di essere compreso. Uno dei frutti di tale attività fu il progetto Elementi di Geometria Algebrica (EGA), iniziato  nel 1960, ambizioso, monumentale, rivoluzionario e mai concluso.


Aveva anticipato il suo programma di ricerca per quegli anni in un discorso al Congresso Internazionale dei Matematici di Edimburgo, nel 1958. Il suo stile era di cercare una sempre crescente generalità e astrazione, introducendo nuovi termini e concetti, e lavorando sulle loro proprietà. Ciò portò a migliaia di pagine sulla fusione di geometria algebrica, aritmetica e topologia. Nell’autobiografia del 1988 troviamo il suo mondo matematico espresso con parole semplici e chiare:

“Si può dire che “il numero” è adatto a cogliere la struttura degli aggregati “discontinui” o “discreti”: i sistemi, spesso finiti, formati da “elementi” o “oggetti” per così dire isolati gli uni rispetto agli altri, senza qualche principio di “passaggio continuo” dall’uno all’altro. “La grandezza”, al contrario, è la qualità per eccellenza, suscettibile di “variazione continua”; perciò essa è adatta a cogliere le strutture e i fenomeni continui: i movimenti, gli spazi, “varietà” di tutti i generi, campi di forza, ecc. In tal modo, l’aritmetica pare (a grandi linee) come la scienza delle strutture discrete, e l’analisi come la scienza delle strutture continue. 
Quanto alla geometria, si può dire che, dopo oltre duemila anni di esistenza sotto forma di scienza nel senso moderno della parola, essa è “a cavallo” di questi due tipi di strutture, le “discrete” e le “continue”. Per lungo tempo, d’altra parte, non vi era veramente un “divorzio” tra due geometrie che sarebbero state di specie differenti, l’una discreta e l’altra continua. Piuttosto, vi erano due punti di vista diversi nell’investigazione delle stesse figure geometriche: il primo che poneva l’accento sulle proprietà “discrete” (in particolare le proprietà numeriche e combinatorie), l’altro sulle proprietà continue (quali la posizione nello spazio circostante o la “grandezza” misurata come distanze reciproche dei punti, ecc.). È alla fine del secolo scorso che è comparso un divorzio, con la comparsa e lo sviluppo di ciò che è stata chiamata “geometria (algebrica) astratta”. Grosso modo, si è trattato di introdurre, per ciascun numero primo p, una geometria (algebrica) “di caratteristica p”, calcolata sul modello (continuo) della geometria (algebrica) ereditata dai secoli precedenti, ma in un contesto che eppure appariva come irriducibilmente “discontinuo”, “discreto”. Questi nuovi oggetti geometrici hanno guadagnato una importanza crescente dopo l’inizio del secolo, e ciò, particolarmente, grazie alle loro strette relazioni con l’aritmetica, la scienza per eccellenza della struttura discreta. Sembrerebbe che una delle idee direttrici nell’opera di André Weil, può darsi persino la principale (rimasta più o meno tacita nella sua opera scritta, come si deve), sia che “la” geometria (algebrica) e in particolare le geometrie “discrete” associate ai diversi numeri primi, dovessero fornire la chiave per un rinnovamento di vasta portata dell’aritmetica. In questo spirito egli ha proposto nel 1949 le celebri “congetture di Weil”. Congetture assolutamente sbalorditive, a dire il vero, che facevano intravedere, per queste nuove “varietà” (o “spazi”) di natura discreta, la possibilità di certi tipi di costruzioni e di argomenti che fino a quel momento non sembravano pensabili se non nel quadro dei soli “spazi” considerati degni di questo nome dagli analisti – cioè gli spazi detti “topologici”, in cui vale il concetto di variazione continua. Si può pensare che la nuova geometria é, prima di tutto, una sintesi tra questi due mondi, fino ad allora attigui e strettamente solidali, ma tuttavia separati: il mondo “aritmetico”, nel quale vivono i (sedicenti) “spazi” senza principio di continuità, e il mondo della grandezza continua, dove vivono gli “spazi” nel vero senso del termine, accessibili ai metodi dell’analista e (per questo stesso motivo) da lui accettati come degni di risiedere nella città matematica. Nella nuova visione, questi due mondi un tempo separati non ne formano più di uno solo”. (Récoltes et Semailles, §2.10. La géométrie nouvelle — ou les épousailles du nombre et de la grandeur).

L’idea nuova era che a una geometria fatta di spazi, che sono insiemi di punti, si doveva sostituire una nuova geometria i cui oggetti sono le relazioni, le funzioni, i morfismi. E bisognava creare nuovi oggetti, rivelare nuove strutture e esplorare nuovi territori per realizzare  questa sintesi auspicata: gli schemi, i topos, la teoria dei motivi.

Sembrava che questa fantastica stagione non dovesse mai concludersi, quando, nel 1970, a 42 anni, Grothendieck si dimise dall’IHES, e entrò in una fase completamente diversa della propria vita. Ben presto il suo gruppo di ricerca si sciolse.

Fino ad allora la vita di Grothendieck si era concentrata quasi esclusivamente sulla matematica, anche se in qualche episodio aveva manifestato il suo acceso pacifismo e lo spirito anarchico ereditato dai genitori. Quando fu invitato dall'università americana di Harvard, nel 1958, si lamentò della procedura d’ingresso negli USA che richiede la dichiarazione di non voler intraprendere azioni sovversive. Come altri grandi matematici francesi, si schierò contro la guerra coloniale in Algeria e, nel 1966, non andò a ritirare personalmente la Medaglia Fields al congresso matematico di Mosca, in segno di protesta contro l’arresto di due scrittori dissidenti.

La guerra del Vietnam costituì una delle svolte principali della sua esistenza. Nel 1967 fu invitato a tenere lezioni di algebra e geometria algebrica ad Hanoi, che era allora periodicamente bombardata dall’aviazione americana. Incuriosito da una richiesta così insolita, desideroso di conoscere lo stato della ricerca matematica vietnamita e, ovviamente, in segno di protesta contro la politica americana, Grothendieck accettò. Si pagò il viaggio ed ebbe cura di portare quanto più materiale poteva. Dopo qualche giorno di lezioni relativamente tranquille, in cui scoprì il buon livello dei matematici vietnamiti (uno era il vice-ministro dell’istruzione), si intensificarono i raid aerei, e docente e allievi furono costretti a continuare le lezioni nella foresta. Tornato in Francia, fece conferenze sulla sua avventura e scrisse un resoconto dettagliato della visita, in cui comunicava al mondo occidentale la preparazione dei matematici incontrati e la sua simpatia per una nazione in lotta contro l’imperialismo, prima francese e poi americano, da quasi vent’anni.


Nel maggio del 1968, pur senza partecipare direttamente alla lotta studentesca, prese posizione in favore dei manifestanti. La sua ribellione si concretizzò invece all'interno dell’istituzione che aveva fino ad allora contribuito a far crescere. Era venuto a conoscenza che l’IHES riceveva finanziamenti dall’esercito francese, allora aveva contribuito a una protesta dei docenti che nel 1969 aveva fatto interrompere questa pratica. Nel 1970, tuttavia, i finanziamenti militari erano ripresi: ciò apparve intollerabile per le sue idee pacifiste. Cercò di convincere i colleghi alle dimissioni di massa per protesta, ma fu lasciato solo. Forse si era stancato anche di quel “lungo periodo di frenesia matematica”, fatto sta che decise di cambiare vita.

Si separò dalla moglie e aprì una comune, prima a Parigi, poi nel sud della Francia. In quegli ambienti viveva con gente di tutti i tipi, con i quali teneva lunghe assemblee e discussioni politiche. Nel frattempo insegnava con contratti temporanei, prima all'università Paris-Sud a Orsay, poi come visiting professor al Collège de France. Nei suoi corsi affiancava alla matematica interventi sulle istanze sociali e la minaccia delle armi nucleari. Ciò attirò molti studenti e molti curiosi, finché la direzione del Collège decise di non rinnovargli il contratto, benché egli fosse uno dei più famosi matematici al mondo.

Il suo impegno pacifista e ambientalista si fece sempre più intenso. Quando fu invitato a tenere lezioni di matematica all’Università canadese di Montreal, accettò a patto di poter parlare anche delle minacce nucleari per l’umanità. Tenne lezioni anche negli USA, dove si schierò per i diritti dei nativi americani.

Alcuni giovani matematici furono attratti dalle sue idee e divennero attivisti. Assieme a due giovani matematici francesi, Claude Chevalley e Pierre Samuel, Grothendieck fondò, proprio a Montreal, un gruppo chiamato Movimento Internazionale per la Sopravvivenza della Razza Umana, il cui organo era la rivista auto-prodotta Vivre, più tardi diventata Survivre et Vivre, che pubblicava appelli per la pace, articoli sulle responsabilità della scienza e sull'irresponsabile scientismo (“la nuova religione”) di fronte alle minacce del militarismo, dell’industrializzazione senza controlli, dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’uomo sull’uomo. Non mancava una critica aperta al consumismo delle società occidentali. La rivista, che fu attiva tra il 1970 e il 1975, e che ebbe tra i direttori anche Denis Guedj, anticipò molti dei temi che furono poi, e che sono tuttora, patrimonio del pensiero libertario moderno. Riguardo all'ambientalismo, Survivre et Vivre aveva una posizione fortemente critica contro i pericoli dell’”ecofascismo”, cioè di un’ideologia attenta all'ambiente, ma indifferente alle ingiustizie sociali. “Ciclostilata in proprio”, come si sarebbe detto allora, distribuita artigianalmente, Survivre et Vivreebbe una tiratura iniziale di mille copie e giunse a un massimo di quindicimila quando le copertine iniziarono a essere disegnate da Didier Savard. Con il tempo, dopo che Grothendieck e Samuel se ne furono allontanati, la pubblicazione virò verso un linguaggio settario da gruppuscolo, pieno di slogan e con analisi apodittiche senza replica, facendo la fine di molte altre pubblicazioni “rivoluzionarie” dell’epoca.


Alla Scuola Estiva di Anversa del 1972, il suo ex collega dell’IHES Jean-Pierre Serre, che teneva il discorso d’apertura, fu interrotto platealmente da Grothendieck, che arringò i presenti contro la NATO che aveva sponsorizzato l’evento. Crebbe la sua fama di rompiscatole, e anche il risentimento di molti colleghi. Tuttavia, nella lunga conferenza seguita da dibattito che tenne al CERN nello stesso anno, fu calmo e dialogante, spiegando i motivi del suo esilio volontario dalla comunità scientifica, in cui la competizione e la pressione a pubblicare sono immorali e costituiscono un ostacolo alla creatività, e dove i ricercatori hanno perso la coscienza dei motivi del loro fare. Poi sottolineò come per lui la battaglia pacifista contro la minaccia nucleare fosse diventata più importante della ricerca matematica.


Nel 1973 tornò all’Università di Montpellier, tenendo lezioni su vari argomenti matematici. Si comportava amichevolmente con gli studenti, distribuiva mele organiche e si meritò il soprannome di Alexandre le Grand. Forse giovò alla sua popolarità la provocatoria proposta di tirare a sorte i voti degli esami, oppure di dare a tutti il massimo. Non tenne più i suoi famosi seminari, ma seguiva molti studenti di dottorato (si infuriò quando la Springer si rifiutò di pubblicare una tesi). Continuava anche la ricerca, ma il CNRS assicurava solo un supporto minimo.


Tra il 1973 e il 1979 visse nel piccolo villaggio di Olmet-et-Villecun, a 50 chilometri da Montpellier, in una casa semplice senza luce elettrica (usava lampade a cherosene), dove dava ospitalità ai senzatetto. La sua dimora era aperta a tutti, e diventò un riferimento per persone di ogni tipo, compresi hippies e giovani  “alternativi”. Nel 1977 la polizia fece irruzione nell’edificio, in cerca di tutto ciò che potesse essere illegale. Trovarono solo uno studente giapponese al quale era scaduto il permesso di soggiorno. Si trattava di una persona pacifica, all’epoca monaco buddista, ma la sua presenza fu ritenuta sufficiente dalle autorità per denunciare Grothendieck di aver ospitato un irregolare. Sei mesi più tardi, con il giapponese già tornato in patria, fu processato e, nonostante un appassionato discorso e il pubblico sostegno di molti colleghi, fu condannato a una piccola multa con pena sospesa per sei mesi. È evidente che si era voluto dargli una lezione. In quell’anno gli fu attribuita la medaglia Picard dell’Accademia francese delle scienze, che finirà utilizzata come schiaccianoci nell’eremo in cui visse i suoi ultimi anni.


Nonostante il suo impegno, le sue argomentazioni, la sua reputazione accademica e le sue abilità retoriche, il gruppo di Grothendieck rimase relativamente piccolo e inascoltato, il che lo portò a un progressivo sentimento di impotenza. Pensava che le persone, anche se sono intellettuali o scienziati, non si rendono conto dei pericoli che minacciano il pianeta, e si comportano irrazionalmente. Dalla seconda metà degli anni ’70 rallentò il ritmo dei suoi appelli e delle conferenze.

Continuò a scrivere ponderosi testi di più di mille pagine, come La lunga marcia attraverso la teoria di Galois e Alla ricerca dei Campi. Coordinò poi la stesura di Abbozzo di un Programma, con idee sul futuro della matematica, scritto in realtà dai giovani matematici suoi seguaci Leila Schneps e Pierre Lochak.

Tra il 1983 e il 1988 Grothendieck scrisse una bella autobiografia intitolata Récoltes et Semailles (Raccolte e semine), nella quale presentava la sua vita e il suo lavoro e forniva elementi eterogenei, come poesie in tedesco e giudizi, talvolta critici, sulla comunità matematica e gli ex colleghi.

Nel 1988 gli si doveva assegnare il prestigioso Premio Crafoord della Accademia Reale Svedese delle Scienze, assieme al suo ex studente Deligne. Grothendieck tuttavia lo rifiutò, inviando a Le Mondeuna cortese lettera in cui spiegava le sue ragioni. In primo luogo non aveva bisogno di soldi, e, riguardo all’importanza del suo lavoro, avrebbero deciso il tempo e i frutti, non gli onori. Aggiungeva che tali premi sono sempre dati alle persone sbagliate, che non hanno bisogno di ulteriori ricchezze e glorie. Chiedeva se la “sovrabbondanza per alcuni” non fosse data “al costo dei bisogni degli altri” e, infine, sottolineava che l’accettare di “partecipare al gioco dei premi” avrebbe significato la sua “approvazione dello spirito (...) del mondo scientifico”, in cui l’etica è“calata al punto che il palese furto tra colleghi (specialmente ai danni di coloro che non sono nella posizione di difendersi) è quasi diventato una regola generale”.

In quell'anno andò in pensione e si dimise dall'Università di Montpellier e, nel 1991, anche dalla società: interruppe i contatti con quasi tutti, compresa la sua famiglia, composta da alcuni figli avuti da diverse relazioni. Si ritirò a vivere una vita semplice in un borgo sui Pirenei francesi, di cui volle tenere segreta l’ubicazione. Scrisse ancora un testo matematico, I derivatori, di circa 2000 pagine, che consegnò a un amico. D’altro canto, una volta diede alle fiamme una gran quantità di note, lettere e altri documenti: si stima circa 25.000 pagine. Il suo interesse principale diventò lo spiritualismo e la meditazione, entrando nella fase finale della sua vita, quella di eremita, dapprima influenzato dal buddismo, poi ispirato da una personale e mistica versione del cristianesimo. Lunghi digiuni minarono la sua salute.


Continuò a scrivere moltissimo: passava molte ore a vergare fogli per parlare delle sue idee e delle esperienze mistiche: decine di migliaia di pagine che non volle mai pubblicare e che, tornate recentemente in possesso della famiglia, aspettano ancora di essere sistemate e pubblicate. Nel 2010 aveva scritto una bizzarra lettera manoscritta in cui chiedeva la rimozione di tutte le sue opere dalle biblioteche, ma la richiesta era impossibile da esaudire e non fu presa in considerazione.


Solo poche persone fidate sapevano dove viveva e dovevano giurare di non rivelare questa informazione. Non aveva un indirizzo postale né il telefono, né tantomeno internet. Alla fine il mondo seppe che Alexander Grothendieck era morto il 13 novembre 2014 nel piccolo ospedale di Saint-Girons, ai confini con la Spagna.

Philippe Douroux - «Alexandre Grothendieck» - Images des Mathématiques, CNRS, 2012
Nicola Ciccoli - La lunga marcia in salita di Alexander Grothendieck - MaddMaths, SIMAI, 2014
Wolfgang Bietenholz, & Tatiana Peixoto (2016). To the Memory of Alexander Grothendieck: a Great and Mysterious Genius of Mathematics Ciencia e Sociedade (CS) CBPF, Brazil, v.3, n.1 (2015) 1-9 arXiv: 1605.08112v1

La Puglia matematica di Sandra Lucente

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Per scrivere un libro come Itinerari matematici in Puglia ci vogliono amore, coraggio e, diciamolo, una certa dose di ludico entusiasmo. Amore per la propria terra, innanzitutto, la Puglia, terra bellissima e ricca di tesori naturali e artistici, che è stata percorsa in lungo e in largo toccando località grandi e piccole, magari solo per raggiungere quel campanile, quel megalito o quel portale. Amore per la matematica, la cui storia e i cui principali settori, dalla geometria elementare ai frattali e alla topologia, sono presentati prendendo spunto dalle località visitate, perché, come dice l’autrice, “la matematica è il linguaggio dell’universo, così come di questa regione”. Ci vuole anche coraggio, perché narrare la matematica in un libro destinato al lettore non specialista è sempre un’operazione difficile e irta di pericoli, in quanto bisogna percorrere lo stretto sentiero che si inoltra tra la palude della banalizzazione e la scogliera dell’eccessivo tecnicismo. Per fortuna Sandra Lucente è ben conscia di queste difficoltà, essendo ricercatrice matematica all’Università di Bari con una lunga esperienza di divulgazione a vari livelli e con diversi tipi di destinatari. 

Dicevo anche dell’entusiasmo, in quanto un testo simile nasce come gioco, come divertimento, come scommessa della Lucente e dell’editore in un panorama editoriale depresso e conformista come quello italiano. Itinerari matematici in Puglia non sarà certo un best seller, ma l’intelligenza e la cura che lo caratterizzano ne fanno un prodotto editoriale destinato a una costante presenza sugli scaffali dei librai e nelle biblioteche delle scuole, pugliesi e non solo. 


Il lettore di queste note potrebbe ora chiedere: sì, va bene, ma come è fatto il libro? Si tratta del viaggio in Puglia di un curioso turista matematico, Paul, interessato non solo all’arte e alla natura della regione, ma anche alla sua cultura nel senso più generale (la storia, la gastronomia, le tradizioni). Paul non è un turista da comitiva o da viaggio organizzato, piuttosto è un turista di quelli di una volta, come i nobili e gli intellettuali europei (un nome per tutti: Goethe) che, a partire dal XVII secolo e fino al XX inoltrato, intraprendevano quel viaggio di formazione, studio e divertimento che prese il nome di Grand Tour. Le mete preferite di quei viaggi erano l’Italia e la Grecia, in cui si cercava di cogliere lo spirito classico. Quello di Paul dovrebbe essere un piccolo tour, essendo limitato a una sola regione, ma egli è curioso e non si accontenta di visitare solo le località più celebri. 

Paul è un matematico, e il suo sguardo non può fare a meno di cogliere la matematica che è presente in quello che vede, dalle frazioni continue che gli sono ispirate dal dolmen di Bisceglie, fino alla costruzione dei poligoni con riga non graduata e compasso che gli suggerisce lo splendido rosone traforato della concattedrale di Troia, con undici colonne a mo' di raggio. Accompagnato dal suo inseparabile taccuino quadrettato, Paul osserva, scrive schemi e disegna figure, che troviamo in fondo a ciascuno dei 30 capitoli del libro. Poi, il suo sguardo matematico è l’occasione di riflessioni e suggerimenti per esercizi e/o attività didattiche legati a quanto è stato visto di volta in volta. Il libro è strutturato come una guida, per cui i capitoli possono essere letti qua e là in modo non sequenziale, con la sola avvertenza che la matematica più moderna e più “complicata” si trova verso la fine. Ma è spiegata comunque bene.



Sandra Lucente
Itinerari matematici in Puglia
2016, Editrice Giazira Scritture, Noicattaro (BA)
pp. 167, € 15,00

Una canzone latina per le cifre arabo-indiane

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Intorno al 1240, il monaco francescano francese François Alexandre de Ville Dei (o Villedieu) scrisse il Carmen de Algorismo (Canzone dell’Algorismo), un poema didattico in esametri latini, dedicato ai numeri naturali e alle loro operazioni. Le immagini grandi mostrano una copia da un manoscritto spagnolo della prima metà del Trecento. 



Le righe iniziali dell’opera (vedi sopra) recitano: 
Qui inizia l’algorismo
Questa arte nuova si chiama algorismo, in
cui da queste due volte belle cifre
    0 9 8 7 6 5 4 3 2 1
degli Indiani ricaviamo tale beneficio … 
Per quanto breve, il Carmenè la prima opera (dopo il Liber Abaci di Fibonacci del 1202 e del 1228) in cui si introduce il simbolo “0” per indicare lo zero nella letteratura in latino. In realtà il primo documento europeo contenente le cifre arabe risale al 976, il Codex Vigilanus, ma questo prezioso codice miniato conservato all’Escorial di Madrid non conteneva la cifra indicante lo zero. 

L’autore del Carmen attribuisce erroneamente le cifre a un re indiano di nome Algor, da cui sarebbero derivati i termini “algorismus” e algorismo, o algoritmo, usati per indicare i procedimenti di calcolo per le quattro operazioni aritmetiche nel sistema posizionale decimale, in contrapposizione al sistema di numerazione romano e all’uso dell’abaco. Oggi sappiamo che questi nomi derivano per corruzione del nome del matematico persiano Al-Khwarizmi, il pioniere dell’algebra attivo a Baghdad nel IX secolo, mentre con algoritmo indichiamo una procedura di calcolo descritta in modo sufficientemente preciso atta a risolvere un determinato problema. 



Secondo lo storico della matematica David Eugene Smith, che aveva notato il gran numero di copie sopravissute nelle biblioteche europee all’inizio del XX secolo, il Carmen“probabilmente fece di più per far conoscere le cifre indo-arabiche di qualsiasi altra opera ad esso contemporanea”.

Immagini digitalizzate dalla Collezione Lawrence J. Schoenberg dell’Università della Pennsylvania, via MAA.

La passione matematica del giovane Stendhal

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La Vita di Henry Brulard, Ricordi di egotismo, di Stendhal, cioè Henri Beyle (1783-1842), uscito postumo nel 1890 e scritto in Italia tra il novembre 1835 e il marzo 1836, è di sicuro il frammento autobiografico più lungo che ci sia giunto dello scrittore francese. Si tratta di un libro disordinato, il cui unico filo conduttore è quello cronologico, con il racconto dei primi diciassette anni della sua vita. Stendhal, cinquantaduenne, decide di dare voce ai suoi ricordi, che confluiscono in un'autobiografia intitolata come sempre con uno pseudonimo, questa volta il nome di un suo prozio monaco dalla testa enorme, a cui si diceva che assomigliasse. La Vita è il resoconto amaro e disilluso di un uomo che decide di raccontare i dettagli e non l’epica della sua vita, non i momenti più esemplari, ma i fatti “minori”, come l’infanzia in una opprimente Grenoble, la perdita della madre, l’odio per un padre ottuso e autoritario, il suo amore per la matematica, fino al suo arrivo a Parigi e la crisi delle sue illusioni giovanili. 

Henri Beyle vive i suoi primi anni nell’epoca della Rivoluzione, il cui vento giunge infiacchito nel periferico Delfinato e nell’intellettualmente asfittico ambiente borghese in cui vive la famiglia, dove la sua unica conquista è l’amore per la letteratura. Così scrive nella sua “autobiografia mascherata da romanzo”: 
 “All’epoca della morte di mia madre, verso il 1790, la mia famiglia era […] composta da M. Gagnon padre, sessant’anni; M. Romani Gagnon, suo figlio, venticinque anni; Séraphie, sua figlia, ventiquattro anni; Elisabeth, sua sorella, sessantaquattro anni; Chérubine Beyle, suo genero, quarantatré anni: Henri, figlio di Chérubine, sette anni; Pauline, sua figlia, quattro anni; Zenaide, sua figlia, due anni. Sono questi i personaggi del triste dramma della mia giovinezza, che mi riporta alla mente quasi solo sofferenza e profonda insoddisfazione morale”
Nel 1796, Henri Beyle, a tredici anni, entra nella Scuola Centrale dell’Isère, a Grenoble, appena creata dalla Convenzione: non è un ragazzino felice. La sua infanzia, fino ad allora solitaria, si è svolta in una casa governata duramente, dove non gli sono permessi gli svaghi. I suoi precettori sono stati dei preti, tra i quali il detestato Abate Raillane, la cui tirannia è durata dal 1792 al 1794. 

La Scuola Centrale segna il suo incontro con la libertà. Finalmente può uscire di casa senza essere accompagnato, e può scegliersi degli amici tra gli allievi. Frequenta la scuola per tre anni: chi legge la Vita di Henry Brulard è colpito dalla ripetuta asserzione del suo amore per la matematica: 
“La passione per la matematica assorbiva talmente il mio tempo che Félix Faure m’ha detto che portavo allora i capelli troppo lunghi, tanto mi lamentavo della mezz’ora che bisognava perdere per farli tagliare. […] Amo ancora la matematica per se stessa, come non ammettendo l’ipocrisia e il vago, le mie due bestie nere […] la convivenza con un ipocrita mi dà un inizio di mal di mare […] avevo già un disgusto mortale per le donne oneste e l’ipocrisia che è loro indispensabile […] l’ipocrisia, ai miei occhi, erano mia zia Séraphie, la signora Vignon (amica di Séraphie), e i loro miseri preti”
Dato che i sentimenti si mescolano con l’amore per lo studio, è utile esaminare affetti e avversioni di Beyle per i suoi parenti: prima di tutto c’è il padre, Chérubin Beyle, avvocato del Parlamento locale, cavaliere della Legion d’Onore, vicesindaco di Grenoble, speculatore sfortunato, individuo poco intelligente e di scarsa sensibilità. Per lui il figlio prova solo disprezzo: “Era un uomo decisamente poco amabile e non mi amava come persona ma come figlio che doveva perpetuare la stirpe […]. La smania di allontanarmi da Grenoble, cioè da lui, e la mia passione per la matematica […] mi indussero a vivere in profonda solitudine dal 1797 al 1799”.


La madre di Henri, nata Gagnon, donna cresciuta leggendo Dante e il Tasso, era morta quando lui aveva sette anni, provocandogli un dolore profondo. Aveva una sorella, la terribile zia Séraphie, che la sostituì nell’educazione di Henri. Romain Colomb, cugino ed esecutore testamentario di Stendhal, rivela che Séraphie era il “governatore” della casa: “Lei non amava che poche cose sulla terra, ma detestava suo nipote Henri, favorito del signor Gagnon padre, e non si lasciava sfuggire alcuna occasione per testimoniargli la sua avversione”

All’opposto, tra gli affetti, c’era il nonno materno Gagnon, medico dallo spirito illuminista, che Henri adorava e che si era battuto per l’istituzione della nuova Scuola a Grenoble e sollecitava nuovi finanziamenti per rendere decorosa la struttura.


Nella Vita di Henry Brulard, Beyle scrive che fu proprio frequentando la Scuola avvenne la sua “caduta nella matematica”. Non si può escludere che ciò avvenne proprio per reazione alle idee del genitore: “Mio padre detestava la matematica per motivi religiosi, credo: la perdonava solo quando serviva e rilevare la pianta delle sue tenute”

Henri Beyle, invece, incominciando a studiarla con crescente interesse, inizia a capire che “la matematica considera solo un aspetto particolare degli oggetti (la loro quantità), ma ha il fascino di dire, su questo aspetto, solo cose certe, solo la verità e quasi tutta la verità”

Anche nello studio della matematica, tuttavia, il giovane non è soddisfatto, perché ben presto si rende conto della mediocrità dei suoi insegnanti: 
“Quanto più amavo la matematica, tanto più disprezzavo i miei insegnanti, M. Dupuy e M. Chabert”. [Essi] “sono ipocriti come i preti che vengono a dire la messa da mio nonno, e la cara matematica non è altro che un imbroglio? Non sapevo come raggiungere la verità. Ah! Come avrei ascoltato avidamente, allora, una parola sulla logica e sull’arte di trovare la verità!” 
Henri impara l’algebra sul “disgustoso Bezout”, a cui preferisce il Clairaut, meno dogmatico, i cui Elementi di algebra (pubblicato per la prima volta nel 1747) si estendono fino alla risoluzione delle equazioni di quarto grado. Presto il rancore per il padre si estende a tutta la città di Grenoble: “Cominciavo a dirmi seriamente: bisogna prendere una decisione e uscire da questa melma. Avevo solo una possibilità al mondo. La matematica. Ma me la si spiegava così stupidamente che non facevo alcun progresso. […] Ciò nonostante, Bezout era la mia sola risorsa per partire da Grenoble. Ma Bezout era così una bestia! (…) Era una testa come quella di M. Dupuy, il nostro enfatico professore […] quest’uomo così vuoto […] questo grande Dupuy ci spiegava le proposizioni come una serie di ricette per fare l’aceto”. Sebastien Henri Dupuy de Bordes, esperto di geometria, era stato insegnante del giovane Napoleone Bonaparte alla Scuola Reale di Artiglieria di Valence, ma Stendhal lo considerava un ignorante, incapace di comprendere anche una sola frase di ciò che ampollosamente insegnava agli allievi.

L’alternativa era Chabert: “Mio nonno conosceva un borghese di vedute ristrette, di nome Chabert, che teneva lezioni private […] Gli piaceva il Clairaut, ed era una cosa immensa metterci in contatto con quell’uomo di genio e farci uscire un po’ dal piatto Bezout. Aveva il Bossut, l’abbé Marie, e ogni tanto ci faceva studiare un teorema su questi autori. Aveva anche in manoscritto qualche cosetta di Lagrange, delle cose adatte alla nostra piccola portata”. Ma Chabert “aveva sempre […] l’aria di un farmacista che conosce delle buone ricette, ma niente lasciava capire come queste ricette nascessero le une dalle altre, nessuna logica, nessuna filosofia in quelle testa”. La curiosità gli fa consultare “gli articoli matematici di d’Alembert sull’Enciclopedia, [ma] il loro tono di presunzione, l’assenza di culto per la verità mi impressionarono fortemente e, d’altra parte, ci capivo poco”

Il giovane Beyle aveva aspettative smisurate e confuse sulla matematica: 
“A quattordici anni, nel 1797, immaginavo che la matematica pura, che io non ho mai studiato, arrivasse a comprendere tutti o quasi gli aspetti delle cose e che, approfondendone lo studio, sarei giunto a sapere delle cose certe, indubitabili, e che avrei potuto mettermi alla prova, senza limitazioni, su tutto”. 
Così volle intestardirsi per capire come mai meno per meno fa più: 
“Come potevo rassegnarmi, quando mi accorsi che nessuno sapeva spiegarmi com’era che meno per meno fa più (-× - = +, è uno dei fondamenti della scienza chiamata algebra). Facevano anche di peggio: oltre a non spiegarmi questo problema (che certamente si può spiegare perché conduce alla verità), me lo presentavano con delle argomentazioni evidentemente poco chiare anche per coloro che me le esponevano. M. Chabert, assillato dalle mie domande, era a disagio, ripeteva la sua lezione, proprio quella su cui chiedevo dei chiarimenti, e sembrava che volesse dirmi: Ma questa è la consuetudine, tutti accettano questa spiegazione”
È interessante notare come la ricerca morale che lo attira verso la matematica (verità contro ipocrisia) porterà il giovane Beyle persino a sfiorare una questione essenziale: la validità del quinto postulato di Euclide. 
“Si può immaginare quale livore si impadronì del mio animo quando cominciai la Statique di Louis Monge, fratello dell’illustre Monge, e che sarebbe poi venuto a fare gli esami di ammissione all’ècole Polytechnique. [Beyle si sbaglia, la Statique del 1788 è proprio dell’illustre Gaspard Monge!]. […] Quell’insigne bestione di Louis Monge ha scritto all’incirca così: Due linee parallele possono essere considerate incrociantisi se le si prolunga all’infinito. Ebbi l’impressione di leggere un catechismo e, oltretutto, uno dei più scalcinati. Chiesi inutilmente spiegazioni a M. Chabert. “Figliolo, dice assumendo quell’aria paterna […], figliolo, lo capirete più avanti”, e il mostro, avvicinandosi alla sua tavoletta di tela cerata e tracciando due linee parallele e molto vicine, mi dice “Vedete bene che all’infinito si può dire che s’incontrano”. Ero lì per lasciar perdere tutto. A quel punto un confessore, abile e buon gesuita, avrebbe potuto convertirmi commentando la massima: “Vedete bene che tutto è errore, o meglio, che non c’è niente di falso, niente di vero, tutto è convenzione”. 


In realtà, come si sa, pochi anni prima che Stendhal stendesse queste righe, si era giunti a considerare indimostrabile questo postulato, che era quindi, in quanto postulato, proprio una convenzione. Non rispettandolo, Lobačevskij, Bolyai e l’onnipresente Gauss avevano fondato le geometrie non euclidee. 

Per fortuna il giovane Henri può contare su un aiuto inaspettato:
[…] da qualche tempo sentivo parlare di un giovane, noto giacobino, che di matematica ne sapeva di più di M. Dupuy e M. Chabert, ma che non ne faceva mestiere […]. Non so come abbia potuto, timido com’ero, avvicinarmi a M. Gros. […] Ci disse: - Cittadini, da dove cominciamo? Bisognerebbe vedere a che punto siete. – Dunque, abbiamo fatto le equazioni di secondo grado. E, da persona sensata, si mise a spiegarci le equazioni, cioè, per esempio, la costruzione di un quadrato a + b, che ci faceva elevare alla seconda potenza: a2 + 2ab + b2. L’ipotesi che il primo membro dell’equazione fosse un inizio di quadrato; il complemento di questo quadrato, ecc. ecc. ecc. Si schiudevano i cieli per noi, o almeno per me. Vedevo finalmente il perché delle cose: non c’era più una ricetta da farmacista caduta dal cielo per risolvere le equazioni. Provavo un piacere intenso, analogo a quello della lettura di un romanzo appassionante. […] Gros […] mi aveva conquistato”

Henri Beyle non prende in giro nessuno sulle sue capacità: “Può darsi che ci sia orgoglio nella qualifica di eccellente matematico che mi è stata attribuita. Non ho mai saputo il calcolo differenziale e integrale”. Anche senza conoscere queste cose, egli esce dalla Scuola Centrale di Grenoble come primo in matematica, più bravo di altri otto che, qualche settimana più tardi, furono ammessi all’École Polytechnique di Parigi. C’è da dire che allora si poteva essere ammessi alla prestigiosa istituzione con un programma che comprendeva “aritmetica, geometria, trigonometria, algebra e sezioni coniche” e non il calculus

Per presentarsi all’esame d’ammissione all’École Polytechnique, Henri Beyle lascia Grenoble, la famiglia, la Scuola Centrale dell’Isére e il suo mondo. Suo padre lo saluta piangendo: “la sola impressione che mi fecero le sue lacrime, fu che lo trovai molto brutto”. Giunge a Parigi nel novembre 1799, appena dopo il 18 brumaio in cui Napoleone aveva preso il potere con un colpo di stato e si era fatto nominare Primo Console.


Ma i grandi cambiamenti avvengono anche nella testa del giovane.
“Al mio arrivo a Parigi due grandi oggetti di desideri duraturi e intensi caddero di colpo nel nulla. Avevo adorato Parigi e la matematica. Parigi senza montagne mi ispirò un disgusto così profondo che arrivava quasi alla nostalgia. La matematica era per me come lo scheletro di un falò ormai spento […] Li detestavo persino un po’, nel novembre 1799, perché li temevo. Ero deciso a non sostenere l’esame […] 
Improvvisamente nostalgico della piccola Grenoble, disilluso sul suo futuro come matematico, per due o tre settimane si sente sospeso sul vuoto, si ammala. Beyle si riprende grazie all'intervento provvidenziale di un cugino benestante e influente: Pierre Daru, il quale si adopera per fargli ottenere un impiego al ministero della guerra, dandogli modo di partire per l'Italia a seguito dell'esercito napoleonico di riserva. Ma anche questa sistemazione non sarà definitiva: diventerà uno scrittore e, dal 1814, si farà chiamare Stendhal.

Carnevale della Matematica n. 100

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Era mercoledì 14 maggio 2008 e Roberto Zanasi ospitava su Gli studenti di oggi il primo Carnevale della Matematica italiano. A quella storica edizione parteciparono, oltre allo Zar, l’ideatore della manifestazione, cioè .mau., e poi Biagio Raucci, Marcello Seri, Irickblog (perso nelle brume della rete), Chicken del Dipartimento di Matematica dell’Università di Bologna, Giovanna Arcadu, Dario Bressanini (sic) e Cassa (Matteo Casati). Tanto per dare un’idea di quanto tempo è passato, in questo mondo che corre veloce e altrettanto velocemente dimentica, dirò che in quel mese c’era l’emergenza rifiuti in una grande città, si combatteva nel Vicino Oriente, nasceva il quarto governo Berlusconi con un programma di centro-destra che prevedeva l'abbattimento delle tasse, la riforma elettorale e anche quella costituzionale, l’Inter era allenata da Mancini, ma vinceva il suo sedicesimo scudetto. Quante cose sono cambiate!  


Oggi, a otto anni e tre mesi di distanza, la nostra manifestazione festeggia il numero 100, confermandosi di gran lunga il carnevale più antico della rete italiana. Cento edizioni cominciano ad esercitare un certo peso sul prestigio dell’iniziativa e dei suoi collaboratori, particolarmente di quelli storici. Possiamo anche tirarcela un po'. 

Veniamo ora a parlare di questa edizione, che il clima ferragostano ha consigliato fosse a tema libero. Il numero cento, che si fattorizza come 22 x 52, nella nostra tradizione corrisponde a un verso della poesia gaussiana, e cioè a “canta tra i cespugli, canta tra i cespugli”, di cui Dioniso ci fornisce la cellula melodica, questa volta caratterizzata da un intervallo di terza maggiore:

 

I divisori di 100 sono 1, 2, 4, 5, 10, 20, 25, 50, 100. Poiché la somma di questi numeri, fatta eccezione per 100 medesimo, è 117 > 100, si tratta di un numero abbondante. 

È il quadrato di 10, e, come tutte le altre potenze di 10, è alla base dell’espressione di numeri molto piccoli o molto grandi con la notazione scientifica. 

Il nostro protagonista è la somma dei primi nove numeri primi: 2 + 3 + 5 + 7 + 11 + 13 + 17 + 19 + 23 = 100; è anche la somma dei cubi dei primi quattro numeri interi: 13 + 23 + 33 + 43 = 1 + 8 + 27 + 64 =100.   

È il numero base della percentuale: 100% indica il totale, o l’unità. 

Compare in alcune terne pitagoriche, come (28, 96, 100), (60, 80, 100), (75, 100, 125), (100, 105, 145), (100, 240, 260), (100, 495, 505), (100, 621, 629), (100, 1248, 1252), (100, 2499, 2501). 

Per gli appassionati di teoria dei numeri, dirò anche che è un numero ottadecagonale. noncototiente, di Harshad (in base dieci), di Leyland, potente, pratico, palindromo nel sistema di numerazione posizionale a base 7 (202) e in quello a base 9 (121).

100 è anche il più piccolo numero il cui logaritmo decimale è un numero primo (cioè 2). A questo punto mi si vorrà concedere di ricordare il logaritmo di Cento:

C’era un logaritmo bugiardo di Cento

che dal dir panzane si tratteneva a stento.

Gli chiesero se era vero

che era stato il logaritmo di zero,

ma il logaritmo di 100 cambiò argomento.

In campo scientifico, 100 è il numero atomico del Fermio (Fm); corrisponde alla temperatura di ebollizione dell’acqua in gradi Celsius; in astronomia, l’oggetto del Catalogo di Messier M100 è una galassia a spirale di magnitudine 10,5 situata nella costellazione della Chioma di Berenice, mentre l’oggetto NGC 100 è una galassia a spirale di magnitudine 13,3 che si trova nella costellazione dei Pesci.

È ora di presentare gli articoli che mi sono stati segnalati: lo faccio in ordine rigorosamente cronologico: 

Annalisa Santisostiene che questa centesima edizione del Carnevale gli ha ricordato la presentazione, avvenuta lo scorso 23 giugno 2016 a Roma, del progetto “Guida delle esperte – 100 donne contro gli stereotipi”, che mira alla realizzazione di una banca dati delle eccellenze femminili che sarà pubblicata in una sezione dedicata all'interno del portale Wikipedia. Pertanto ha deciso di scrivere per MatetangoA spasso per Milano con 4 donne illustri, proprio dedicato a quattro grandi figure femminili in campo scientifico che l’hanno accompagnata nella toponomastica del capoluogo lombardo.


Assieme alla cellula melodica, Dionisomi ha inviato la segnalazione del suo articolo scritto per Through the optic glass, la rivista di storia della scienza su Medium redatta da autori italiani. Si tratta della prosecuzione della sua serie sulla storia della matematica, che questa volta prende in considerazione Zenone, la scuola eleatica e Democrito. Che successe alla matematica dopo la scoperta che non tutto si poteva esprimere attraverso i numeri allora conosciuti? Qualcuno dovette avere l’intuizione che fosse la geometria anziché il numero a governare il mondo... 
Su Pitagora e dintorni, Dioniso fa anche un telegrafico invito toponomastico, Una Piazza per Ipazia e Una via per Muía, che intende rivalutare la figura della bella figlia di Pitagora, musicista e matematica.

Roberto Zanasi, che cento edizioni fa ospitò il primo Carnevale, segnala due articoli che ha scritto per Gli studenti di oggi sui numeri di Catalan (e su come fare per ricordarsi una delle formule): I numeri di Catalan — 1. Permutazioni e anagrammi, e I numeri di Catalan — 2. Percorsi particolari possono portare a ponderate persuasioni.


Veniamo ora ai contributi di Maurizio Codogno: su Il Post troviamo Niente nuovo bosone, dove si spiega perché le particelle "viste" svaniscono poi nel nulla. 
Nelle Notiziole ci sono invece i tradizionali quizzini della domenica: Radici, Divisori, Testa o croce
Seguono le utilissime recensioni: Giocando con l’infinito, dell’ungherese Rosza Péter, un testo ormai datato di didattica della matematica, tradotto in italiano da un giovanissimo Giulio Giorello; Mental Gymnastics di Dick Hess, quizzini tra il modello A-ha e quello "facciamo tanti conti", tutti rivisti dall'autore in maniera personalizzata; La matematica da Pitagora a Newton, di Lucio Lombardo Radice, che, a dispetto del titolo, che sembra parlare di storia della matematica, è un vero manualetto di didattica; Single Digits, di Marc Chamberland, un bel libro di teoremi e curiosità che riguardano i numeri da uno a nove.


Annarita Ruberto ha pubblicato su Matem@ticamente un articolo intitolato I 10 Numeri Più Interessanti – 1° Parte, in cui, dopo aver dimostrato che tutti i numeri sono interessanti, presenta i primi cinque, con note storiche, pareri autorevoli, anche in modo poetico. Restiamo in attesa della continuazione, per conoscere gli altri cinque.

Sullo Zibaldone Scientifico, Mauro Merlotti ha pubblicato 214. Suite: Judy Blue Eyes - The islanders puzzle, il cui titolo richiama una stagione musicale e culturale indimenticabile. Si tratta di un problemino logico, “Gli isolani dagli occhi blu”, che racconta del concetto di "conoscenza comune", introdotto da David Kellogg Lewis nel 1969, la cui formulazione matematica è stata data da Robert Aumann nel 1976. E' ambientato su un'isola dove vigono regole abbastanza strane, ma la matematica necessita di queste situazioni estreme.


I contributi di MaddMaths!, segnalati da Roberto Natalini, sono come al solito numerosi. 
Top 10 Estate 2016: Anche quest'anno il mese d'agosto è l’occasione per riproporre 10 articoli apparsi sul sito che negli ultimi 12 mesi hanno incontrato un notevole successo di pubblico. Rileggeteli tutti!
Ricordo di Rudolf "Rudi" Kálmán: Il 2 luglio scorso è morto il matematico e ingegnere statunitense di origine ungherese Rudolf Emil Kálmán, il padre della tecnologia da cui si è evoluto il Gps. Aveva 86 anni ed è universalmente riconosciuto nella comunità scientifica internazionale come il fondatore della moderna teoria dei sistemi e del controllo. Il ricordo è di Benedetto Piccoli della Rutgers University. 
RETI - Concetti essenziali e idee di base: Mentre il nostro mondo diventa sempre più connesso attraverso l'uso di reti, o network, che rendono le comunicazioni e la diffusione di informazioni pressoché istantanee, il livello di comprensione di come queste reti funzionino avrà un ruolo importante nel determinare quanto la società trarrà beneficio da questa connettività accresciuta e pervasiva. Una breve guida presentata e tradotta in italiano da Paolo Tieri
Il consiglio scientifico dell'UMI scrive all'ambasciata turca in Italia: Il 21 luglio il Consiglio Scientifico dell'Unione Matematica Italiana ha inviato, per mezzo del suo Presidente Ciro Ciliberto, una lettera all'Ambasciata Turca in Italia. Leggiamola insieme, accompagnata da un breve messaggio della Presidentessa della Società Matematica Turca, Betül Tanbay
All'italiano Guido De Philippis uno dei premi della European Mathematical Society: Il 18 Luglio scorso si è aperto il 7° Congresso della EMS, che si è tenuto a Berlino, presso la Technische Universität. Durante la cerimonia di apertura, sono stati proclamati i vincitori dei premi della EMS che sono assegnati ogni quattro anni, in occasione del congresso, a giovani brillanti matematici che hanno dato originali, importanti, contributi di ricerca alla matematica e che non abbiano raggiunto i 35 anni di età. Quest'anno uno dei premi è stato conferito a Guido De Philippis, Professore Associato presso la SISSA di Trieste. 
Qualche riflessione sull'INVALSI: Il giorno 7 luglio 2016 si è tenuto a Roma, nella sede del MIUR, un incontro nel quale i vertici dell’INVALSI hanno presentato i risultati delle ultime prove di rilevazione delle competenze degli studenti di ogni livello scolastico. Ce ne parla Roberto Tortora, Presidente della CIIM (Commissione Italiana per l’Insegnamento della Matematica).


Copiosi anche gli articoli che Davide Passaro segnala per conto di Math is in the air, giovane ma autorevole blog collettivo sulla matematica applicata.
Letture matematiche estive: qualche suggerimento di libri da mettere in valigia: Pensando che i lettori del blog (così come quelli del carnevale) non possano andare in vacanza senza portarsi qualche libro, questo post propone dei suggerimenti di letture matematiche (ma non solo matematiche) estive.
Lo sapevate che ... i quadrati magici: Sempre in clima estivo, da settimana enigmistica e quiz matematici, Andrea Capozio ha scritto un articolo sui quadrati magici, la loro costruzione e le curiosità annesse.
Meccanica quantistica con contorno di Hilbert: Per i "duri e puri" che anche d'estate affrontano letture impegnative, i ragazzi di Math is in the Air propongono questo articolo di Pasquale Napolitano, in cui si parla di bra (probabilmente non quelli che vengono subito in mente) e ket, basi nello spazio vettoriale (sia detto tra parentesi).
Il machine learning e i suoi fratelli: un percorso tra Python, la libreria scikit-learn e diversi modelli di classificazione: Si tratta di un altro articolo leggermente più tecnico degli altri, in cui non si parla di Rocco, del ponte della Ghisolfa né di Visconti, ma della libreria Scikit-learn del linguaggio Python, pensata per il Machine Learning. Il contributo è di Gianluca Emireni collaboratore esterno del blog.
Rivista MATE: matematica da zero a infinito... intervista al direttore Luciano Regolo: È l'imperdibile intervista a Luciano Regolo, direttore della rivista MATE dedicata alla divulgazione della matematica, che ha esordito quest’anno con grande successo.
Per concludere, Davide segnala la nascita di un canale su Telegram gestito dallo staff di Math is in the Air, dedicato alla matematica in ogni suo aspetto (ricerca, cultura, divulgazione, didattica, applicazioni alla realtà, computer science, statistica...). Per aprire il link è però necessario avere installato sul dispositivo mobile la App Telegram.

I Rudi Matematici sono come al solito ben strani. I loro articoli sono segnalati da Piotr Silverbrahms, il quale sostiene che tuttavia escono dalla tastiera di Alice Riddle. E Rudy d’Alembert? Boh! 
In teoria, è un gioco - quarta parteè un altro pezzo della prima serie di articoli sulla teoria dei giochi (il fatto che si dice “prima serie” potrebbe far supporre che una seconda serie si approssimi: infatti gli è così). Si tratta davvero di un post “senza c(u)ore”, perché, tra le altre cose dimostra che nelle code non solo conviene essere maleducati, ma meglio esserlo per primi e che dal punto di vista del capo dare uno stipendio basso è una strategia dominante. 
Rien ne va plus 1 – Take it easyè la prima puntata di una nuova serie sulla teoria dei giochi, in cui i lettori potrebbero cimentarsi a Quadrare un numero oppure a muovere La Donna di Wythoff : il che è bene, visto che è estate. 
13 Agosto 1861 - Buon Compleanno, Cesare!è la celebrazione in chiave scacchistica del compleanno di Cesare Burali-Forti, strenuo e indefettibile sostenitore della “scuola vettoriale”, autore del “paradosso” che prende il suo nome e uomo poco incline ai compromessi, pagando di persona.  
Il problema di luglio (575) - Il Lato Oscuro della Matematicaè il post di soluzione di un quesito che NON intende insegnare a speculare in borsa. Questo articolo, del tutto casualmente, consiste nella discussione del centesimo numero della rubrica di Le Scienze curata dai Rudi. 
Piotr infine, giustamente e orgogliosamente, segnala l’uscita, per una volta non postuma rispetto al Carnevale, del n. 211, Agosto 2016 – Anno Diciottesimo, del miracolo mensile chiamato Rudi Mathematici.

La presentazione dei contributi si conclude come al solito con quelli del carnevalista ospite. Perciò vi informo che su Popinga è stato pubblicato La passione matematica del giovane Stendhal, che narra come il futuro grande scrittore rischiò di diventare un matematico pur di sfuggire all'ipocrisia famigliare e provinciale, e per amore della verità. Avrei voluto pubblicare anche un articolo su un matematico italiano che fu compagno di studi e amico del giovane Henri Beyle, ma non ho fatto in tempo. 
Sarà per il prossimo Carnevale, il 101, che si terrà il 14 settembre sulle Notiziole di .mau.. Rimanete sintonizzati.


[Le immagini che corredano il Carnevale testimoniano il barocco e geometrico horror vacui della Geometria et Perspectiva (1567) dell'incisore tedesco Lorenz Stoer]

Giovanni Plana, parabola di un matematico

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Alla Scuola Centrale di Grenoble, negli anni finali del ‘700, Henri Beyle, il futuro Stendhal, alla giovanile passione matematica del quale ho dedicato il precedente articolo, incontra un giovane italiano di idee democratiche come le sue, con il quale stringe amicizia e scambierà una regolare corrispondenza negli anni successivi. Si tratta di Giovanni Plana (1781-1864), nato a Voghera da una famiglia di agiati proprietari terrieri, che, a quattordici anni, aveva piantato un Albero della Libertà nel cortile della scuola Sant’Agata della cittadina natale, inducendo i genitori a mandarlo a studiare dagli zii, che da tempo risiedevano a Grenoble, in una sorta di precoce esilio politico.

Plana è un giovane di talento e dimostra la sua abilità eccellendo nei corsi che frequenta, soprattutto in matematica (nelle Scuole Centrali istituite dalla Convenzione per “formare la nuova generazione alle virtù repubblicane” si potevano scegliere i corsi da frequentare e non esisteva un piano di studi vincolante), L’adolescente italiano resta a Grenoble per tre anni, studiando dal secondo anno aritmetica, geometria piana, algebra e trigonometria e, in quello successivo, geometria dello spazio, elementi di calcolo differenziale e integrale, con particolare riguardo alle applicazioni. Nel 1796 vince il primo premio di Disegno, nel 1797 i tre primi premi di Lettere, Matematica, Disegno, nel 1798 il primo premio di Matematica. Stendhal, in una lettera alla sorella Pauline, scrive: «Plana, se niente lo distoglie, sarà un grande entro dieci anni; sono felice di essere un suo amico intimo».

Al termine dei corsi, Plana partecipa al concorso d’ammissione all’École Polytechnique di Parigi, che si svolge a Lione nell’autunno 1800, risultando nono su 74 candidati. La selezione è basata solamente sulla preparazione matematica e valuta le qualità civiche e patriottiche del candidato. Per questo motivo chiede l’attestazione di buona condotta e di fedeltà repubblicana, che gli viene rilasciata con queste parole:
«Il prefetto del dipartimento dell’Isére, viste le attestazioni chi gli sono state fornite dalle autorità costituite di Grenoble, certifica che: il citato Jean-Antoine-Amédée Plana, allievo della École Centrale di questo dipartimento, nato a Voghera in Piemonte, risiede a Grenoble dal 1790 (sic) presso suo zio, che vi risiede da 29 anni e che vi si è stabilito da 22; che si è iscritto al registro della guardia nazionale; che ha compiuto tutti i doveri di cittadino francese compatibili con la sua età, e che ha costantemente dato prova della sua fedeltà al governo repubblicano».
La Scuola Politecnica è basata su tre anni di corso. Il programma è così costituito:
• Primo anno: analisi e sue applicazioni alla geometria a tre dimensioni, geometria descrittiva, stereotomia, elementi di chimica, fisica generale e disegno;
• Secondo anno: applicazioni dell’analisi alla meccanica e all’idrodinamica, applicazioni della geometria descrittiva ai servizi pubblici, in particolare all’architettura, fisica generale, chimica e disegno;
• Terzo anno: applicazioni dell’analisi alle macchine, fortificazioni, fisica, chimica e disegno.

Il metodo didattico adottato è quello dell’alternanza di lezioni teoriche con quelle pratiche, con l’uso di laboratori scientifici; sono previste ripetizioni e spiegazioni delle lezioni effettuate da allievi del terzo anno, scelti fra i migliori. I docenti sono i più grandi matematici e scienziati dell’epoca, tra i quali Monge, Lagrange, Laplace, Poisson e Fourier.


All’École Polytechnique Plana è fortemente influenzato da Lagrange, insegnante di analisi, anch’egli di nascita italiana, con il quale entrerà in confidenza. Apprende poi la meccanica celeste da Lagrange e Laplace. Il suo interesse per la matematica e l’astronomia e la competenza dimostrata colpiscono favorevolmente i suoi insegnanti. Conclusi gli studi, nel 1803, Fourier gli scrive l’11 marzo:
«Il cittadino Dupuy, professore di matematica alla Scuola Centrale, mi ha informato, cittadino, del desiderio di vedervi al posto di Professore della Scuola di Artiglieria di Grenoble. Io condivido a questo riguardo le opinioni di questo stimato professore».
È interessante notare che il posto gli venga offerto da un suo vecchio professore di Grenoble, segno indubbio di stima, ma Sebastien Henri Dupuy de Bordes è quello stesso insegnante che Stendhal definirà come «il nostro enfatico professore […] quest’uomo così vuoto […] questo grande Dupuy ci spiegava le proposizioni come una serie di ricette per fare l’aceto». Sia come sia, Plana rifiuta la proposta di Fourier.

Fourier non demorde, e preme affinché Plana ottenga la cattedra alla Scuola di Artiglieria di Torino e Alessandria. Il 19 marzo 1803 Plana è nominato professore di matematica e può tornare in Italia o, meglio, in Piemonte che, nel 1805, diventerà una provincia francese fino al crollo di Napoleone. Intanto l’applicazione della matematica all'astronomia lo appassiona sempre più. Così scrive a Stendhal nel 1804:
«Per parlarti ora della vita che conduco a Torino, ti dirò che è assai monotona; non frequento la società perché per carattere preferisco la solitudine alla compagnia di quelle persone con le quali ci si può intrattenere solamente sulla pioggia o il bel tempo, e d’altra parte so che ho molto da fare per perfezionarmi in una scienza di cui sono sempre più innamorato mano mano che procedo... Vedi dunque, mio adorato amico [in italiano nel testo, NdR], che la mia vita trascorre a leggere poco e a meditare molto».
Nel novembre 1805 Plana è convinto di ottenere la cattedra preferita, ma la direzione dell’Osservatorio astronomico è assegnata ad Anton Maria Vassalli Eandi, docente di fisica all’Università di Torino, e la cattedra di astronomia va a un certo Blanquet-Duchayla, privo di meriti scientifici. Nel 1806 Stendhal testimonia che: «Plana ha appena visto dare a un altro il posto che sperava. Sembrerebbe che si consoli di ciò quasi interamente con il lavoro».

A Torino in effetti Plana incomincia la sua attività scientifica vera e propria, che sarà prolifica al punto che in tutta la vita produrrà più di 800 tra articoli, saggi e monografie. Tra il 1809 e il 1810 scrive una Mémoire sur l’intégration des équations lineaires aux différences partielles du second [sic] et du troisième ordre, in cui perfeziona il metodo di Laplace per studiare un’equazione lineare alle derivate parziali in tre variabili del secondo ordine in modo diverso, più semplice e diretto, e con risultati equivalenti a quelli ottenuti da Legendre; poi Equation de la courbe formée par une lame élastique, quelle que soient les forces qui agissent sur cette lame e, in cui generalizza un problema di statica già trattato da Eulero, Legendre e Lagrange, e Sulla teoria dell’attrazione degli sferoidi ellittici, un problema di interesse astronomico che riprende la teoria di Laplace. Questo argomento otterrà l’attenzione di Gauss e Jacobi.

Tutte le tre opere sono pubblicate nel 1811, anno in cui Lagrange lo raccomanda per la cattedra di Astronomia a Torino e Plana finalmente ottiene il posto ambito, che forse avrebbe meritato già in precedenza. Egli resterà nel capoluogo piemontese per il resto della propria vita, insegnando astronomia all’università e matematica alla scuola di artiglieria. Nello stesso anno diventa socio dell’Accademia delle Scienze di Torino.

I suoi interessi sono molteplici, e comprendono Analisi matematica (integrali di Eulero, funzioni ellittiche), fisica matematica (riscaldamento di una sfera, Induzione elettrostatica), geodesia (estensione di un arco di latitudine dall’Austria alla Francia), oltre naturalmente alla meccanica celeste (soprattutto la teoria dei movimenti lunari).

Tra il 1810 e l’anno successivo frequenta l'Osservatorio di Brera a Milano, diretto da Barnaba Oriani, che lo invita a collaborare con Francesco Carlini per effettuare misure geodetiche ed elaborare una teoria del moto della luna basandosi sulle equazioni dei moti celesti elaborate da Laplace. Nel marzo 1813, l’anno in cui muore Lagrange, è finalmente nominato direttore dell’Osservatorio di Torino.

Ma le grandi tempeste della storia si abbattono di nuovo sull’Europa, sul Piemonte e sulla vita di Giovanni Plana: sconfitto sul suolo francese, Napoleone Bonaparte il 6 aprile 1814 abdica da imperatore e si consegna alle forze nemiche, che lo mandano in esilio sull’isola d’Elba. Il 20 maggio Vittorio Emanuele I ritorna a Torino: è la Restaurazione, sancita quasi subito dal Congresso di Vienna e poco scossa dall’effimero tentativo di rivalsa napoleonica durato cento giorni e conclusosi a Waterloo il 18 giugno 1815. 


La cattedra di Astronomia, ricoperta da Plana, viene soppressa perché istituita dai francesi. Inoltre la mentalità bigotta dei nuovi padroni d’Europa è malfidente verso le scienze. Plana viene allontanato dall’Accademia e dall’Università, ma per fortuna è immediatamente rinominato: nel dicembre del 1814 ottiene la cattedra di Analisi infinitesimale presso l'Università di Torino e nel 1816, è nominato professore di Meccanica razionale nella ripristinata Accademia Militare, dove ha tra gli allievi anche Camillo Benso di Cavour, al quale predice una luminosa carriera qualora voglia proseguire gli studi matematici. Nel 1817 è nominato astronomo reale e sposa Alessandra Maria Lagrange, figlia del fratello minore del matematico suo insegnante e mentore dai tempi di Parigi. Dal matrimonio nascono due figli, Sofia (1818) e Luigi (1825). 

Passato anche questo accidente, incomincia il periodo più fecondo dal punto di vista scientifico. Carlini e Plana procedono nella loro opera, intesa a continuare la teoria lunare di Laplace, consci dell’Importanza di giungere ad una soluzione completa e soddisfacente per il moto lunare, sia per ragioni puramente teoriche, sia per questioni pratiche legate al calcolo delle eclissi, alla navigazione e alla predizione dei flussi e riflussi delle maree. 

Nel 1818, Laplace decide di stimolare gli studi sul moto della Luna. Così propone all’Accademia delle Scienze di Parigi di istituire un premio da assegnare nel 1820 a chiunque fosse riuscito a costruire tavole lunari basate solamente sulla legge di gravitazione universale. 

Lavorando sulla teoria della Luna e rivedendo l’opera di Laplace, Plana si toglie la soddisfazione nelle sue lettere a Carlini di criticare alcune espressioni analitiche e certi punti procedurali di Laplace. Purtroppo ci sono giunte solo poche risposte di Carlini, pertanto non sappiamo come egli reagì alle opinioni severe espresse da Plana. Ad ogni modo è chiaro che i due avevano caratteri diversi: più impetuoso e permaloso Plana, più pensieroso e posato Carlini. 

Entrambi decidono, con qualche dubbio, di competere per il premio dell’Accademia francese, anche se temono che Laplace possa in qualche modo favorire Damoiseau, impegnato nello stesso tipo di impresa, o qualche altro studioso francese. 

Non c'è molto tempo per redigere l’articolo e inviarlo a Parigi, poiché il testo deve pervenire all’Accademia entro il primo gennaio 1820. Plana teme di non riuscire a essere pronto e, nell’agosto del 1819, scrive allarmato a Carlini: «Ho letto sul giornale di fisica che un articolo per il premio è già stato presentato». Alla fine, dopo qualche ritardo, l’articolo, che più tardi Carlini avrebbe definito un semplice sommario dei loro risultati, è inviato da Torino il 18 dicembre e arriva appena in tempo presso la segreteria del premio. Plana e Carlini presentano una soluzione basata sul metodo di Laplace, ma con sviluppi in serie di ordine superiore per tener conto della forma della Terra e della presenza del Sole, Giove e degli altri pianeti.

Nei primi mesi del 1820 i due continuano a lavorare e a modificare dove necessario la loro teoria della Luna: in particolare preparano il supplemento alla memoria con la quale sono in gara, che inviano successivamente. Il 17 marzo Plana riceve una lettera da Poisson datata ad otto giorni prima, nella quale il francese lo informa che il giorno precedente l’Accademia ha deciso di assegnare a lui e Carlini il premio per la teoria della Luna. Poisson dice anche che un premio dello stesso importo è stato assegnato a Damoiseau per il suo articolo e, nel post-scriptum, lo avvisa che Laplace ha qualche commento da fare sul loro lavoro. 

Plana spera che l’assegnazione del premio sia seguita da un commento che sottolinei la qualità innovativa del lavoro svolto e riconosca il suo potenziale di perfezionare la teoria esistente. Tuttavia si sbaglia, e una lettera di Laplace del 31 marzo dimostra che le sue speranze sono vane. Laplace, dopo le congratulazioni di rito, sostiene di voler fare alcune osservazioni che sente doverose sul lavoro dei due italiani.

Ci sono, dice, alcune differenze sostanziali tra i loro risultati e quelli di Damoiseau riguardo le ineguaglianze secolari dei pianeti maggiori, specialmente quelle del perigeo. Mentre Damoiseau, che ha seguito il metodo impiegato nella Meccanica Celeste, limitandosi a espandere ulteriormente le approssimazioni, ha conseguito risultati che gli sembrano “degni di fede”, egli non si sente di dir nulla sul metodo seguito da Carlini e Plana, che ha condotto «a serie piuttosto complicate e convergenti lentamente». Egli riconosce tuttavia che il loro lavoro è stato accurato. Per quanto riguarda il supplemento presentato successivamente, ritiene che l’analisi contenuta sulle ineguaglianze di lungo termine dovute alla forma della Terra sia incompleta. Qualche giorno più tardi la segreteria parigina comunica ufficialmente la vittoria del premio. 

Nei giorni successivi, Carlini e Piana possono leggere l’articolo che Laplace ha consegnato al Bureau des Longitudes il 29 marzo, un giudizio assai indelicato nei loro confronti. Il tono dell’articolo è davvero sgradevole: 
«Pertanto invito i geometri e gli astronomi che lavorano su questa teoria a seguire il metodo che ho esposto [nella Meccanica Celeste] e a confrontare i loro calcoli con quelli del testo [di Damoiseau] quando sarà pubblicato». 
Non sorprende che l’orgoglioso Plana sia molto irritato dalle critiche di Laplace. Ci sono molti motivi per la sua rabbia. Egli accusa Laplace di mancanza di delicatezza nel criticare pubblicamente un lavoro che non è ancora stato pubblicato: si tratta di un’ostilità preconcetta per le idee diverse dalle sue, oltre che di un pregiudizio in favore dei suoi seguaci e connazionali. 

Le accuse di Plana non sono ingiustificate, e trovano Carlini completamente d’accordo. Tuttavia questi cerca di moderare il risentimento del suo collega. La cosa che dà più fastidio è la riluttanza dell’Accademia parigina a pubblicare le opere che hanno vinto il premio (solo nel 1827 l’istituzione pubblicherà quella di Damoiseau, mentre quella di Plana e Carlini non sarà mai data alle stampe).

Dopo aver invano atteso che Laplace risponda pubblicamente alle loro obiezioni, i due si decidono a inviare una nota, ferma ma cortese, alla rivista specialistica internazionale Correspondance astronomique del barone von Zach, che viene pubblicata nel luglio 1820, con una prefazione di sostegno dello stesso editore, assai influente presso gli astronomi tedeschi. Nella nota, i due forniscono dettagliate risposte alle osservazioni di Laplace, del quale hanno assunto le stesse condizioni preliminari (la Luna compie un moto ellittico intorno alla Terra perturbato dalla massa del Sole, le leggi di gravitazione di Newton sono perfettamente valide, la velocità orbitale della Luna non è rallentata dall’attrito con l’etere, l’effetto delle masse interagenti si può considerare istantaneo). 

La differenza sostanziale consiste nel fatto che essi adottano un metodo diverso di integrazione, che essi praticano per successive approssimazioni, mentre il francese aveva adottato coefficienti indeterminati che lo costringevano a sostituire di volta in volta i coefficienti numerici ottenuti dall’osservazione. Plana mostra che quei coefficienti possono essere espressi in serie letterali di potenze di alcune costanti, in particolare l’eccentricità delle orbite solare (apparente) e lunare, la tangente dell’inclinazione dell’orbita lunare sul piano dell’eclittica, il rapporto tra il movimento medio della Terra e della Luna e il rapporto tra la distanze Terra–Luna e Terra–Sole. Così Plana e Carlini possono determinare più elegantemente i coefficienti attraverso una serie di funzioni esplicite del moto lunare e solare, senza usare valori numerici. 

Nel frattempo la storia torna a bussare alla porta del nostro protagonista. Nel luglio del 1820 Stendhal riceve da Plana una lettera in cui gli si dice che i liberali milanesi sospettano che sia una spia degli austriaci. Per Stendhal è un colpo inatteso, che lo induce a lasciare Milano: «senza i torbidi e la carboneria non sarei mai rientrato in Francia», scriverà anni dopo. La lettera segna la fine dell’amicizia, ormai minata da sospetti e accuse. A partire da quell’episodio, il nome di Plana scompare dalla corrispondenza dello scrittore. Durante la reazione seguita ai moti rivoluzionari del 1821, Plana viene accusato dalla “Commissione Superiore di Scruttinio” con un altro docente “di principii totalmente avversi al legittimo Regio Governo”, ma riesce ad evitare sanzioni per le seguenti motivazioni: 
«Li professori controscritti non potendo avere che pochissima influenza sulla gioventù, tanto per la natura dei trattati che dettano, quanto per il piccolo numero di persone intervenienti alla loro scuola; e trattandosi altronde di persone di non ordinario ingegno, la Giunta è in senso che siano mantenuti, ma che si faccia loro sentire che il Governo non ignora la loro maniera di pensare che altamente disapprova come contraria alla qualità ed ai doveri di buon suddito e che spera che la loro regolare condotta all'avvenire lo dispenserà dal prendere la menoma dispiacevole misura a loro riguardo».
L’episodio, frutto più dell’attività di sbirri zelanti che da un effettivo coinvolgimento del Plana, è presto dimenticato. Forse si tiene anche conto dei suoi ottimi rapporti personali con Vittorio Emanuele I, appassionato di astronomia. Nel 1821 Plana pubblica Sur une novelle expression analityque des nombres Bernoulliens, propre à exprimer en terms finis la formule générale pour la sommation des suites, in cui esprime i numeri di Bernoulli di indice pari mediante integrali definiti e elabora una formula per la differenza tra una somma discreta e l’integrale corrispondente, ora nota come formula di Abel-Plana (ma Abel la formulerà tre anni dopo). Inoltre, nel 1822, egli, con l’approvazione reale, trasferisce i pochi strumenti dell’osservatorio dal Palazzo dell'Accademia delle scienze di Torino in una delle quattro torri di Palazzo Madama, aggiungendone altri più evoluti e dando inizio a un'attività osservativa sistematica. Si tratta della vera rinascita dell’Osservatorio torinese, che rimarrà in quella sede centrale fino al 1912.

Nel 1821 intraprende con il Carlini degli studi di geodesia che, entro il 1825, gli consentiranno di realizzare la triangolazione della Savoia e del Piemonte e di determinare il “parallelo medio” che attraversa Francia e Italia. I risultati sono sintetizzati in due grossi volumi, le Operations geodesiques et astronomiques, 1825-1827. In riconoscimento del lavoro svolto, nel 1828 a Plana e Carlini è conferito il premio Lalande della Académie des Sciences. Plana ottiene anche la Croce di Ferro dal governo austriaco. 

Alla fine del 1823 Plana e Carlini sono rassicurati dai rispettivi governi (Piemonte e Lombardo-Veneto) che avranno i fondi per pubblicare la loro memoria sul moto lunare: una somma ingente, dato che si tratta di tre volumi. Tuttavia cominciano a manifestarsi differenze di opinioni tra i due sul vero scopo del loro lavoro. Carlini è dell’idea di rivedere l’opera così come era stato concepita, correggendo gli eventuali errori di calcolo, e di fornire una serie di tavole lunari corrette ad uso degli astronomi. L’idea di Plana è molto più ambiziosa: rivedere il lavoro in modo da costruire una nuova teoria della Luna che possa risolvere in ogni dettaglio analitico le incongruenze logiche e le approssimazioni che erano talvolta emerse nell’opera di Laplace. Proseguendo il lavoro, egli lo vuol trasformare in un trattato di matematica applicata al problema generale dei tre corpi. Alla fine i due si rendono conto della inevitabile fine della loro collaborazione. Carlini compilerà le sue tavole lunari, mai pubblicate ma utilizzate a Brera fino al 1862, mentre Plana proseguirà da solo, fino a pubblicare nel 1832 a Torino i tre massicci volumi della Théorie du mouvement de la lune, opera premiata dalla Società astronomica di Londra per il suo approccio innovativo.


L’attività matematica e astronomica di Plana comincia a essere riconosciuta: nel 1827 diventa Astronomo Reale e socio della Royal Society, nel 1831 viene nominato cavaliere di Casa Savoia. 

Nello stesso anno, per uno strano scherzo della storia, la strada del liberale Plana, colui che poco più che bambino aveva piantato l’Albero della Libertà rivoluzionario, si incrocia con quella del più reazionario dei matematici francesi, e forse europei: Augustin-Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, esule a Torino, colui che un incredulo Niels Abel aveva definito un "cattolico fanatico” , aggiungendo che "era pazzo e non c'era nulla da fare per lui", ma allo stesso tempo aveva riconosciuto come "il solo che sappia come si fa la matematica"

Nei tre giorni finali del luglio 1830, i moti di rivolta contro il potere assoluto dell’ultimo re borbonico Carlo X, costretto all’esilio, portano sul trono francese Filippo d’Orleans. A questa rivolta parteciperebbe, se non fosse rinchiuso nelle mura della Ècole Normale, anche uno dei più grandi geni matematici dell’epoca, Èvariste Galois, repubblicano convinto, che morirà non ancora ventunenne in un duello alla fine di maggio del 1832. Il bigotto Cauchy, invece, vede il suo mondo crollare, e decide di lasciare le sue cariche d’insegnamento e di seguire il suo re nell’esilio. 

Dopo un breve soggiorno in Svizzera, dove pensa inizialmente di fondare a Friburgo un’accademia scientifica e religiosa, Cauchy accetta l’invito (suggerito dai Gesuiti) del re piemontese Carlo Alberto di venire a insegnare a Torino, dove lo attende la cattedra di Fisica Sublime (teorica) istituita apposta per lui. 

Cauchy si è, per così dire, fatto precedere dalla pubblicazione di un lungo articolo in tre parti in italiano, intitolato Sui metodi analitici, pubblicati nell’inverno 1830-31 dalla Biblioteca italiana di Milano. In questi tre articoli presenta un’introduzione ai metodi dei suoi corsi all’École Polytechnique di Parigi. Il motivo principale di queste pubblicazioni è una recensione, comparsa sulla stessa rivista milanese, del matematico Giuseppe Cossa, che aveva preso in esame i suoi Exercises de Mathématiques e aveva criticato l’eccesso di numeri a scapito delle parole e la “soverchia concisione” delle spiegazioni. Nella sua risposta, il francese vuole dimostrare che cosa significhi il suo “bisogno di rigore” e spiega anche che il suo testo aveva un carattere di supporto alle sue lezioni. Critica poi apertamente l’indeterminatezza dei metodi lagrangiani di calcolo e spiega come il suo rigore si rifletta su concetti fondamentali come quelli di derivata, integrale, integrazione delle equazioni differenziali. Ma il tono è risentito e pedante e genera una reazione ostile tra molti matematici italiani, ancora legati al vecchio approccio lagrangiano al Calculus. Solo il nobile e benestante Gabrio Piola, matematico per diletto, di sentimenti politici e religiosi affini al francese, prende subito posizione a favore di Cauchy, diventandone poi il profeta in Italia (e i reazionari in politica saranno in questo caso i più innovativi in campo matematico).


Cauchy arriva a Torino nella tarda estate del 1831, e il suo interlocutore privilegiato non può essere che Plana, anch’egli dotato, come si è visto, di un carattere per nulla incline ai compromessi. Nelle loro conversazioni, Cauchy gli rimprovera l’utilizzo di metodi di calcolo astronomici che portano a calcoli pedestri e complessi, che egli si propone di semplificare. 

Per questo motivo Cauchy scrive una Mémoire sur la mécanique céleste et sur un nouveau calcul appelé calcul des limites, che consegna all’Accademia delle Scienze ancor prima di iniziare a insegnare. Nel testo, datato 15 ottobre, poi pubblicato litografato, dichiara che i suoi metodi sono necessari per contribuire a ridurre le fatiche degli astronomi «quando sapranno che sono giunto a stabilire, sullo sviluppo delle funzioni, (…) principi generali e di facile applicazione, mediante i quali si può non solo dimostrare con rigore le formule e indicare le condizioni della loro esistenza, ma fissare inoltre i limiti degli errori che si commettono trascurando i resti che devono completare le serie». Egli inoltre presenta la prima versione della sua celebre “formula integrale”: una funzione complessa può essere rappresentata in qualche dominio da una serie convergente di potenze. Il teorema mette in relazione il valore di una funzione olomorfa in un punto con un integrale di linea lungo una curva semplice chiusa.

Plana si sente attaccato in prima persona, ma rimane legato all’analisi della sua giovinezza. Non ama i nuovi metodi. Sulle idee di Cauchy commenta “Io guardo ai numeri”, e vede nella “nuova analisi ipertrascendente” solo una confusione di formule sempre più astratte e inapplicabili man mano che passano gli anni. 

Nella capitale piemontese intanto Cauchy pubblica i Résumés analytiques, continuazione degli Exercises forzatamente interrotti per l’esilio, in cui raccoglie le sue lezioni. Egli partecipa anche alla vita politica, dato che il suo nome compare in alcune note sui gruppi di fuoriusciti francesi ultrareazionari che si leggono nei diari del giovane Camillo di Cavour. Nel 1833 tuttavia lascia Torino, chiamato a Praga da Carlo X che lo vuole come precettore scientifico del figlio. 

Nonostante l’ingombrante presenza di Cauchy, Giovanni Plana trova il modo di farsi ancora apprezzare. Tra il 1831 e il 1835 costruisce presso la sagrestia della cappella dei Mercanti di Torino il Calendario Meccanico Universale, tuttora esistente, che permette, scegliendo un giorno, un mese e un anno qualunque (dall'anno 1 all'anno 4000) di identificare il giorno della settimana corrispondente, le festività fisse e mobili (tra cui la data della Pasqua), i cicli lunari e le maree relativi a quell'anno. Lo strumento, assai raffinato, è composto da memorie a tamburo, a disco e nastro, con mezzi di accesso e di lettura azionati da ruote dentate, catene e viti, un vero e antesignano meccanico del computer. Per realizzare quest’opera, Plana deve superare diverse difficoltà astronomico-matematiche e tecnico-pratiche. Tra le numerose variabili che deve considerare ci sono il passaggio dal calendario giuliano a quello gregoriano, gli anni bisestili, il calcolo della durata esatta del giorno, del mese lunare, dell’anno solare. Di sicuro Plana farà vedere il suo meccanismo a Charles Babbage, quando questi verrà a Torino nel 1841 in occasione della sua nomina a socio dell’Accademia delle Scienze piemontese.



Dagli anni ’30 Plana diventa socio di numerose accademie internazionali e riceve onorificenze in vari paesi. Si dedica soprattutto all’insegnamento, dove ha il merito di tenere corsi universitari modellati su quelli dell'École polytechnique, contribuendo così ad aggiornare l’insegnamento scientifico in Piemonte. Di lui scriverà il collega Luigi Menabrea: 
«[Plana] fu certamente uno dei professori più abili e affascinanti che abbiano resa illustre un’Università. Con una lucidità straordinaria, faceva assistere l’allievo alla nascita delle teorie e ne sviluppava le conseguenze; sapeva interessarlo con delle ingegnose applicazioni che ne dimostravano l’utilità». 
Probabilmente Menabrea esagera, perché certi aspetti del carattere di Plana lo rendono talvolta scostante. Celebre è rimasta la frase che rivolge al giovane Schiaparelli: «Di astronomi ve n'è uno in Piemonte e basta!». Forse per questo non ha eredi scientifici. 

Il periodo creativo si esaurisce, sia per motivi personali (la morte per malattia del figlio Luigi a soli 7 anni nel 1832, lo sfortunato matrimonio della figlia con un avventuriero nel 1840), sia perché la matematica è cambiata ed egli è rimasto ancorato a un’epoca che è finita. 

Nel 1842 diventa vicepresidente dell’Accademia, nove anni dopo ne è il presidente. Nominato barone nel 1844, diventa senatore nel 1848, carica che conserverà anche con lo stato unitario. Muore a Torino il 20 gennaio 1864. Di lui scriverà il matematico e storico della matematica Francesco Giacomo Tricomi: 
«A mio avviso, il merito di Plana non sta tanto in questo o quel risultato da lui raggiunto, bensì nell’aver egli potentemente contribuito ad elevare il livello, dianzi assai depresso, degli studi matematici in Piemonte, portandovi il soffio vivificatore delle idee spiranti a Parigi nella sua giovinezza, ove operavano un Lagrange, un Fourier, un Monge ed altri sommi».

Sulle proprietà aerodinamiche dell’addizione

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In tutti i tentativi di dimostrare che 2 + 2 = 4 non si é mai tenuto conto della velocità del vento.

L’addizione di interi è in effetti possibile solo in condizioni meteorologiche sufficientemente stabili, in modo che il primo 2, una volta che è stato collocato, resti al suo posto fino a quando sia collocata la crocetta, poi il secondo 2, poi il piccolo muro sul quale sedersi e contemplare e, finalmente, il risultato. Fatto ciò, il vento può soffiare, ma due e due sono diventati quattro. 

Ma, non appena il vento si alza, il primo numero cade a terra. E, si provi a osservare, lo stesso succede al secondo. Qual è allora il risultato di:


La matematica attuale non è in grado di fornire una risposta. 

Ora, se il vento infuriava, il primo numero sarebbe volato via, poi la crocetta, e così via. Ma supponiamo che sia calato dopo la crocetta, allora ci troveremmo di fronte all’assurdità 2 = 4. Il vento non soffia solo fino a un certo punto, esso soffia dappertutto. Il numero uno, un numero particolarmente leggero, per il quale un refolo è già abbastanza per spostarlo, può allora capitare in un calcolo al quale non appartiene, anche contro il volere della persona che sta facendo l’operazione. Ciò fu previsto dal matematico russo Dostoievski quando osò dire di avere una debolezza per 2 + 2 = 5. 

Le regole della notazione decimale provano anche che gli Indiani devono aver affrontato il nostro assioma più o meno coscientemente. Lo zero rotola via abbastanza facilmente, è sensibile al soffio più leggero. Ecco perché non viene preso in considerazione quando si trova a sinistra di un numero: 02 = 2, poiché lo zero vola via sempre prima della fine del calcolo. Ha senso solo sulla destra. Perché lì i numeri precedenti possono tenerlo al suo posto e impedire che voli via. Così 20 = 2, almeno finché il vento non superi la velocità di diversi metri al secondo. 

Trarremo ora da queste osservazioni alcune conclusioni pratiche: non appena si sappia in anticipo che il tempo peggiora, è buona cosa dare alla propria addizione una forma aerodinamica. È altresì consigliato scriverla da destra a sinistra, così come il iniziare il più possibile vicino al centro del pezzo di carta. Quando il vento fa slittare un calcolo in esecuzione, si può quasi sempre afferrarlo prima che raggiunga il margine. Utilizzando questo metodo sarà sempre possibile, anche durante una tempesta equinoziale, ottenere risultati come il seguente:



Raymond Queneau 
Membro del Corpo dei Satrapi del Collège de 'Pataphysique 
Membro della Société Mathématique de France

(da Contes et propos, 1981, miscellanea pubblicata dopo la morte di Queneau (in it. Racconti e ragionamenti, Il melangolo, 1993), ma contenente testi, come questo, anteriori alla fondazione dell'Oulipo nel 1960).

La triste storia del giovane Galois e dei suoi manoscritti sventurati

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Nel 1829 Evariste Galois, che aveva 17 anni, seguiva i corsi della sezione di matematica speciale del collegio Louis-le-Grand, tipica scuola della Restaurazione, caratterizzata da una dura disciplina e dominata dal potere politico e dalla chiesa. La sua ricca e originale personalità sopportava con sempre maggiore difficoltà la pesante atmosfera conservatrice e clericale di questa istituzione, di cui era interno da cinque anni. Se non si era ancora ribellato, se ancora non era il militante repubblicano che sarebbe stato due anni più tardi, la consapevolezza che aveva del proprio genio matematico si scontrava con i vincoli che frenavano la sua invincibile vocazione per la ricerca astratta e lo spingeva a disprezzare la mediocrità di coloro che lo giudicavano. La sua superiorità fu riconosciuta dal suo professore di matematica speciale, Louis-Paul-Emile Richard, ed era riconosciuta dalla maggior parte dei suoi compagni, ma erano ancora numerosi coloro che lo ritenevano uno spirito bizzarro e fantasioso, da raddrizzare con una rigorosa disciplina. 

Vero è che la passione matematica di Galois era ancora molto recente. Il suo ingresso in questo mondo risaliva solo ai primi mesi del 1827, quando, dopo la sfortunata esperienza trimestrale nella classe di retorica, ripeté la classe di seconda e frequentò contemporaneamente i corsi del primo anno di matematica preparatoria tenuti da Hippolyte-Jean Vernier. Subito stanco dell’impostazione dogmatica del docente e dei manuali in uso, cominciò a studiare direttamente i testi originali. Dopo aver “divorato” la Géométrie di Legendre, affrontò subito le opere principali di Lagrange e acquisì una solida cultura algebrica e analitica di base. Nei due anni successivi che passò al Louis-le-Grand, si accostò ai settori di punta della ricerca matematica dell’epoca, interessandosi specialmente alle opere di Lagrange, Gauss e Cauchy sulla teoria delle equazioni, a quelle di Cauchy e Libri sulla teoria dei numeri e a quelle di Legendre sulle funzioni ellittiche. 

Senza trascurare il corso di matematica speciale, consacrava una buona parte del suo tempo alla ricerca personale, orientandosi in particolare verso la teoria delle equazioni algebriche. La sua curiosità non si limitava tuttavia a questo settore fondamentale, e la sua prima pubblicazione, nel numero del 1 aprile 1829 degli Annales de mathématiques di Gergonne, era una Dimostrazione di un teorema sulle frazioni continue periodiche. Si trattava dell’opera di un bravo studente, ma che ancora non annunciava il suo genio. 

Nel corso del 1828, secondo la sua stessa testimonianza, credette a torto di essere riuscito a risolvere l’equazione generale di quinto grado, ma questo abbaglio deve essere stato di corta durata, perché agli inizi del 1829, durante il tempo libero, riprese su nuove basi lo studio della teoria delle equazioni, che avrebbe continuato a studiare fino alla costituzione della teoria dei gruppi. 

Nel maggio 1829, i risultati ottenuti lungo questa nuova via gli sembravano abbastanza importanti da meritare di essere comunicati all'Académie des Sciences di Parigi. Per sottomettere un lavoro al giudizio di questa autorevole istituzione si potevano allora seguire due procedure: sia l’invio alla Segreteria dell’Accademia o il suo deposito da parte dell’autore durante una seduta, sia la sua presentazione da parte di un accademico esperto in quel particolare ambito. La seconda procedura era la più ricercata, anche se la meno frequente, perché implicava l’accordo esplicito dell’accademico interessato, che garantiva almeno l’interesse dell’opera presentata, se non i suoi dettagli. 

Galois ebbe il privilegio di vedere presentate le sue prime opere all’Accademia, nelle sedute del 25 maggio e 1 giugno 1829, da un giudice tanto severo quanto competente: Cauchy. La sua accettazione prova che il giovane matematico era riuscito a convincere il grande analista dell’importanza e originalità delle sue ricerche. La successiva perdita dei manoscritti di queste memorie di Galois e del rapporto preparato da Cauchy non consente di avere un’idea precisa del loro contenuto. I registri dell’Accademia precisano tuttavia che si trattava di Ricerche sulle equazioni algebriche di grado primo e, probabilmente, di una seconda memoria riveduta e corretta sullo stesso soggetto. 

Qualche settimana dopo il deposito delle due memorie, la vita di Galois fu sconvolta da due avvenimenti di natura molto diversa che segnarono profondamente il suo spirito. 

Il 2 luglio, suo padre Nicolas-Gabriel, sindaco liberale di Bourg-la-Reine, si suicidò nel suo appartamento parigino per lo scandalo suscitato da alcuni poemetti oltraggiosi circolati sotto il suo nome ma in realtà scritti da un prete conservatore; inoltre le sue esequie diedero luogo a penosi incidenti. Inutile dire che il legame tra clero e Borboni, unito alla parte che ebbe il religioso reazionario nel suicidio del padre di Galois, contribuirono ad alimentare il suo odio verso la monarchia. Il giovane Evariste era disperato per la perdita del suo sostegno economico, ma soprattutto per l’ingiustizia e la persecuzione che erano allorigine di questa tragedia. 

Qualche settimana più tardi i suoi sentimenti di rivolta furono rafforzati da un nuovo triste episodio. Egli fallì per la seconda volta l’esame per l’ammissione alla Ecole polytechnique, in seguito al suo rifiuto di seguire la modalità espositiva voluta dall’esaminatore Dinet. Si narra che Galois gettò il cancellino in testa al professore dopo l’ennesima domanda insulsa, ma l’episodio sembra il frutto della leggenda creatasi intorno al matematico ribelle. 

Vedendo svanire le sue speranze di entrare a quella Ecole polytechnique il cui prestigio e la tradizione liberale lo attiravano, Galois decise di presentarsi al concorso per entrare alla Ecole Normale Supérieure, che allora si chiamava Ecole préparatoire. Anche se la domanda era stata presentata in ritardo, alla fine fu accettata, forse per l’intervento diretto di “persone poste in cima al mondo dei sapienti”, magari lo stesso Cauchy. 

Accettato agli scritti dell’esame d’ammissione (20-25 agosto), Galois ottenne un buon risultato, grazie soprattutto al giudizio positivo dell’esaminatore di matematica, Charles-Antoine-François Leroy, professore anche all’Ecole polytechnique. Nel mese di novembre iniziò così a frequentare i corsi, anche se doveva ancora affrontare degli orali di controllo, quindi ottenere in dicembre il baccalaureato in lettere e quello in scienze. 

Malgrado le preoccupazioni famigliari e scolastiche, Galois non abbandonò completamente le sue ricerche. Fu peraltro nel corso del secondo semestre del 1829 che, grazie al Bulletin di Férussac, fu informato per la prima volta di certi lavori di Abel, di cui conobbe il nome poco prima di venir a conoscenza della sua morte prematura, avvenuta il 6 aprile 1829. Leggendo sul numero di luglio una relazione sulla Memoria di una classe particolare di equazioni risolvibili algebricamente, pubblicata da Abel in Germania sul Journal di Crelle, Galois vi riconobbe un’ispirazione molto vicina a quella delle sue ricerche e vi ritrovò, con una certa amarezza, alcuni dei risultati che egli aveva presentato come inediti nelle sue memorie del 25 maggio e 1 giugno. La lettura della relazione lo incoraggiò a procedere rapidamente con le proprie ricerche sulla teoria delle equazioni algebriche, tanto più che già incominciava a intravedere il metodo con il quale sarebbe giunto molto al di là dei risultati pubblicati da Abel. Sul numero di ottobre poté leggere una sintesi, dello stesso Abel, del Compendio di una teoria delle funzioni ellittiche, che dovette rivelargli una nuova e feconda via di ricerca, alla quale si interessò subito attivamente. Nello stesso numero poté leggere l’annuncio della morte di Abel e un ricordo redatto da Crelle, di cui certi dettagli lo commossero profondamente. 

Anche Cauchy lesse i lavori di Abel nello stesso periodo, apprezzandone l’importanza e il carattere assai innovativo. La relazione presentata da Poisson il 21 dicembre 1829 all’Accademia delle Scienze sulle ricerche di Jacobi e Abel riguardo alle funzioni ellittiche dovette rafforzare il suo interesse. Avendo constatato che la memoria di Abel sulle equazioni algebriche conteneva una buona parte dei risultati poi ottenuti da Galois, pensò fosse suo dovere tentare di attenuare la delusione di quest’ultimo incoraggiandolo a salvare la parte più originale del suo lavoro e a proseguire le ricerche. 

All'inizio del 1830 stese il suo rapporto sulle memorie di Galois, che doveva essere letto nella seduta del 18 gennaio, ma un’indisposizione gli impedì di presentarlo. Una lettera trovata negli archivi dell’Accademia delle Scienze mostra l’importanza che egli accordava al lavoro di Galois, al punto di porla sullo stesso piano della propria memoria Sulla determinazione analitica delle radici primitive. Ecco il documento, con l’evidente errore di data di Cauchy, ancora non avvezzo a indicare il nuovo anno 1830: 


“Proprio oggi avrei dovuto presentare all'Accademia prima un rapporto sul lavoro del giovane Galois e poi una mia memoria sulla determinazione analitica delle radici primitive nella quale dimostro come sia possibile ridurre tale determinazione alla risoluzione di equazioni numeriche dotate solo di radici intere e positive. Sono tuttavia a casa, indisposto. Sono dispiaciuto di non poter partecipare alla sessione odierna e vorrei pregarla di iscrivermi a parlare per la prossima sessione sui due argomenti indicati. La prego di accettare i miei omaggi...” 
Ad ogni modo, questa lettera prova anche un altro fatto fondamentale, e cioè che il 18 gennaio 1830 Cauchy possedeva ancora le due memorie di Galois e che aveva redatto una relazione su di esse. Essa contraddice l’affermazione, spesso ripetuta, secondo la quale egli avrebbe perso questi documenti. Torneremo su questa questione dopo aver visto il seguito di questo piccolo mistero. 

I resoconti della seduta successiva, tenutasi il 25 gennaio, testimoniano che Cauchy effettivamente presentò la sua memoria sulle radici primitive, ma non fece menzione della relazione sulle memorie di Galois. Inoltre non c’è traccia che lo abbia fatto nelle riunioni successive. Che cos'era successo? 

Il fatto che Galois non si sia mai lamentato della negligenza di Cauchy in questa circostanza, mentre poneva tutte le sue speranze in un giudizio favorevole dell’Accademia, sembra indicare che l’annullamento della relazione di Cauchy sia intervenuto con il suo accordo. Resta allora da spiegare questo brusco cambiamento di atteggiamento dei due principali attori di questa vicenda. L’esame delle poche informazioni disponibili permette di formulare un’ipotesi che sembra attendibile.

Innanzitutto è certo che nel febbraio 1830 Galois depositò al segretariato dell’Accademia un’importante memoria destinata a concorrere al Gran Premio di Matematica che doveva essere assegnato nel mese di giugno successivo. In secondo luogo, le memorie del 25 maggio e 1 giugno 1829 non sono minimamente menzionate nel “catalogo” delle sue opere che Galois aveva redatto in seguito, in vista di un progetto di pubblicazione: la più vecchia delle memorie citate è proprio quella preparata probabilmente in gennaio per partecipare al Gran Premio di Matematica. Infine, nonostante il Gran Premio fosse stato indetto da lungo tempo, fu solo nelle due riunioni del 18 e 25 gennaio 1830 che fu decisa la commissione che avrebbe dovuto assegnarlo, e Cauchy non vi faceva parte.

Separando il campo dei fatti da quello delle ipotesi, proviamo a collegare i vari elementi per cercare di capire che cosa fosse successo. Si può innanzitutto pensare che Cauchy, nella sua relazione, pur riconoscendo i meriti di Galois, non poteva fare a meno di dire che molti dei risultati presentati nelle due memorie erano già stati raggiunti da Abel. Sapendo inoltre che il giovane aveva proseguito le sue ricerche ed era giunto a nuovi importanti risultati, era normale che gli suggerisse di raccogliere le parti originali in una nuova sintesi. Il Gran Premio di Matematica offriva un eccellente pretesto, e c’era ancora tempo per redigere una nuova opera da presentare al concorso. Cauchy potrebbe aver pensato che la presentazione della relazione alla riunione dell’Accademia, con la segnalazione della priorità di Abel, poteva in qualche modo suscitare un’impressione negativa alla commissione giudicante. Era dunque meglio rinunciare a presentare memorie e relazione in quella seduta. 

Non è improbabile dunque che, tra il 18 e il 25 gennaio, Cauchy abbia persuaso Galois dell’inutilità della presentazione alla riunione delle sue memorie e gli abbia presentato l’opportunità di scrivere una nuova memoria originale sulla teoria delle equazioni algebriche per concorrere al Grand Premio. 

L’ipotesi, se non gode di prove dirette, è supportata tuttavia da una testimonianza quasi contemporanea. Si tratta di un articolo di autore anonimo pubblicato sul numero del 15 giugno 1831 del giornale sansimoniano Le Globe, in cui si chiedeva il rilascio di Galois che lo stesso giorno compariva davanti al tribunale in seguito alla vicenda del banchetto dei repubblicani tenuto presso il «Vendanges de Bourgogne», locale in cui il 9 maggio egli avrebbe brindato minacciosamente a Luigi Filippo con un pugnale in mano (Galois fu poi assolto). L’autore dell’articolo, che sembra informato di prima mano, traccia un quadro pertinente delle ricerche intraprese da Galois, delle sue eccezionali qualità, e delle delusioni che aveva patito. Parlando della sua candidatura al Grand Prix del 1830, il testimone ricorda l’incoraggiamento ricevuto da Cauchy: 
“L’anno scorso, prima del 1 marzo, il signor Galois consegnò al segretariato dell’Istituto una memoria sulla risoluzione delle equazioni numeriche. Questa memoria doveva partecipare al Gran Premio di Matematica. Ne era degna, poiché superava qualche difficoltà che Lagrange non era stato in grado di risolvere. Il signor Cauchy a questo proposito si era prodigato in grandi elogi a Vauteur. Che cosa è successo? La memoria è andata perduta, e il premio viene assegnato senza che il giovane studioso sia figurato al concorso...” 
Prima di affrontare i fatti ricordati nell'ultima frase riportata, dobbiamo constatare, per concludere sulle memorie del 1829, che, se Galois non poté recuperare i manoscritti, non fu perché Cauchy li aveva perduti, ma perché furono dimenticati nel segretariato dell’Accademia. Benché questo fatto sia stato deplorevole, non può essere interpretato come un esempio delle “persecuzioni” che il giovane matematico avrebbe subito da parte dei suoi colleghi più anziani, in particolare da Cauchy. 

Torniamo ai fatti. Nei primi mesi del 1830 Galois era impegnato con i corsi dell’Ècole preparatoire: calcolo differenziale e integrale, fisica, astronomia, botanica. Contemporaneamente, e si potrebbe dire prioritariamente, continuava le sue ricerche matematiche. Conclusa la memoria con la quale voleva partecipare al Grand Prix, di cui fornì una breve presentazione sul Bulletin di Ferussac, preparò per la stessa rivista una breve nota sulla risoluzione delle equazioni numeriche e una memoria, molto più importante, nella quale introduceva gli “immaginari di Galois”. Questi due testi sarebbero stati pubblicati nel numero di luglio. La parte principale del lavoro di Galois sulle equazioni (la teoria di Galois) si può quindi considerare pronta a metà del 1830, il che sfata un altro dei miti che circondano la stessa a figura, cioè che egli abbia gettato le basi della teoria nella febbrile veglia notturna precedente il duello in cui venne ucciso.

Le speranze che Galois riponeva nel concorso per il Gran Premio dell’Accademia dovevano purtroppo essere bel presto crudelmente deluse. Se egli visse come un’ingiustizia il fatto che il 28 giugno il premio fosse stato attribuito ad Abel (alla memoria) e a Jacobi, certo si comprende ancor più facilmente il risentimento alla notizia che il suo manoscritto era andato perduto ancor prima di essere esaminato. Alle giuste rimostranze di Galois, la risposta di Cuvier, e cioé che la memoria era stata persa per la morte di Fourier che doveva esaminarla, esasperò ulteriormente il giovane matematico, già convinto di essere perseguitato dalla malasorte e dai rappresentanti della scienza ufficiale, espressione del regime monarchico. Cauchy, come si é detto, non faceva parte del collegio dei giurati, che comprendeva, oltre a Fourier, morto in aprile, Legendre, Lacroix, Poinsot e Poisson. 

Le vicende del Galois matematico si intrecciarono sempre più con il suo impegno politico. Alla fine del mese successivo cercò di partecipare alle “Tre Gloriose”, la rivoluzione delle giornate del 27, 28 e 29 luglio 1830 che depose l’odiato Carlo X Borbone e insediò Luigi Filippo d’Orleans (con il malcontento dei repubblicani), ma gli studenti dell’École Normale, tra cui lui, furono chiusi dentro l’edificio dal direttore, Guigniault. La successiva polemica di Galois contro il direttore gli costò l’espulsione dalla scuola, decretata il 4 gennaio 1831. 

Intanto, anche se oramai l’interesse principale dello sfortunato giovane sembra fosse diventato la politica, Galois inviò, su invito di Poisson. una terza versione all'Accademia della sua famosa memoria, intitolata Memoria sulle condizioni di risolvibilità delle equazioni mediante radicali, presentata all'Accademia il 17 gennaio successivo. 

L’ultimo anno della biografia di Galois ha poco di matematico, ma ha contribuito in gran parte a edificarne la leggenda. Liberato dopo l’episodio del brindisi minaccioso al nuovo re, egli fu di nuovo arrestato nel luglio 1831 perché si aggirava durante dei moti di piazza armato e vestito con l’uniforme della Guardia Nazionale, vietata in quanto utilizzata dai repubblicani e ritenuta provocatoria dal nuovo regime. Concluso il processo, il 23 ottobre Galois fu condannato a sei mesi di reclusione, che scontò nel carcere di S. Pelagia, dove tentò anche il suicidio e ebbe l’ulteriore dolore di ricevere dal segretario dell’Accademia, François Arago, il rapporto sulla sua ultima memoria che veniva nuovamente respinta: 
"Caro sig. Galois,
il vostro lavoro fu inviato al sig. Poisson per un parere. Egli lo ha restituito allegando un rapporto che qui cito:
“Abbiamo fatto ogni sforzo per capire le dimostrazioni del sig. Galois. I suoi argomenti non sono né abbastanza chiari né sufficientemente sviluppati per permetterci di giudicarne il rigore; non ci é stato nemmeno possibile farci un’idea sul lavoro.
L’autore afferma che le proposizioni contenute nel manoscritto sono parte di una teoria generale ricca di applicazioni. Spesso parti diverse di una teoria si chiariscono a vicenda e possono essere comprese più facilmente quando sono considerate insieme piuttosto che isolate una dall'altra. Per formarsi un’opinione bisogna quindi attendere che l’autore pubblichi un resoconto più completo di questo lavoro”
Per questo motivo, vi restituiamo il manoscritto con la speranza che possiate trovare utili per il lavoro futuro le osservazioni del sig. Poisson". 
Insomma, Poisson non aveva capito granché oppure, pressato dalle richieste di pareri accademici, aveva dato alla memoria solo un'occhiata distratta. Ci si può chiedere quale sarebbe stato il giudizio di Cauchy, che, monarchico convinto, si era rifiutato di giurare fedeltà al nuovo regime e aveva abbandonato la Francia in volontario esilio, trasferendosi prima a Friburgo, poi a Torino, dove si trovava in quei mesi, poi a Praga, e non sarebbe ritornato che nel 1838. Da Galois lo separava un abisso sul piano politico, ma forse era l’unico in grado di apprezzare l’approccio totalmente innovativo del matematico ventenne. 

Galois, d’altra parte, non pare che avesse sperato molto nel suo appoggio, e portava un certo risentimento anche nei suoi confronti. Anche se non citava Cauchy esplicitamente, i violenti attacchi rivolti contro i membri dell’Accademia, contenuti nella Prefazione che scrisse nel dicembre 1831, in vista di un progetto di pubblicazione delle sue memorie principali, paiono includerlo tra i responsabili della sua rovina. Non si può escludere che queste accuse siano all'origine del fatto che Cauchy, ritornato in Francia, neanche dopo la pubblicazione dei lavori di Galois nel 1846 nel Journal di Liouville fece mai più cenno, neanche indiretto, alla sua persona e alle sue opere. 


È facile comprendere come l’esito del rapporto su Galois fu quello di un ulteriore inasprimento verso il mondo accademico. Trasferito da Santa Pelagia per un’epidemia di colera, Galois fu liberato il 29 aprile ma un mese più tardi, il 30 maggio, fu ferito mortalmente in un misterioso duello del quale mi sono precedentemente occupato in un articolo, al quale rimando. 

Moriva così, non ancora ventunenne, uno dei più grandi geni matematici dell’Ottocento, creatore di una nuova branca della disciplina, ma ricordato soprattutto per la romantica biografia e, di certo, non aiutato dalla buona sorte.

La matematica è dappertutto (ma non è di tutti)

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Sul blog di matematica ospitato dallo Scientific American, il 16 agosto scorso lo storico della matematica Michael J. Barany ha pubblicato un articolo intitolato Mathematicians Are Overselling the Idea That “Math Is Everywhere” (I matematici stanno vendendo troppo l’idea che “La matematica è dappertutto”), che ha fatto molto rumore e ha suscitato reazioni di vario tipo nella comunità dei matematici e degli storici della disciplina. 

La tesi principale di Barany è che la matematica più importante per la società è sempre stata il campo di un piccolo numero di pochi privilegiati. Più o meno dall’alba della civiltà umana, argomenta l’autore, le società hanno sempre attribuito un’autorità speciale agli esperti di matematica. Perché i matematici interessano alla società nel suo complesso? Se si ascoltano i matematici, i decisori politici e gli educatori, la risposta sembra unanime: la matematica si trova dappertutto, perciò dovrebbe interessare a tutti. Libri e articoli abbondano di esempi della matematica che, secondo i loro autori, si nasconde in ogni fatto della vita quotidiana o rivela potenti verità e tecnologie che plasmano i destini degli individui e delle nazioni. 

Certamente, i numeri e le misure figurano regolarmente nelle vite della maggior parte delle persone, ma ciò rischia di crear confusione tra le abilità basilari di calcolo (ingl. numeracy) e il tipo di matematica che più influenza le nostre vite. Quando parliamo di matematica nella politica, specialmente di investimenti pubblici nell’educazione e nella ricerca, non stiamo parlando di mere addizioni e misure. Per la maggior parte della sua storia, la matematica che fa la vera differenza per la società è stata il campo di pochi. Le società hanno valutato e coltivato la matematica non perché essa è dappertutto e per tutti, ma perché è difficile ed esclusiva. Riconoscere che la matematica si denota per l’elitarismo connaturato alla sua essenza storica, piuttosto che pretendere che sia nascosta tutto intorno a noi, afferma Barany, fornisce un’idea più realistica di come essa sia adatta per la società e possa aiutare le persone a sollecitare una disciplina più responsabile e inclusiva. 

Nelle prime società agricole agli albori della civiltà, la matematica, sostiene Barany, collegava i cieli e la terra. I sacerdoti usavano i calcoli astronomici per definire le stagioni e interpretare il volere divino, e la loro esclusiva padronanza della matematica dava loro potere e privilegio nella società. Quando le economie primitive divennero più grandi e complesse, i mercanti e gli artigiani incorporarono nel loro lavoro sempre più conoscenze matematiche di base, ma per essi la matematica era un trucco del mestiere più che un bene pubblico. Per millenni, la matematica avanzata rimase un affare dei benestanti, sia come passatempo filosofico, sia come mezzo per reclamare una speciale autorità. 

Le prime idee abbastanza diffuse che tutto ciò che si trova al di là della semplice matematica pratica doveva avere una più ampia platea datano a ciò che gli storici chiamano prima Età moderna, che incominciò cinque secoli fa, quando iniziarono a prendere forma molte delle nostre moderne strutture e istituzioni sociali. Proprio quando con la Riforma si cominciò a insistere sul fatto che le Scritture dovevano essere accessibili alle masse nelle loro lingue, gli scrittori scientifici come il gallese Robert Recorde utilizzarono la relativamente nuova tecnologia della stampa a caratteri mobili per diffondere la matematica per il popolo. Il libro di aritmetica in inglese di Recorde, del 1543, incominciava con la considerazione che “nessun uomo da solo può far alcunché, e ancor meno parlare o fare affari con un altro, senza avere sempre a che fare con il numero”. 


Molto più influente e rappresentativo di questo periodo fu il suo contemporaneo John Dee, che utilizzò la sua reputazione matematica per ottenere l’influente posizione di consigliere di Elisabetta I. Dee incarnò così intimamente l’idea della matematica come tipo di conoscenza segreto e privilegiato che i suoi detrattori lo accusarono di congiura e di altre pratiche occulte. Nella Rivoluzione Scientifica del XVII secolo, i nuovi promotori della scienza sperimentale, che era (almeno all’inizio) aperta a qualsiasi osservatore, erano sospettosi dei ragionamenti matematici perché li ritenevano inaccessibili e tendenti a chiudere punti di vista diversi con un falso senso di certezza. Durante l’Illuminismo del XVIII secolo, al contrario, gli intellettuali dell’Accademia Francese delle Scienze fecero fruttare la loro abilità nella matematica avanzata ottenendo un posto privilegiato nella vita pubblica, pesando nei dibattiti filosofici e negli affari pubblici e allo stesso tempo chiudendo i loro ranghi alle donne, alle minoranze e alle classi sociali più basse. 

Nel XIX secolo le società di tutto il mondo furono trasformate da ondate successive di rivoluzioni politiche ed economiche, ma il modello francese di competenza matematica privilegiata al servizio dello Stato proseguì. La differenza stava in chi doveva essere parte di quella elite matematica. Esser nato nella famiglia giusta continuava a essere un vantaggio, ma, nella scia della Rivoluzione Francese, anche i governi successivi manifestarono un grande interesse nell’educazione primaria e secondaria, e eccellenti risultati negli esami potevano aiutare alcuni studenti a fare carriera nonostante la loro origine modesta. I leader politici e militari ricevevano un’educazione uniforme nella matematica avanzata in poche accademie prestigiose che li preparavano ad affrontare i problemi speciali degli stati moderni, e questo modello francese di coinvolgimento statale nell’educazione di massa, unito a una speciale formazione specialistica per i migliori, trovò imitatori in Europa e anche oltre l’Atlantico. Anche quando la matematica di base fu alla portata di sempre più persone attraverso l’istruzione di massa, la matematica rimase qualcosa di speciale che era patrimonio di una elite isolata. Più persone potevano potenzialmente farne parte, ma la matematica non era di sicuro per tutti.

Entrando nel XX secolo, il sistema di indirizzare gli studenti migliori verso una educazione elitaria continuò a guadagnare importanza in Occidente, ma la matematica stessa diventò meno centrale in quell’educazione. In parte ciò rifletteva il cambiamento delle priorità del governo, ma in parte era una questione di studi troppo avanzati rispetto alle necessità dei governi. Mentre i matematici dell’Illuminismo affrontavano questioni pratiche e tecnologiche a fianco delle loro ricerche più filosofiche, i matematici di cent’anni fa si interessarono sempre più a teorie così astratte da essere ostiche, senza la pretesa di dedicarsi direttamente ai problemi mondani. 

Il punto di svolta successivo, che continua in molte maniere a definire le relazioni tra la matematica e la società al giorno d’oggi, fu la Seconda Guerra Mondiale. Combattendo una guerra di quella portata, i principali contendenti si dovettero confrontare con nuovi problemi nella logistica, nella progettazione e nell’uso di nuove armi, e in altri settori, che i matematici si dimostrarono capaci di risolvere. Non che la matematica più avanzata fosse diventata improvvisamente più pratica, ma avvenne che gli stati trovarono nuovi utilizzi per coloro che avevano una preparazione matematica avanzata e i matematici trovarono nuovi modi per essere richiesti dagli stati. Dopo la guerra, i matematici ottennero un appoggio sostanziale dagli Stati Uniti e da altri governi sul presupposto che, a prescindere dal fatto che la loro ricerca fosse utile in tempo di pace, ora c’era la prova che matematici di alto livello sarebbero stati necessari nella guerra successiva. 


Alcune di quelle attività belliche occupano tuttora i professionisti della matematica, sia all’interno, sia fuori dalle organizzazioni statali: dagli scienziati della sicurezza e dai decrittatori di codici nelle imprese tecnologiche e nei servizi segreti, ai ricercatori che ottimizzano fabbriche e catene di rifornimento nell’economia globale. Lo sviluppo dell’informatica del dopoguerra ha fornito un altro settore in cui i matematici sono divenuti essenziali. In tutte queste aree sono gli sviluppi della matematica di una ristretta elite che giustificano i finanziamenti privati e pubblici che i matematici continuano a ricevere oggi. Sarebbe una gran bella cosa se tutti fossero a proprio agio con i numeri, potessero scrivere programmi per computer, valutare i fatti della statistica, e questi sono tutti importanti obiettivi per l’educazione primaria e secondaria, ma non dobbiamo confonderli con i principali scopi e motivazioni del finanziamento pubblico della matematica, che hanno sempre riguardato la matematica di punta e non la matematica per tutti. 

Immaginare che la matematica sia ovunque, prosegue Barany,  fa semplicemente perdere di vista le reali politiche della elite matematica che conta davvero (tecnologia, sicurezza, economia), per l’ultima guerra e per la prossima. Al contrario, se comprendiamo che questo tipo di matematica è stata costruita storicamente da e per pochissimi, siamo chiamati a chiedere chi davvero può entrare nella loro ristretta cerchia e quali sono le responsabiulità che derivano dal loro sapere. Dobbiamo riconoscere che la matematica d’elite del giorno d’oggi, anche se è più inclusiva di cinque o cinquanta secoli fa, rimane una disciplina che conferisce una speciale autorità a pochi ed esclude molti per i più diversi motivi. Se la matematica fosse davvero dappertutto, dovrebbe già appartenere a tutti equamente, ma conclude Barany, quando si parla di accesso alla matematica e del suo finanziamento, c’è ancora molto lavoro da fare. La matematica non è dappertutto. 


Dicevo dei commenti. Anna Haensch, che scrive su un blog ospitato dal portale della American Mathematical Society, nell’articolo Don’t worry, math is still everywhere (Non preoccupatevi, la matematica è comunque dappertutto), contesta innanzitutto la scelta del titolo, che può far pensare che la critica di Barany si rivolga all’idea che la diffusione della matematica nella società, negli strumenti tecnologici, nelle nostre vite, non sia poi così importante come dicono in molti, a partire dagli insegnanti di matematica. In realtà Barany non vuol contestare la pervasività della matematica nella società moderna, ma il pensiero che essa sia alla portata di tutti indipendentemente dal censo, dal genere o dall’etnia o da altri fattori sociali condizionanti. Haensch concorda su questa idea, ma si chiede se ciò non valga per qualsiasi disciplina che richieda un lungo e costoso corso di studi. È vero che per accedere alla elite della matematica avanzata conviene avere disponibilità economiche, ma ciò succede anche per le scienze, il linguaggio o l’arte. 

Haensch pensa che affermare che la matematica sia dappertutto é proprio l’antidoto alla consueta e antica domanda “quando mai userò queste cose?” La matematica è dappertutto proprio come la scienza, l’arte e il linguaggio, pertanto conoscerla aiuta la gente a capire il mondo che ci circonda. Una buona dose di “la matematica è dappertutto” è una buon modo per motivare le persone a studiare la matematica di base, che è già una gran cosa. E siccome i buoni esempi servono a sviluppare le buone abitudini, ovviamente i decisori politici dovrebbero favorire la matematica avanzata come dovrebbero favorire ogni ricerca scientifica di punta. Infatti, anche se sembra una banalità, la ricerca di base è da dove proviene ogni grande scoperta. 


Assai più critica è stata la reazione dello storico della matematica e blogger Thony Christie, the Renaissance Mathematicus, che sostiene in Some rather strange history of maths (Una storia della matematica piuttosto curiosa) che alcune delle osservazioni storiche di Barany sono sostanzialmente errate, cosa grave se l’autore è uno storico della matematica. 

Christie afferma che è una leggenda l’idea che i calcoli astronomici fossero utilizzati per il definire le stagioni e aggiunge che gli astrologi babilonesi non erano certo una classe privilegiata, ma dei semplici funzionari statali con un compito ben preciso, pagato ma rischioso. Anche l’affermazione che la matematica di punta fosse un affare dei ricchi è, secondo Christie, errata: nelle società avanzate del mondo antico per le basi economiche era sufficiente la conoscenza della matematica elementare, mentre la matematica avanzata apparve a Babilonia nel 1500 a. C. e scomparve con il crollo dell’impero romano intorno al 400 d. C. Inoltre i Romani, la potenza dominante del mondo antico, non avevano un grande interesse per il progresso della matematica. 

La matematica medioevale aveva carattere eminentemente pratico e la ricerca matematica dovette aspettare il XIV secolo. Il valore del libro di Recorde del 1543 non risiede nel fatto che divulgava matematica di punta tra il popolo, ma solo nell’essere stato scritto in lingua vernacolare e non in latino: per il resto si tratta di un normale Liber Abaci nella tradizione di quello scritto da Leonardo Fibonacci tre secoli prima. 

Ciò che ha spinto Christie a scrivere la sua replica è tuttavia la contrapposizione che Barany fa tra un Recorde che porta la matematica alle masse e un Dee difensore elitario di un sapere segreto e privilegiato. In realtà Recorde ebbe incarichi importanti presso la Corona, essendo il medico personale sia di Edoardo Vi che della regina Maria; Dee, che visse a lungo all’estero, non ebbe mai cariche ufficiali , anche se è vero che spesso Elisabetta I lo consultava per dei pareri. (A dire il vero anche chi scrive queste righe è rimasto piuttosto sorpreso dal breve, fuorviante, ritratto di un personaggio affascinante e complesso come John Dee tracciato da Barany). Dee, oltre a essere stato il primo editore inglese egli Elementi di Euclide, raccolse la più grande biblioteca privata d’Europa, che metteva a disposizione gratuitamente a chi lo volesse consultare: altro che sapere esoterico! 

Quanto alla diffidenza verso la matematica degli artefici della Rivoluzione Scientifica del XVII secolo, la verità è esattamente opposta: Galileo era un propugnatore della matematizzazione della natura, e come lui agirono filosofi naturali come Stevino, Keplero, Cartesio, Pascal, Huygens e Newton. Ciascuno di essi era un matematico, che fornì importanti contributi al progresso matematico e scientifico, dall’algebra moderna, alla geometria analitica al calcolo, oltre a un grande quantità di sviluppi in altre branche. 

Christie conclude il suo articolo dicendo che è Barany ad aver venduto troppo la sua idea di una matematica avanzata separata dal resto della società e gli consiglia uno studio più approfondito della storia della matematica precedente il XX secolo. Una stroncatura, insomma. 


In una conversazione su Twitter dei primi di settembre, Barany difende le sue posizioni con Steven Strogatz, grande divulgatore della matematica, dicendo che ci sono due domande fondamentali alle quali si cerca di rispondere dicendo che ”la matematica è dappertutto”, e cioè: (1) perchè la gente dovrebbe finanziare la matematica avanzata; (2) perché la gente dovrebbe imparare la matematica di base. Barany sostiene che dire che la matematica è dovunque non è una risposta appropriata alle due domande. 

A me sembra che non era il caso di sollevare un caso sul nulla, perché nessuno ritiene che “la matematica è ovunque” sia una risposta completa alle domande di Barany, che forse andavano poste con il supporto di argomentazioni diverse. La matematica è ovunque, anche se purtroppo non é di tutti.

Nicola d’Oresme, un grande matematico del Trecento

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Nicolas Oresme (ca. 1320 - 1384) fu senza dubbio uno dei principali filosofi scolastici del XIV secolo, famoso per le idee originali, il pensiero indipendente e la critica a diverse dottrine aristoteliche. Era nato nella diocesi di Bayeux in Normandia, nei pressi di Caen. Tra il 1341 e il 1342 si era laureato in materie umanistiche all'Università di Parigi, dove aveva conosciuto le idee di Giovanni Buridano (1290-1358 ca.), e vi insegnò filosofia. Nel 1348 il suo nome compare in una lista di insegnanti laureati in teologia al Collegio di Navarra dell'Università parigina. Divenne Gran Maestro del collegio nel 1356, per cui doveva aver completato in precedenza il suo dottorato teologico. Tenne questa carica fino al 1362, continuando a insegnare teologia come “professore ordinario”.

Dal 1362, anno in cui lasciò l'Università, fino alla morte, avvenuta vent’anni dopo, fu al servizio di Carlo, il Delfino di Francia, che era reggente durante la prigionia presso gli inglesi del padre Giovanni II il Buono (1356-1364) e fu incoronato come Carlo V alla morte del genitore (1364). Carlo era un intellettuale molto religioso, che si circondava di eruditi come Oresme. Questi fu nominato canonico (1362) e più tardi decano (1364) della Cattedrale di Rouen, oltre che canonico della Sainte-Chapelle a Parigi (1363). Dal 1370 visse principalmente a Parigi, facendo il consigliere del re per le questioni economiche. Diventò vescovo di Lisieux nel 1377, dove morì l’11 luglio del 1382.

Al di là del suo complesso e raffinato pensiero filosofico, Oresme è una figura interessante perché si occupò di questioni scientifiche e matematiche, facendolo con intelligenza e intuizioni anticipatrici per i suoi tempi. A questo brillante erudito è stata attribuita l’invenzione della geometria analitica prima di Cartesio, la scoperta della legge della caduta dei gravi prima di Galileo, quella della rotazione della Terra prima di Copernico. Nessuna di queste presunte priorità è completamente vera, sebbene in ciascuna di esse Oresme lasciò traccia del suo studio penetrante. Qui voglio proporre al lettore un’analisi necessariamente divulgativa di alcune sue opere, concentrandomi su quelle di maggior interesse matematico.

Tractatus de configurationibus qualitatum et motum (Trattato sulla configurazione delle qualità e del movimento) 


In quest’opera Oresme espone il suo metodo di rappresentazione grafica delle variazioni di una grandezza (che chiama qualità) in funzione di un’altra. Egli considera per esempio un corpo nel quale il calore non è omogeneo, ma varia secondo il luogo e la misura. Per rappresentare le variazioni del calore all’interno del corpo, egli immagina una retta tracciata sul corpo. Chiama longitudino la distanza che separa un punto qualsiasi della retta a un punto d’origine fissato arbitrariamente. In ciascun punto di questa retta traccia una perpendicolare la cui altezza (latitudino) è proporzionale all'intensità del calore nel punto corrispondente del corpo. Ottiene così una figura geometrica il cui esame rende più facile lo studio delle variazioni del calore. “Le proprietà di questa qualità - commenta - saranno esaminate più chiaramente è più facilmente quando qualcosa che le è simile è disegnato su una figura piana, e questa cosa, resa chiara per esempio visibile, viene colta rapidamente e perfettamente dall’immaginazione (…) perché l’immaginazione delle figure aiuta grandemente la conoscenza delle cose stesse”.



Egli intraprende poi uno studio matematico delle figure piane prodotte dalle rappresentazioni grafiche delle qualità. Fa loro subire delle trasformazioni geometriche semplici cercandovi delle proprietà invarianti, il che lo porta a una classificazione delle curve. Assistiamo così ai primi vagiti della geometria analitica, fatto che ha portato alcuni a considerare Oresme un precursore di Cartesio.

Il nostro autore tuttavia non si ferma a uno studio completamente astratto. Vuole dare delle applicazioni pratiche alla sua idea di configurazione in diversi campi. Inizia con la biologia: egli afferma per esempio che il calore naturale di un leone si comporta in modo diverso da quello di un asino o di un bue. “Esso gli fornisce una potenza più grande, non solamente perché è più intenso, ma anche perché la sua rappresentazione grafica è diversa”. Più oltre suggerisce che la configurazione del calore associato al seme di un uomo ha un ruolo fondamentale nel concepimento di un bambino, in quanto la natura è capace solamente di produrre questa configurazione nell’utero di una donna.

La dottrina della configurazione viene così presentata come capace di fornire una spiegazione al perché certe pietre preziose o altre cose possono avere effetti curativi.“La causa risiede nella similitudine tra la configurazione della qualità della pietra e la qualità corporale della persona che è ammalata (…) così, a causa della natura nascosta di questi rapporti certi stupidi negromanti dicono che le proprietà curative sono il risultato della presenza di certi spiriti che vi hanno introdotto”. In seguito tenta di trovare dei legami tra la dottrina della configurazione e l’estetica. Esiste una bellezza assoluta che possa essere caratterizzata da dei rapporti universali tra le configurazioni delle qualità delle cose?

Tutte queste idee restano tuttavia essenzialmente speculative. Si tratta di un documento molto significativo dello spirito che regnava alla fine del XIV secolo nelle scuole parigine, in cui si era stanchi di virtù occulte e si aspirava a una scienza razionale le cui spiegazioni fossero dipese da un piccolo numero di proprietà elementari sviluppate seguendo i metodi chiari e certi della matematica. 

Nella seconda sezione di quest’opera, quando applica la dottrina della configurazione allo studio del movimento, Oresme dà tutta la misura del suo genio. Si tratta della parte che esercitò un’influenza duratura sui suoi contemporanei e che senza dubbio ha lasciato una traccia nella storia della scienza del moto.

Per descrivere e studiare un movimento rettilineo, Oresme ha l’idea di rappresentare graficamente la velocità istantanea del corpo mobile in funzione del tempo. Su una retta orizzontale riporta una scala proporzionale al tempo, da cui traccia delle perpendicolari la cui lunghezza è proporzionale alla velocità del mobile nell’istante corrispondente. Ciò che gli interessa in questa costruzione è la parte di piano interessata da queste perpendicolari successive. Tramite l’esame di casi particolari semplici e la loro generalizzazione, giunge alla conclusione che l’area della superficie interessata dalle varie perpendicolari tracciate a partire da ciascuna punto della scala del tempo è proporzionale alla distanza percorsa dal mobile durante l’intervallo di tempo:



Questo postulato è alla base delle sue scoperte relative al moto uniformemente accelerato. Ecco in breve il suo ragionamento. In un moto rettilineo uniformemente accelerato, l’aumento della velocità del mobile è proporzionale al tempo durante il quale si produce questo aumento. La rappresentazione grafica della velocità in funzione del tempo descritta in precedenza porta allora a una figura a forma di trapezio:



Se M è il punto medio di AB, l’area del trapezio ABCD è uguale a quella del rettangolo ABC’D’. Sulla base del postulato precedente, il nostro matematico deduce che la distanza percorsa dal mobile nell’intervallo di tempo AB è la stessa di quella che avrebbe percorso se fosse stato mosso con una velocità uniforme uguale a quella che possiede nell’istante mediano M. Questo enunciato viene chiamato regola di Merton, dal nome di un collegio di Oxford che fu culla di molti importanti filosofi scolastici. I maestri di quel luogo l’avevano formulato, ma senza fondarlo su una chiara dimostrazione. Oresme fornisce invece un elegante modello geometrico di questa regola, facile da capire e imparare. Una dimostrazione rigorosa di questo risultato non si può fare senza ricorrere al calcolo integrale, che peró sarà inventato solo due secoli e mezzo più tardi. Nel frattempo il trapezio di Oresme fa il giro di tutte le università d’Europa.



Egli però non si ferma a questo. Proseguendo il suo studio, considera un moto rettilineo uniformemente accelerato con velocità iniziale nulla. In questo caso i punti A e D del trapezio precedente sono sovrapposti:



Suddividendo l'intervallo AB in un certo numero di parti uguali, mostra chiaramente sulla figura che le aree dei trapezi sopra gli intervalli sono nella proporzione 1,3,5,7...ecc. Tali sono le distanze percorse durante quegli intervalli. “Ora - sostiene - come ha fatto notare il grande matematico greco Pitagora, si ha: 
1 = 1 = 1 volta 1, 
1 + 3 = 4 = 2 volte 2, 
1 + 3+ 5 = 9 = 3 volte 3, 
1 + 3 + 5 + 7 = 16 = 4 volte 4, 
1 + 3 + 5 + 7 + 9 = 25 = 5 volte 5, 
e così via (…) 
Si ottiene sempre un numero quadrato. In questo modo si possono determinare i mutui rapporti delle quantità totali [cioè l’area].

Nicolas Oresme ha dunque stabilito la legge fondamentale del moto rettilineo uniformemente accelerato, vale a dire che, se velocità all’istante zero è nulla, la distanza percorsa è proporzionale al quadrato del tempo. Questa legge non fu mai dimenticata nel periodo trascorso tra Oresme e Galileo Galilei ed era insegnata a Oxford da William Heytesbury e i suoi discepoli. Se siamo abituati ad attribuire questa legge a Galileo, il motivo è che il grande pisano ha avuto l’idea di utilizzare un piano inclinato per verificare sperimentalmente quale legge si applica al moto di caduta dei corpi. La storia dimentica troppo facilmente il contributo dei maestri del Medio Evo nel seminare idee che sarebbero germinate in tempi moderni.

Il Trattato sulla configurazione delle qualità e del movimento ha segnato la storia della scienza. La dottrina di Oresme fu diffusa in tutta Europa, soprattutto in Italia, ma anche a Vienna, Heidelberg e Colonia, come attestano i registri di quelle università. Tuttavia, prima dell’avvento della stampa, non circolò l’opera originale, ma un compendio intitolato Tractatus de latitudinibus formarum, nel quale mancava il famoso trapezio. Questa lacuna fu colmata del filosofo e matematico parmigiano Biagio Pelacani (1355-1416), che insegnò a Padova. I suoi scritti ebbero larga diffusione in Italia, ed è probabile che Galileo per suo tramite fosse a conoscenza delle scoperte di Oresme.

De proportionibus proportionum (Proporzioni di proporzioni) 


Il punto di partenza di questo trattato è una legge formulata da Thomas Bradwardine, uno dei maestri di Merton, i filosofi inglesi che, nei decenni centrali del Trecento, applicando lo studio della logica e della matematica alle loro speculazioni, furono chiamati calculatorese contribuirono alla rinascita dell’interesse verso lo studio dei fenomeni naturali (e al pragmatismo inglese). La legge di Bradwardine (1328) legava in modo complicato forza, resistenza e velocità e costituiva un primo tentativo di quantificare la fisica di Aristotele. Per trattare l’argomento in modo generale, Oresme introduce per la prima volta il concetto di potenza di un numero con esponente frazionario, con una notazione già simile a quella attuale. Arriva persino a inventare il concetto di potenza con esponente irrazionale applicando il principio di continuità. Molto in anticipo sull’invenzione dei logaritmi, afferma che, dati due numeri x e y non nulli, esiste sempre un esponente razionale o irrazionale e tale che x elevato a e sia uguale a y.

Nel caso in cui x e y sono dei numeri interi, deduce, con un ragionamento aritmetico elementare, che la condizione perché l’esponente e sia razionale è che la scomposizione in fattori primi di x e y contenga gli stessi numeri. Ne conclude che se x e y sono scelti a caso, è più probabile che l’esponente sia irrazionale piuttosto che razionale. Ciò lo porta a pensare che quando un numero incognito interviene nella legge che regola un fenomeno naturale, ci sono grandi probabilità che esso sia irrazionale.

Questa osservazione è alla base della sua argomentazione contro le predizioni astrologiche. Oresme considera il semplice caso di due pianeti che percorrono orbite circolari e concentriche con velocità uniformi. Se il rapporto delle velocità di rotazione dei pianeti è razionale, le congiunzioni di questi due pianeti si produrranno periodicamente secondo un numero finito di raggi (esattamente come succede per le due lancette di un orologio, in cui la più grande ricopre la piccola ogni undicesimo di ora). Ma, se, come è più probabile secondo l’osservazione precedente, il rapporto delle velocità di rotazione dei due pianeti è irrazionale, le posizioni future delle congiunzioni, delle opposizioni, delle quadrature, dipendono allora dai decimali di questo rapporto sconosciuto. Ciò significa che è impossibile prevedere a lungo termine le posizioni reciproche dei due pianeti, svuotando di ogni credibilità le affermazioni degli astrologi.




Oresme tornò a criticare gli astrologi in altre opere. In Ad respicientes Pauca (il nome deriva dalla frase di apertura "Per quanto riguarda alcune questioni ..."), sostenne che l'astrologia era in tal modo confutata. Nel Livre de divinacions e nel Tractatus contra astronomos,cercò di dimostrare che l'astrologia è "più pericolosa per quelli di alto stato, come principi e signori, ai quali atterrebbe il governo del bene comune". Come contro l'astrologia, combatté contro la credenza diffusa in fenomeni occulti e "meravigliosi", spiegandoli in termini di cause naturali. Gli scritti di Oresme contro l'astrologia e la magia derivavano dal suo timore per la dipendenza del Re e della sua corte da queste pratiche.

Anche se le argomentazioni del filosofo normanno non ebbero alcun effetto sulle convinzioni dei suoi contemporanei (e anche di molti dei nostri, purtroppo), esse testimoniano la profondità del suo pensiero matematico. L’affermazione della preponderanza dei numeri irrazionali su quelli razionali dovrà attendere la fine del XIX secolo per essere chiaramente precisata e dimostrata da Georg Cantor, il fondatore della teoria degli insiemi.

Questiones super geometriam Euclidis (Domande sulla geometria di Euclide) 


Altre idee degne di nota in campo matematico sono contenute in questa breve opera scritta probabilmente come appunti delle lezioni tenute tra il 1343 al 1351 alla scuola di Parigi. Si tratta di una serie di domande non numerate, ricostruite solo recentemente sulla base di manoscritti provenienti da varie biblioteche europee, redatte secondo lo schema tipicamente scolastico della risposta concepita come disputatio tra pareri diversi. Le prime nove quaestiones riguardano il problema degli infiniti. Oresme dimostra attraverso esperimenti mentali che di due infiniti in atto nessuno è maggiore o minore dell’altro. La dimostrazione che adotta ricorda quella di Georg Cantor che certi insiemi infiniti sono equinumerosi. Infatti Oresme applica il principio della corrispondenza uno a uno per mostrare che la collezione di tutti i numeri pari oppure dispari naturali non è più piccola della collezione dei numeri naturali, perché è possibile contare i numeri pari o dispari attraverso i numeri naturali.

Egli non fu il primo a utilizzare il principio della corrispondenza uno a uno analizzando le proprietà degli infiniti attuali. Anche l’oxoniense Bradwardine, il cui scopo principale era quello di confutare l’opinione di Aristotele che il mondo è eterno, applicò la corrispondenza uno a uno per dimostrare che due infiniti sarebbero uguali o (in termini moderni) che un sottoinsieme infinito è uguale all’insieme di cui è una parte. Tuttavia Bradwardine prendeva per certo che un sottoinsieme infinito è più piccolo dell’insieme di cui fa parte. Così era dell’opinione che con l’assunzione di un mondo eterno che non ha inizio, la moltitudine di tutte le anime umane che sono state create finora deve essere maggiore delle moltitudini delle anime maschili o femminili considerate da sole. Da questa contraddizione (un sottoinsieme infinito non può essere contemporaneamente più piccolo e uguale all’insieme di cui fa parte) Bradwardine traeva l’inferenza che l’eternità del mondo è impossibile.

Diversamente dall’inglese, Oresme sostiene che di due infiniti in atto nessuno può essere maggiore o minore dell’altro. Ciò perché non necessariamente due infiniti in atto sono diseguali per numero, ma lo possono essere per qualità. Questa ineguaglianza non deve essere concepita nel senso di “maggiore o “minore”, ma piuttosto di diversità. Poiché quantità comparabili sono o uguali una all’altra oppure una è maggiore o minore dell’altra, Oresme conclude che gli infiniti in atto sono incomparabili, il che vuol dire che concetti come minore, maggiore o uguale non si possono applicare agli infiniti.

Alcune quaestiones riguardano le serie numeriche. Oresme è il primo a dimostrare che la serie armonica, cioè

è divergente. Il suo ragionamento è semplice e illuminante. Poiché questa serie consiste di un’infinità di parti che sono maggiori di 1/2, allora l’intera serie è infinita. La dimostrazione si basa sul fatto che la somma del terzo e del quarto termine (1/3 + 1/4) è maggiore di un mezzo, così come la somma dei termini dal quinto all’ottavo (1/5 + 1/6 + 1/7 + 1/8) è maggiore di 1/8 + 1/8 +1/8 + 1/8 = 1/2, e come la somma dal nono al sedicesimo è maggiore di 8 × 1/16 = 1/2, e così via. In termini moderni:






La dimostrazione si può estendere a qualsiasi serie della forma a + a/m + a/m2 + a/m3 + … + a/mn + a/mn+1 +…, con a che è una quantità qualsiasi (aliqua quantitas) e m un qualsiasi numero naturale maggiore o uguale a 2. 

Glosse al Trattato sul cielo di Aristotele 


Su richiesta formale del re, Oresme intraprende tra il 1370 è il 1373 la traduzione dal latino in francese di alcune opere di Aristotele, in particolare il Trattato del cielo e del mondo, una delle più importanti del filosofo greco. Tuttavia aggiunge alla mera traduzione un imponente apparato di glosse e commenti, che costituiscono una testimonianza fondamentale del suo pensiero. L’opera commentata sarà pronta nel 1377 e varrà all’autore la nomina a vescovo di Lisieux. 

Nelle glosse alla traduzione, Oresme accetta l’insieme della cosmologia di Aristotele, verso il quale mostra rispetto, anche se non omette di manifestare il suo pensiero critico su alcuni punti fondamentali. Eccone alcuni. 

Aristotele ignora il principio d’inerzia e, per spiegare la continuazione del moto di un proiettile dopo che ha lasciato la mano del lanciatore, sostiene che l’aria, riempiendo in modo turbolento il vuoto che si crea dietro l’oggetto, lo spinge in volo. Il mezzo in cui avviene il moto è così fondamentale. Per Oresme, discepolo di Giovanni Buridano, che aveva espresso tale idea, il moto dell’oggetto si spiega invece con il fatto che esso ha ricevuto dalla mano del lanciatore una qualità che chiama impetus, una sorta di antenato della nostra energia cinetica. Il moto non avviene a causa del mezzo in cui avviene, che semmai gli si oppone. 

Per Aristotele le orbite celesti percorse dagli astri sono ciascuna sottomessa a un motore eterno e immobile. Oresme ritiene invece che il moto degli astri, regolare e ordinato come quello delle sfere dell'orologio, derivi dalla virtù mobile impressa loro da Dio al momento della creazione, così come ai corpi terrestri il Creatore ha imposto la pesantezza. Questa idea del normanno non era originale, ed era condivisa dai filosofi della scuola parigina. 



Originale è invece l’ipotesi di Oresme che la Terra giri su se stessa in ventiquattro ore. Nella concezione aristotelica e scolastica, il mondo è costituito da un’immensa sfera che gira su se stessa da oriente a occidente portando su di sé le stelle fisse. All’interno, e a distanze diverse dal centro, le orbite dei pianeti e quella del sole sono trascinate dal movimento giornaliero della sfera delle stelle fisse, ma i pianeti, la Luna e il Sole si muovono rispetto alla sfera esterna in senso inverso al suo movimento, secondo un asse inclinato rispetto a quello dei poli celesti. Aristotele sostiene che, al centro di questo sistema di sfere e di cerchi concentrici, la Terra deve restare necessariamente immobile. Questo sistema corrisponde alle osservazioni e sembra in accordo con l’esperienza. 

Oresme non mette in discussione la forma sferica del mondo, né il geocentrismo, ma propone di spiegare il movimento giornaliero con l’ipotesi che sia la Terra a ruotare su se stessa in rapporto al cielo immobile. Egli infatti sostiene che nessun esperimento può decidere se sono i cieli a muoversi da est a ovest o è la Terra che si muove da ovest a est, perché l’esperienza dei sensi non può stabilire più di un moto relativo. Così come di due navi in mare aperto non si può dire quale sia ferma e quale si metta in movimento, “se un uomo fosse in cielo, nell’ipotesi che sia dotato del suo stesso movimento giornaliero, egli vedrebbe la terra e distintamente i monti, le valli, i fiumi, le città e i castelli, e gli sembrerebbe che la Terra sia mossa da movimento giornaliero, così come a noi sulla terra sembra del cielo”. Le due ipotesi sono equivalenti logicamente, ma Oresme propende per quella della rotazione terrestre aggiungendo altre considerazioni. “È la cosa che ha bisogno di un’altra cosa che si muove per ricevere il bene (....) e quindi la Terra e gli elementi di quaggiù, che hanno bisogno del calore e dell’influsso del cielo tutt'intorno, devono essere disposti dal movimento a ricevere questo vantaggio adeguatamente. D’altra parte, data l’immensità della sfera celeste, e la velocità inimmaginabile alla quale dovrebbe girare in ventiquattro ore, è più ragionevole supporre il movimento della terra. Inoltre Aristotele dice che Dio è la natura non fanno nulla invano. È dunque più semplice, per spiegare gli stessi effetti, supporre il movimento della Terra piuttosto che quello del cielo”. (E qui viene in mente il “rasoio” del grande filosofo inglese Ockham, anteriore di pochi decenni: tra due spiegazioni si preferisca la più semplice) 

A differenza di altre opere scientifiche di Oresme, questo testo restò poco conosciuto fuori dalla Francia, circolò solo come manoscritto e fu pubblicato a stampa solo nel 1942 negli Stati Uniti. Per questo motivo è assai dubbia la sua influenza sugli sviluppi successivi della teoria eliocentrica, in particolar modo sul pensiero di Copernico. 

Alla fine di questa esposizione può affiorare l’idea che Nicola d’Oresme sia stato un genio isolato, in anticipo sui tempi, un alieno intellettuale. Non è così. Senz’altro fu un erudito intelligente e originale, dai molteplici interessi, assai versato per la matematica. Tuttavia è bene ricordare che nell’ambiente della filosofia scolastica del Trecento, soprattutto in alcune scuole come Parigi e Oxford, l’impulso alla discussione e alla critica sulla natura e le sue leggi fu molto forte. Dobbiamo abbandonare l’idea che la filosofia degli ultimi secoli di quell’epoca che chiamiamo Evo di Mezzo sia stata solo un contrappunto su temi teologici e metafisici o una mera riproposizione delle idee degli antichi allora accessibili, soprattutto Aristotele. Iniziarono invece molte riflessioni sul mondo fisico e naturale e, se ancora non c’era l’esperimento a vagliare la correttezza di un’ipotesi (ma la matematica si affida piuttosto alla coerenza interna e alla dimostrazione), esisteva una comunità di intellettuali, estesa a livello continentale, in grado di valutarla e discuterla. Almeno da questo punto di vista non esiste soluzione di continuità con i secoli che avrebbero visto la rivoluzione scientifica.
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