Quantcast
Channel: Popinga
Viewing all 399 articles
Browse latest View live

Il femminismo e il confronto con la contingenza

$
0
0
Nella storia dell’impegno, il femminismo rappresenta una rottura senza precedenti. Le donne hanno incorporato nel pensiero progressista proprio ciò che questo aveva rifiutato e lasciato nella corrente della reazione: il pensiero contingente, in quanto donna, nero, occidentale o altro. Sostenendo che gli uomini avrebbero potuto capire la loro lotta ma mai conoscerla, hanno commesso un crimine di lesa maestà. (…) Al di là di ciò che possiamo condividere, l’esperienza di essere donna nel proprio corpo segna il limite tra la comprensione, la solidarietà e la conoscenza. Non si tratta di ridurre il femminismo a una questione di sesso. Alcuni vissuti sono vissuti di genere, altri sono biologicamente determinati. La componente biologica non dà il senso – “donna non si nasce, si diventa” – ma non può per questo essere negata. 
Il femminismo rompe così con il pensiero progressista che concepiva l’impegno secondo un modello di desustanzializzazione. Tutti i movimenti precedenti avevano preferito cancellare le particolarità di ciascuno. Gli uomini dovevano assumere il punto di vista della coscienza universale. La porta era aperta a tutti gli accessi. Un punto di vista non si definisce attraverso un’identità ma attraverso delle pratiche e attraverso la disposizione materiale che le determina.

Voce “Femminismo” da Contro il niente. Abc dell’impegno, di Miguel Benasayag, Feltrinelli, 2005. Grazie a Pier Luigi Fettolini che mi ha fatto conoscere questo libro intelligente, regalandomelo.


Situazione politica e leggi della fisica

$
0
0

Minoranza PD (Ep = mgh) 
In quota a Bersani c’era tutta una massa che avvertiva la gravità della situazione. Una potenziale energia era pronta a manifestarsi.

Caduta libera (Ec = ½ mv2
Quando tolsero l’appoggio al segretario, una buona metà della massa prese velocità, facendo quadrato. La sua caduta rovinosa convertì tutta la potenziale energia del partito, esempio ideale di cosa fanno i conservatori.

Grillo (F = ma)
La forza del movimento era data dalle masse, che acceleravano per il cambiamento.

Berlinguer (V=IR) 
C’era nel suo potenziale politico una bella differenza, che nasceva dall’intensità dei suoi discorsi e dall’eredità della Resistenza

Trasformismo (∑ Ie = ∑ Iu)
Nel tempestoso mutare delle fazioni parlamentari, la maggioranza prese atto che la sommatoria delle correnti in entrata corrispondeva a quella delle correnti in uscita.

Linee di flusso (div F)
Sul punto delle riforme costituzionali si creò una divergenza che diede la misura di come nel partito ci fossero flussi indirizzati verso varie direzioni

Contingentamento dei tempi (PV = NRT)
La pressione creata dal volume degli emendamenti si tradusse in una quantità sostanziale di interventi: tante volte costante, tante volte assolutamente legata alla temperatura politica.

Saccheri e l’eterogenesi dei fini

$
0
0

Giovanni Girolamo Saccheri nacque nel 1667, figlio di un avvocato di Sanremo. Talento precoce, Girolamo a diciott'anni entrò nell'ordine dei Gesuiti a Genova. Lì studiò filosofia e teologia finché i superiori lo mandarono a Milano presso il Collegio di Brera, dove fu notato da Tommaso Ceva, che lo indirizzò allo studio degli Elementi di Euclide. Il Ceva aveva un fratello di nome Giovanni che era diventato matematico del Duca di Mantova ed era un grande geometra. I due fratelli ebbero una grande influenza sul giovane Saccheri, che si innamorò della matematica perinde ac cadaver

Il giovane Saccheri divenne presto così abile con le rette e gli angoli da pubblicare un libro di Quaesita geometrica all'età di ventisei anni, l’anno prima di ricevere gli ordini ed essere trasferito a Torino come insegnante del locale Collegio. Astuto, di eloquio fine e seducente, nella capitale subalpina entrò in confidenza con il Duca Vittorio Amedeo, che lo prese sotto la sua protezione, affidandogli incarichi diplomatici e chiamandolo ogni volta che gli si presentava un difficile problema matematico da risolvere. Il frutto di tre anni di docenza fu il trattatello di Logica demonstrativa (1697). 

La logica del Saccheri si basa sullo studio delle definizioni. Egli ne distingue due tipi: le prime, che chiama definitiones quid nominis, o nomindes, sono quelle che hanno lo scopo di fornire il significato del termine definito; le seconde, definitiones quid rei, o reales, alla spiegazione del significato del termine aggiungono l’informazione della sua reale esistenza, con la prova di ciò. Così è quid nominis dire che il punto medio di un segmento è equidistante dagli estremi, è quid rei quando si fornisce anche la costruzione per trovare tale punto medio. 


A Pavia insegnò nel Collegio dei Gesuiti e tenne la cattedra di matematica all'Università per tutto il resto della sua vita. Tre lustri dopo la pubblicazione del libro di logica dimostrativa, il duca di Savoia Vittorio Amedeo cercò di riportarlo a Torino, offrendogli la cattedra di matematica, ma il servo di Gesù scelse di rimanere presso il Ticino. In seguito rifiutò anche la cattedra di matematica a Padova.

Da bravo gesuita euclideo, un giorno, era oramai giunto al sessantacinquesimo anno della sua vita terrena, le critiche che l’inglese John Wallis e l’arabo al-Tusi avevano mosso al postulato delle parallele gli sembravano poco generose e arroganti. Decise di dimostrarlo e difendere Euclide, non accontentandosi di una semplice definitio quid nominis. Scrisse allora un volume intitolato Euclides ab Omni Naevo Vindicatus (Euclide vendicato da ogni macchia), che conteneva questa dimostrazione: 

Considerò un segmento AB, con due segmenti uguali AC e BD ad esso perpendicolari. Unì C e D in modo da ottenere un quadrilatero (che chiamò quadrilatero birettangolo isoscele). Saccheri sapeva che, se avesse potuto provare che gli angoli in C e in D erano retti senza usare il famoso postulato di Euclide, sarebbe riuscito a dedurlo dagli altri assiomi del greco. Egli provò facilmente che gli angoli in C e in D erano uguali, ma dimostrare che erano anche retti era assai più complicato. Con astuzia fece l’ipotesi che essi non fossero retti, cercando di ottenere una contraddizione dall'uso di tutti gli altri postulati euclidei tranne il quinto, che è appunto quello delle parallele. Prese in esame due casi: o i due angoli uguali erano più piccoli di un angolo retto, o essi erano più grandi. 

Egli fu in grado di scartare abbastanza rapidamente la seconda ipotesi. Fece ricorso alla proprietà di Archimede, quella per la quale, se si estende sufficientemente un segmento lineare di data lunghezza, esso sarà più lungo di qualsiasi lunghezza considerata, e assunse che ogni linea retta è infinita e divide il piano in due parti. Così fu in grado di dimostrare che, nell'ipotesi di due angoli ottusi, avrebbe dovuto ricorrere a linee rette di lunghezza finita, e ciò appare una contraddizione. Commentò che "L'ipotesi dell'angolo ottuso è completamente falsa, poiché distrugge se stessa"

Nel caso che gli angoli in C e in D fossero stati acuti, egli non riuscì a ottenere una contraddizione. Egli suppose che ciò che vale per un punto a distanza finita dalla retta dovesse valere anche per un punto posto all'infinito, ma questa ipotesi in realtà rende inammissibile la confutazione. In pagine di grande intuito, egli dimostrò tuttavia ben 32 proposizioni, tra le quali: Se la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale, più grande o più piccola di due angoli retti, allora ciò accade in tutti i triangoli. 


A seconda che il triangolo iscritto in una semicirconferenza sia retto, ottuso o acuto, allora è vera l’ipotesi che l’angolo in C e in D sia retto, ottuso o acuto. 

Nell'ipotesi che tale angolo sia retto, due rette distinte si intersecano, a meno che una trasversale non le tagli secondo angoli corrispondenti uguali. Nell'ipotesi dell’angolo ottuso, due rette si intersecano sempre. Nell'ipotesi dell’angolo acuto, esistono infinite rette, che passano per un dato punto esterno a una retta data, che non intersecano tale retta. 

Così ragionando, Saccheri cercò di convincersi di aver trovato la contraddizione che cercava nel caso di due angoli uguali minori di quello retto. Scrisse così che “l’ipotesi dell’angolo acuto è assolutamente falsa, perché ripugna alla natura della linea retta”. Non completamente convinto in cuor suo, aggiunse che, mentre la confutazione dell’ipotesi dell’angolo ottuso era chiara come la luce del giorno, “al contrario non sono riuscito a provare l’altra ipotesi, quella dell’angolo acuto, senza aver provato preventivamente che una linea i cui punti sono tutti equidistanti da una data retta giacente nello stesso piano è una retta anch’essa”

Girolamo Saccheri morì qualche mese dopo che il suo libro ebbe ottenuto l’imprimatur della Compagnia di Gesù (1733). Con il suo lavoro aveva identificato con chiarezza le tre ipotesi possibili e, non giungendo a una evidente contraddizione per quella dell’angolo acuto, aprì le porte a un nuovo tipo di geometria, ma questa è un’altra storia e ne parleremo un’altra volta. Resta il fatto che è destino degli uomini della sua terra fare molte cose a propria insaputa.

Lambert e l’ombra di Kant

$
0
0
Edoardo Boncinelli ci sta ultimamente solleticando l’ingegno pubblicando su Facebook i suoi aforismi provocatori, che, se non ho capito male, intende poi raccogliere in un libro. Uno degli ultimi recita: 
"I filosofi dicono di cercare il senso delle cose. Sarà per quello, che dicono tante cose prive di senso". 
Forse non tutti i filosofi sono come li descrive Boncinelli (uno dei pochi intellettuali italiani che non fa distinzioni e classifiche tra le “due culture”), ma vi voglio raccontare una piccola storia che sembra proprio dargli ragione. 


Il libro di Girolamo Saccheri sul controverso V postulato di Euclide, pubblicato nel 1733, ebbe una certa risonanza in tutta Europa. Tra coloro che intrapresero studi analoghi vi fu il matematico alsaziano Johann Heinrich Lambert (1728 – 1777), che, dopo aver dimostrato l’irrazionalità di π, aveva affrontato il problema delle parallele nello studio Theorie der Parallelinien, scritto un anno prima della morte e pubblicato postumo nel 1786. 

Come Saccheri, anche Lambert partiva dallo studio di un quadrilatero trirettangolo, chiedendosi poi se il quarto angolo potesse essere retto, ottuso, oppure acuto. Sulle sue considerazioni pesò il fatto di essere anche un fisico, con interessi nelle proiezioni cartografiche e nell’astronomia, quindi abituato a trattare le superfici sferiche. Nell’ipotesi dell’angolo acuto, giunse a “quasi trarne la conclusione che [essa] si presenti nel caso di una sfera immaginaria”: insomma, aveva pensato a una geometria sferica, ma era rimasto sconcertato da un concetto che faceva a pugni con l’intuizione comune dello spazio.

Lambert aveva anche interessi filosofici ed era amico e corrispondente di Immanuel Kant, al punto che il filosofo di Königsberg voleva dedicargli la Critica della ragion pura, ma l’opera ebbe dei ritardi e fu pubblicata solo dopo la morte del matematico, nel 1781. 

Proprio nella Critica, Kant scriverà queste considerazioni, che doveva aver fatto conoscere a Lambert: 
“Lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne. […] Pertanto, la rappresentazione dello spazio non può esser nata per esperienza da rapporti del fenomeno esterno; ma l'esperienza esterna è essa stessa possibile, prima di tutto, per la detta rappresentazione. Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. […] Lo spazio non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale dei rapporti delle cose in generale, ma una intuizione pura. Perché, primieramente, non ci si può rappresentare se non uno spazio unico, e, se si parla di molti spazi distinti, si intende soltanto parti dello stesso spazio unico e universale”. 
Fu così che l’ombra dello spazio unico e a priori di Kant bloccò ogni possibile speculazione di Lambert su possibili geometrie non euclidee. A dar retta ai filosofi...

Stifelius, tra algebra e fine del mondo

$
0
0

Nella Arithmetica Integra (1544) il monaco agostiniano e matematico Michael Stifel (Stifelius, 1487 - 1567), amico e seguace di Lutero, non solo inventò il termine "esponente", ma non ebbe paura a usare i numeri negativi ("assurdi") persino per gli esponenti stessi. A pagina 250 dell'opera troviamo la tabella delle potenze di 2, estesa agli esponenti negativi. L'opera contiene anche le regole per la moltiplicazione e la divisione di potenze con la stessa base.


Stifel, che è considerato il più grande algebrista tedesco, ebbe una vita movimentata a causa delle sue idee religiose e della sua mania per la numerologia. Non solo aveva identificato in papa Leone X l'Anticristo, ma, in un libello pubblicato a Wittenberg nel 1532, aveva predetto la fine del mondo per le ore 8 del 18 ottobre dell'anno successivo, inducendo molti a lasciare il lavoro o a vendere proprietà e terreni. Il buon Lutero lo salvò dall'ira popolare trasferendolo in una parrocchia lontana, con la promessa di non occuparsi più dei significati reconditi delle Scritture o, almeno, a non rendere pubbliche le sue profezie. Incominciò allora a studiare la geometria e la matematica in modo meno stravagante, giungendo in seguito a risolvere equazioni cubiche e quadratiche. Contribuì anche alla modernizzazione della notazione delle potenze e delle radici. Ebbe la cattedra di matematica in diverse università sotto il controllo protestante. L'ultima fu a Jena, dove morì. 

Le bizzarrie numerologiche di Stifel non devono stupire in un grande matematico: era lo spirito dei tempi. In realtà il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt’altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente originali o del tutto folli, che spesso convivano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Anche la biografia di tanti matematici del suo tempo (ad esempio il Cardano o il Della Porta), presenta aspetti che possono sembrare contraddittori, così pervasi di mentalità magica. 

Siamo poi abituati a considerare così assodate certe conoscenze da ignorare o dimenticare quanto queste nascano da un lungo processo di tentativi ed errori, da uomini per loro natura incoerenti e viventi in società e tempi contraddittori, così ci stupiamo di come uomini di grande valore potessero elaborare le loro straordinarie scoperte e contemporaneamente credere in idee sbagliate, coltivare passioni bizzarre, auspicare la realizzazione di sogni messianici. Galileo, Copernico e Keplero facevano oroscopi, Newton alternava i suoi studi di ottica e di meccanica con quelli alchimistici, Nepero (John Napier), inventava i logaritmi ma li considerava un passatempo di fronte alla sua grande missione di rovesciare il papa di Roma (che anch'egli, tanto per cambiare, considerava l'Anticristo)

Gauss e la nota di Schweikart

$
0
0
In una lettera del 19 dicembre 1799, scritta da Helmstedt, dove si trovava per discutere la tesi di laurea, il giovane Carl Friedrich Gauss (1777-1855) comunicava all’amico (e compagno di studi a Gottinga) Farkas Bolyai (1775-1856) i primi risultati dei suoi tentativi di dimostrare il V postulato di Euclide attraverso un procedimento per assurdo: 
“(…) sono dispiaciuto di non avere approfittato della nostra precedente vicinanza per sapere di più del tuo lavoro sui principi fondamentali della geometria; mi sarei senza dubbio risparmiato molti sforzi vani e sarei stato più tranquillo, per quanto ciò sia possibile per uno come me, quando ci sono molte cose da cercare in questa situazione. Personalmente sono andato molto avanti con lo studio di questo argomento (considerando che i miei altri impegni vari mi lasciano poco tempo), ma la via sulla quale mi sono messo non conduce al fine che si cerca, e che tu affermi di aver raggiunto, ma porta piuttosto a dubitare dell’esattezza della geometria. Certamente ho trovato molte cose che si potrebbero qualificare come prova di gran parte [della geometria euclidea], ma che in realtà ai miei occhi non provano NULLA; per esempio, se si potesse provare che esiste un triangolo rettangolo la cui area sia maggiore di quella di una data regione, allora sarei nella posizione di giustificare la geometria per intero. (…)”. 
Il 25 novembre 1804, rispondendo a una lettera di Bolyai in cui il matematico ungherese gli aveva inviato una Theoria parallelarum con la tanto attesa prova del V postulato, Gauss dichiarava francamente all’amico di non esserne soddisfatto, segnalava un errore, e sosteneva che lo scoglio contro il quale era andato a sbattere l’amico era lo stesso contro il quale lui stesso era finito. Si augurava, tuttavia, che “prima che il mio tempo finisca, questi scogli permetteranno il passaggio”.

Come si vede, egli era convinto, come la maggior parte dei matematici di allora, che una dimostrazione del controverso postulato delle parallele fosse possibile, anche se sosteneva che, per il momento, le numerose ricerche che aveva in corso non gli consentivano di dedicare molto tempo al problema. 

Solo lentamente incominciò a maturare in lui l’idea che il postulato non fosse dimostrabile e che fosse possibile una geometria diversa da quella euclidea. Così scriveva il 28 aprile 1817 da Gottinga all’amico Heinrich Olbers riguardo a un tentativo di dimostrazione del V postulato dell’allievo Friedrich Wachter, discutendo con il quale aveva coniato l’espressione “geometria anti-euclidea”:
Watcher ha stampato un piccolo articolo sui principi primi della geometria, del quale riceverete una copia da Lindenau. Per quanto Wachter sia penetrato nell’argomento più dei suoi predecessori, la sua dimostrazione tuttavia non è vincolante più di tutte le altre. Sto giungendo sempre più all’idea che la necessità della nostra geometria non può essere dimostrata, almeno non dalla mente umana, né per la ragione umana. Forse in un’altra vita giungeremo ad altre concezioni sulla natura dello spazio, che oggi ci sono irraggiungibili. Fino ad allora non si deve considerare la Geometria nello stesso rango dell’Aritmetica, che è a priori, ma piuttosto, nello stesso rango, diciamo, della Meccanica”. 
La sua prudenza, dettata anche dalla paura delle reazioni dei kantiani, allora dominanti e sostenitori dello spazio a priori, era ribadita in una lettera del 25 agosto 1818 all’astronomo e fisico Christian Gerling, del quale era stato relatore di tesi sei anni prima: 
“(…) Sono lieto che tu abbia il coraggio di esprimere le tue convinzioni che la nostra teoria delle parallele, assieme a tutta la nostra geometria, potrebbe essere falsa. Ma le vespe di cui vai a disturbare il nido ti voleranno intorno alla testa (…)” 
Abbastanza sorprendentemente, l’impulso a proseguire la ricerca in questa vita e non in un’altra doveva arrivare da un non addetto ai lavori, un giurista: Ferdinand Karl Schweikart (1780 – 1857). 


Schweikart aveva studiato legge all’università di Marburgo dal 1796 al 1798 e si era laureato a Jena. Dopo aver esercitato a Erbach tra il 1800 e il 1803, aveva fatto il tutore di aristocratici rampolli fino al 1809, anno in cui divenne professore straordinario di legge a Königsberg, dove ottenne anche una laurea in filosofia. Fu un autore molto prolifico nel suo campo, pubblicando tra l’altro un’opera sulle relazioni tra diritto naturale e diritto positivo. Quando studiava a Marburgo, aveva incominciato a interessarsi di matematica seguendo le lezioni di J.K.F. Hauff, che lo spinsero a interessarsi del problema delle parallele, che furono il soggetto della sua unica pubblicazione matematica (Die Theorie der Parallelinien, 1807). Il suo approccio iniziale al problema era rigorosamente euclideo, ma più tardi giunse a immaginare una geometria alternativa. 

Fu proprio Gerling a far conoscere a Gauss le idee coraggiose di Schweikart. Così gli scriveva da Marburgo il 25 gennaio del 1819: 
A proposito della teoria delle parallele, devo dirvi qualcosa, e onorare un impegno. Ho scoperto l’anno scorso che il mio collega Schweikart (Professore di Diritto, ora Prorettore) si è molto occupato di matematica, cioè delle parallele. Gli ho chiesto di prestarmi il suo libro. Mentre me lo prometteva, mi ha detto che ora pensava che il suo libro (1808) conteneva degli errori (egli assumeva per esempio come concetto fondamentale dei quadrilateri con tutti gli angoli uguali), ma che non aveva abbandonato il suo lavoro su questo argomento, e adesso era abbastanza convinto che, senza alcuni dati, il teorema di Euclide non può essere dimostrato, e che non gli sembrava improbabile che la nostra geometria sia solo un capitolo di uno scenario molto più generale. Gli ho riferito che voi avete sostenuto diversi anni fa che nessun progresso era stato fatto dai tempi di Euclide; infatti mi avete spesso detto che, [partendo] da diversi approcci su questo tema, anche voi non eravate stato capace di mostrare l’assurdità di tale ipotesi. Quando mi ha inviato il libro richiesto, ho trovato allegata questa nota e mi ha chiesto poco dopo (fine di dicembre) di inserirla in questa lettera, e di chiedervi a suo nome un’opinione sulle sue idee (…)”. 
Ed ecco la nota di Schweikart che Gerling fece avere a Gauss: 
“Esistono due tipi di geometria - una geometria in senso stretto, quella Euclidea; e uno studio astrale delle grandezze geometriche.  
I triangoli della seconda hanno la proprietà che la somma dei tre angoli di un triangolo non è uguale a due angoli retti.  
Ciò assunto, si può rigorosamente provare quanto segue: 
a) La somma dei tre angoli in un triangolo è minore di due angoli retti;
b) La somma diventa tanto più piccola quando più l’area del triangolo aumenta;
c) L’altezza di un triangolo rettangolo isoscele cresce quando il lato si allunga, ma non può crescere al di là di una certo segmento che io chiamo costante. 
I quadrati hanno perciò la seguente forma:  
Se per noi questa costante fosse la metà dell’asse terrestre (in modo che ogni retta disegnata da una stella fissa a un’altra, essendo distante di 90°, dovrebbe essere tangente al globo terrestre), allora sarebbe infinitamente estesa in relazione allo spazio delle cose della vita quotidiana. 
La geometria euclidea ha valore solamente assumendo che la costante sia infinitamente grande. Solo allora è vero che i tre angoli di un triangolo sono uguali a due angoli retti; anche ciò si dimostra facilmente, con l’assunzione che la costante sia infinita”. 

Non erano ancora le geometrie non euclidee di Lobachevsky e János Bolyai (il figlio di Farkas), ma era sicuramente un passo significativo in quella direzione. 

Gauss rispose a Gerling il 16 marzo successivo, in modo abbastanza ambiguo: la nota di Schweikart gli aveva procurato molta gioia ed egli chiedeva all’amico di trasmettergli i suoi migliori auguri. Tuttavia ne rilevava alcune ingenuità, come il fatto che una costante non può avere valori diversi a seconda della situazione considerata, o quella che le misure rispetto alla Terra vanno fatte da un vertice fisso, ad esempio il suo centro, e non da un punto non specificato della superficie, oppure che le relazioni tra grandezza di un triangolo e i suoi lati non hanno nulla di misterioso, ma si tratta di una semplice relazione di proporzionalità. Sottolineava inoltre di aver "sviluppato la geometria astrale da così tanto tempo da poter risolvere tutti i problemi una volta conosciuta la costante”

Nonostante tutta la spocchia del “principe dei matematici”, resta il fatto che la nota di Schweikart costituisce la prima testimonianza di una geometria iperbolica. Egli era giunto a tale idea indipendentemente da tutti coloro che si occupavano del problema delle parallele. Forse il fatto di non essere un matematico professionista gli impedì di avere a disposizione il tempo necessario per svilupparla.

I matematici italiani e le leggi razziali

$
0
0

Le premesse della discriminazione degli ebrei in Italia c'erano già tutte, soprattutto dopo le feroci campagne di stampa denigratorie organizzate a partire dal 1933 da giornalisti legati al regime fascista come Telesio Interlandi o da uomini di potere come Roberto Farinacci, eppure il Duce in persona, ancora nel febbraio 1938, dichiarava su L'informazione diplomatica che il governo non avrebbe preso misure di alcun tipo contro i cittadini di religione ebraica. Ma il legame sempre più stretto con la Germania nazista, culminato nella visita a Roma di Hitler nel mese di maggio e nella sigla l'anno successivo del Patto d'Acciaio, fecero in pochi mesi precipitare la situazione in direzione della catastrofe.

Il 24 giugno Mussolini ricevette il giovane antropologo Guido Landra, illustrandogli la propria nuova posizione circa la questione razziale, e ordinando di creare un Ufficio Studi sulla razza, con l’obiettivo di mettere a punto in pochi mesi “i punti fondamentali per iniziare la campagna razziale in Italia”. Landra si mise all’opera e, attenendosi alle direttive del Duce, redasse un decalogo destinato a essere diffuso. In seguito, Landra fu incaricato di riunire un comitato di dieci "studiosi" ideologicamente allineati, i quali accettarono di figurare come firmatari del documento.

Il 14 luglio 1938 fu pubblicato su Il Giornale d'Italia e altri organi di stampa il Manifesto degli Scienziati Razzisti, fondamento ideologico dell'antisemitismo. Il documento sosteneva l'esistenza delle razze umane e, al capitolo 9, dichiarava che :
GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
Inizialmente firmato dai dieci scienziati fascisti contattati da Landra (medici, zoologi e antropologi), il Manifesto ricevette nei giorni successivi l'adesione di altri 180 scienziati e di 140 intellettuali e uomini di cultura, fascisti e anche cattolici.

Proprio La difesa della razza si intitolava la rivista quindicinale che vide la luce il 5 agosto successivo, con una copertina che mostrava un gladio romano che separava la pura razza italica da quella giudaica e da quella africana. Diretta da Interlandi e con segretario di redazione un giovane Giorgio Almirante, la rivista, nei suoi cinque anni di vita, ospitò vari articoli di divulgazione pseudoscientifica, firmati dai fascistissimi luminari del Manifesto, ma anche da alcuni insospettabili alla luce della loro successiva carriera. Nel primo numero, si potevano leggere bestialità come queste:

 
La campagna ideologica per il razzismo precedette di poco i primi provvedimenti di legge. Con il regio decreto del 5 settembre 1938 si disponeva l’espulsione immediata di tutti gli studenti ebrei dalle scuole italiane di ogni ordine e grado, la sospensione dal servizio di tutti gli insegnanti e dei liberi docenti ebrei, nonché del personale scolastico. Il provvedimento aveva il carattere d’urgenza, in quanto all’inizio di ottobre sarebbero cominciati l’anno scolastico e quello accademico. Il successivo decreto-legge del 15 novembre ribadiva l’esclusione degli studenti, degli insegnanti e di tutti gli altri dipendenti “di razza ebraica” dalla scuole pubbliche e private e dalle università, e inoltre si faceva divieto di adottare libri di testo scritti da autori ebrei. Non era certamente un caso che la discriminazione iniziasse proprio dalla scuola, vista dal regime come strumento principale di indottrinamento dei giovani.


L’impatto di questi provvedimenti fu drammatico per la comunità ebraica: vennero espulsi 96 professori universitari e 193 assistenti, 279 presidi e professori di scuola media, più di 100 maestri elementari, 200 liberi docenti, 114 autori di libri di testo, 5400 studenti elementari e medi, 200 studenti universitari. Cominciava per gli ebrei italiani un cammino senza ritorno che li avrebbe sospinti sempre più ai margini della vita sociale e produttiva.

Ormai la macchina della persecuzione si era messa in moto. Nel regio decreto-legge del 17 novembre si proibivano i matrimoni misti, era decretata l’espulsione degli ebrei da tutti gli impieghi pubblici, si limitava il loro diritto di proprietà. Tra le poche eccezioni ai divieti c’erano i parenti dei caduti in guerra o per la causa fascista, gli iscritti al Partito nazionale fascista e tutti quegli ebrei che avevano acquisito benemerenze eccezionali, Il 22 dicembre si collocavano in congedo assoluto i militari ebrei appartenenti alle Forze Armate.

Le leggi razziali vennero applicate con particolare zelo negli istituti culturali, anche i più importanti. Molti matematici ebrei, tra i più grandi della loro generazione, furono vittime della follia razzista. Più che i loro contributi scientifici, ricordo in queste righe ciò che dovettero patire.

Ai soci ebrei dell’Accademia dei Lincei, assorbita dall’Accademia d’Italia nel 1934 per volere di Mussolini, il grande prestigio non bastò a evitare l’espulsione: il Regio Decreto del 1 dicembre dichiarava decaduti i soci ebrei dell'Accademia. Albert Einstein, membro straniero dell’Accademia sin dal 1921, venuto a conoscenza, delle leggi razziali promulgate dal Governo Italiano, scrisse il 3 ottobre 1938 una lettera nella quale chiedeva conferma di quanto appreso dai giornali. Poiché non ebbe risposta, lo scienziato tedesco inviò il 15 dicembre una seconda lettera, con la quale chiedeva di essere escluso dalla lista dei soci stranieri. Il 2 gennaio del 1939 il presidente dei Lincei, il mineralogista Federico Millosevich, rispose comunicando di prendere atto delle sue dimissioni.

Accademico dei Lincei era Guido Castelnuovo (1865 - 1952), tra i padri della geometria algebrica italiana, che fu costretto ad abbandonare ogni incarico,e tuttavia reagì, oramai settantatreenne, contribuendo all'organizzazione di corsi clandestini di livello universitario per studenti ebrei. Sfuggito ai rastrellamenti nazisti, dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944), fu nominato commissario del CNR, con il compito di avviarne la riorganizzazione dopo il periodo bellico. Componente della commissione di epurazione della ricostituita Accademia dei Lincei nel 1944-46, fu poi eletto presidente dell'organismo, carica che mantenne quasi fino alla morte. Nel 1950 era stato nominato senatore a vita.

Sua figlia Emma Castelnuovo (1913 - 2014), laureatasi in matematica nel 1936, dopo un periodo come bibliotecaria presso l'Istituto di matematica dell'Università di Roma, nell'agosto del 1938 vinse la cattedra di insegnante di scuola media ma, dopo alcuni giorni, fu sospesa dal servizio a causa delle leggi razziali. Tra il 1939 al 1943 insegnò nella scuola israelitica clandestina e poi, dopo la guerra, avrebbe contribuito al rinnovamento della didattica della geometria euclidea e della matematica in generale.


Un altro grande vecchio della matematica italiana, Vito Volterra (1860 - 1940), forse la figura più prestigiosa dell’Accademia dei Lincei negli anni Venti, venne colpito dai provvedimenti razziali. Senatore del Regno dal 1905, patriota e volontario nella Grande guerra, a Volterra il fascismo non era mai piaciuto. Nel 1931 era stato uno dei dodici professori universitari italiani a rifiutarsi di prestare il Giuramento di fedeltà al Fascismo ed era stato dispensato dal servizio per incompatibilità con le generali direttive politiche del governo. Dovette abbandonare anche le sue molte cariche nelle accademie scientifiche italiane. Costretto all’esilio, tornò in Italia poco prima di morire. Il fascismo tentò di cancellarne persino la memoria. Quando morì, l'11 ottobre 1940, la scomparsa di una delle figure più illustri della cultura italiana passò pressoché inosservata: nessuna delle istituzioni scientifiche italiane ebbe il coraggio di ricordare ufficialmente il grande matematico, uno dei principali fondatori dell'analisi funzionale e della teoria delle equazioni integrali, maestro della biologia matematica. L’unica commemorazione fu tenuta da Carlo Somigliana (1860 - 1955) nell'Accademia Pontificia di cui Volterra era membro dal 1936.


Le leggi razziali colpirono un altro grande matematico, filosofo e divulgatore di origine ebraica. Federigo Enriques (1871 - 1946), tra i più importanti esperti di geometria algebrica, fu colpito dalle leggi razziali e costretto ad abbandonare l'insegnamento e qualsiasi altro impiego di carattere culturale. Negli anni della discriminazione razziale insegnò a Roma nella scuola ebraica clandestina fondata da Guido Castelnuovo e riuscì a pubblicare alcuni articoli in forma anonima sul Periodico delle Matematiche, organo della Mathesis(di cui era stato presidente dal 1919 al 1932, opponendosi alla riforma della scuola di Giovanni Gentile perché troppo orientata verso la cultura umanistica). Durante l'occupazione tedesca visse nascosto. Tornò a insegnare all'Università nel 1944 per altri due anni fino alla morte, avvenuta a Roma il 14 giugno 1946.

Guido Fubini (1879 - 1943), noto soprattutto per il teorema in analisi matematica che ne porta il nome, considerato tra i fondatori della moderna geometria proiettiva differenziale, era prossimo alla pensione quando entrarono in vigore le leggi razziali. Temendo per sé e la famiglia, ebbe la buona idea di partire per gli Stati Uniti accettando l’invito di insegnare a Princeton. Morì a New York nel 1943.


Questo breve panorama di odiosa discriminazione si conclude con il nome di Tullio Levi Civita(1873 - 1941), i cui lavori sul calcolo tensoriale avevano contribuito alla formulazione della teoria della relatività da parte di Einstein. Membro della Royal Society inglese, accademico dei Lincei e dell’Accademia pontificia, si oppose al fascismo. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali, gli fu vietato l'accesso alla biblioteca del suo Istituto di Matematica dell'Università di Roma. Fu poi allontanato dall’insegnamento e visse isolato dalla comunità scientifica. La sua salute andò peggiorando fino alla morte, avvenuta per infarto a Roma il 29 dicembre 1941. 

A questo punto ci si potrebbe domandare quale fu l’impatto delle leggi razziali sui matematici italiani non ebrei. Ebbene, fu lo stesso che nelle altre categorie, scientifiche e non: un misto di conformismo, di pauroso silenzio, di collaborazionismo per cogliere un’occasione di carriera. Se un matematico di punta come Francesco Severi(1879 - 1961), fascista dagli anni ‘20, trovò normale, dopo aver suggerito nel 1931 il giuramento di fedeltà al regime, che il fascismo prendesse la strada del razzismo (fu lui a cacciare Levi Civita), salvo poi pentirsi dopo la guerra, altri, altrettanto bravi nella disciplina, si adeguarono al nuovo, freddo, clima. Molti di loro, riuniti il 10 dicembre 1938, dichiararono senza vergogna che: 
“La scuola matematica italiana, che ha acquistato vasta rinomanza in tutto il mondo scientifico, è quasi totalmente creazione di scienziati di razza italica” (...) “Essa, anche dopo le eliminazioni di alcuni cultori di razza ebraica, ha conservato scienziati che, per numero e qualità, bastano a mantenere mantenere elevatissimo il tono della scienza scienza matematica italiana, e maestri che con la loro intensa opera di proselitismo scientifico assicurano alla Nazione elementi degni di ricoprire tutte le cattedre necessarie”. 
Il danno che le leggi razziali portarono alla matematica italiana e alla sua immagine fu in realtà gravissimo, e la reazione internazionale non mancò di sottolinearlo. Ma di questo parlerò un’altra volta.

Il convegno che mai si fece (Schouten, Cartan e Levi Civita)

$
0
0
Una delle manifestazioni culturali di punta promosse ogni anno dal regime fascista era il Convegno Volta, la cui prima edizione si tenne nel 1931 e che, ad anni alterni, si occupava di scienza. Al consesso, organizzato dall'Accademia d'Italia e programmato nel mese di ottobre, erano invitati scienziati italiani e stranieri tra i più prestigiosi nella loro disciplina. La prima edizione, che sanciva i progressi della fisica nucleare italiana, fu organizzata da Enrico Fermi e vide la partecipazione, tra gli altri, di Niels Bohr, Guglielmo Marconi, Marie Curie. Fu in quell'occasione che si risolse la confusione terminologica riguardante le particelle neutre, assegnando il termine neutrone alla sola particella neutra presente nel nucleo, mentre per quella più piccola ed evanescente Fermi propose il nome neutrino

Il Convegno Volta del 1938, dedicato all'Africa per celebrare i recenti fasti imperiali dell'Italia, si svolse subito dopo l'introduzione delle prime leggi razziali, quelle che il 5 settembre 1938 avevano decretato l’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole italiane e la sospensione dal servizio di tutti gli insegnanti e dei liberi docenti ebrei. In realtà sul Convegno non vi furono effetti sostanziali derivanti dalla discriminazione per il semplice motivo che nessuno scienziato ebreo doveva partecipare. 

Nei primi mesi del 1939 si incominciò a organizzare il IX convegno, che doveva essere dedicato a un tema matematico, la geometria differenziale. Incominciarono a partire i primi inviti agli scienziati stranieri, naturalmente dopo aver verificato attentamente che non fossero membri della "razza ebraica". Destò ad esempio qualche dubbio il francese Cartan, che si chiamava Élie, ma si accertò che il nome giudaico era solo una coincidenza.  

Le risposte all'invito, diverse in base alle idee, al carattere e alla sensibilità degli invitati, furono varie. Il matematico olandese Jan Arnoldus Schouten (1883 - 1971), specialista di geometria differenziale e di calcolo tensoriale, professore a Delft, non usò mezze misure per far capire agli organizzatori che era stato un errore invitarlo: 
"Signori, non ho potuto rispondere immediatamente all'amichevole invito dell'Accademia Reale d'Italia a partecipare al Convegno Volta del 1939 perché volevo prima sapere se sarebbero stati invitati gli scienziati ebrei italiani e stranieri. Ho pertanto scritto personalmente al professor Severi. La sua risposta non lascia sfortunatamente alcun dubbio al riguardo. Mi vedo pertanto costretto a rifiutare il vostro amichevole invito. Vi invito tuttavia a non considerare questo rifiuto come un atto contro l'Italia: ho il più grande rispetto per la scienza italiana e i sentimenti più amichevoli per i colleghi italiani. Mi è però impossibile partecipare a un congresso sulla geometria differenziale dal quale saranno esclusi, per questioni razziali, degli intellettuali italiani e stranieri quali Tullio Levi Civita, Guido Fubini, Beniamino Segre, D. van Dantzig e Ludwig Berwald". 
La seconda risposta che qui ci interessa arrivò dalla Francia, da uno dei più grandi specialisti transalpini di geometria differenziale e di teoria dei gruppi di Lie: Élie Cartan (1869 - 1951). Con Schouten aveva pubblicato diversi articoli, e conosceva la lettera dell'olandese, che lo aveva inserito tra i destinatari per conoscenza. Dopo un po' di tempo decise di partecipare al Convegno, scrivendo al fascista Severi, unico matematico nell'Accademia d'Italia. Non è un caso che si rivolgesse direttamente a lui, perché i due si erano incontrati più volte. Insieme ad esempio avevano fatto parte della commissione che aveva assegnato le prime due medaglie Fields al Congresso di Oslo del 1936 (a Levi Civita era stata vietata la partecipazione per un’intervista rilasciata negli Stati Uniti che velatamente criticava il regime). 
"Ho l'onore di accusare il ricevimento dell'invito che mi avete fatto avere di partecipare al IX Convegno Volta che avrà luogo a Roma il prossimo ottobre. Sono molto onorato di questo invito e vi ringrazio. Parteciperò senza dubbio a questa manifestazione, salvo eventi imprevisti, e mi farà sicuramente molto piacere passare qualche giorno con i colleghi matematici di Roma". 
Non si trattava, come vedremo, di condivisione da parte di Cartan delle leggi razziali. La lettera del francese nascondeva in realtà un desiderio: poter incontrare Tullio Levi Civita. L'anno precedente l'italiano aveva inviato al francese un suo articolo, e Cartan gli aveva risposto con una lettera piuttosto lunga e più personale di quanto fosse sua abitudine scrivere. Eccone un brano: 
"Fubini, che ho visto recentemente [il matematico italiano di origine ebraica era transitato da Parigi prima di recarsi esule negli Stati Uniti], mi ha detto di numerosi nostri amici matematici italiani. È inutile dirvi quali siano i miei sentimenti. Spero che la signora Levi Civita e voi siate in buona salute e abbiate approfittato delle vacanze". 
Levi Civita, che aveva letto la lettera di Schouten perché era il secondo destinatario per conoscenza, rispose a Cartan dicendo: 
"[A voi vadano] Tutti i miei ringraziamenti per la simpatia che mi esprimete a seguito delle recenti manifestazioni antisemite. Fino ad ora non so nulla di ufficiale, ma ho già saputo abbastanza, o direi piuttosto troppo, dai giornali". 
Il IX Convegno Volta alla fine non si fece, perché il primo settembre era scoppiata la guerra e molti invitati dei paesi belligeranti erano impossibilitati a partecipare. Levi Civita morì alla fine del '41, ignorato dal mondo accademico italiano. La notizia della sua morte raggiunse Parigi solo nel luglio del 1942. Poiché era membro dell'Accademia di Francia, si decise di commemorarlo il 18 settembre, con un ricordo scritto proprio da Cartan. Anche in Francia erano entrate in vigore le leggi razziali, ma un ebreo morto si poteva pur ricordarlo: 
"Ma ciò che ha permesso alla fama del nostro confratello di uscire dal cerchio degli specialisti è il ruolo che ha giocato nella storia del calcolo differenziale assoluto, sono le numerose applicazioni che ne ha ottenuto". 
Dopo la guerra fu ritrovato il testo dell'intervento di Cartan previsto per il Convegno Volta: nell'introduzione era pieno di elogi per i lavori di Levi Civita.

Riferimento:



Vaccinismi

$
0
0


C’era un cocciuto signore di Tolentino 
che non volle vaccinare il suo bambino, 
ma un rio bacillo 
gli portò il morbillo: 
povero bambino del cretino di Tolentino! 

---

 Se si va all’Equatore per lavoro o per baldorie 
bisogna fare le vaccinazioni obbligatorie. 
Non è una fissazione, 
ma normale prevenzione. 
Chi è contrario vada invece a Medjugorie. 

---

Brandendo il suo bio-credo come un'arma 
un tizio denunciava il complotto di Big Pharma: 
morì vicino a Piacenza 
per le complicanze d’una influenza. 
Bastava un’Aspirina, ma era il suo karma,

Il contratto per i lavori di costruzione di Auschwitz III

$
0
0
"Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Häftlinge [= prigionieri, internati] privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. Di più, alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo di otto, all’estremità est del campo, costituisce l’infermeria e l’ambulatorio; v’è poi il Block 24 che è il Krätzeblock, riservato agli scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Häftlinge è mai entrato, riservato alla Prominenz, cioè all’aristocrazia, agli internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche (gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos; il Block 12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos, funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida, e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria centrale e l’Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che ha le finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo, servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato ai Reichsdeutsche.
I comuni Blocks di abitazione (baracche) sono divisi in due locali; in uno (Tagesraum) vive il capobaracca con i suoi amici: v’è un lungo tavolo, sedie, panche; ovunque una quantità di strani oggetti dai colori vivaci, fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori finti, soprammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole inneggianti all’ordine, alla disciplina, all’igiene; in un angolo, una vetrina con gli attrezzi del Blockfrisör (barbiere autorizzato), i mestoli per distribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima.

L’altro locale è il dormitorio; non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare in un Block a cui non si appartiene.
In mezzo al Lager c’è la piazza dell’Appello, vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell’Appello c’è una aiuola dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre." (P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1983)

L’organizzatissima struttura di lavoro coatto e di morte descritta da Primo Levi, deportato in quell’inferno nel 1944, è Auschwitz III, il campo satellite, situato a circa 7 chilometri da lager principale, vicino alla sede dell’insediamento industriale di Buna a Monowice, in cui si utilizzavano i prigionieri come schiavi per la costruzione di uno stabilimento per la produzione della gomma sintetica.
“Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna.”
Buna era l’acronimo di Butadien-Natrium-Prozess, cioè il procedimento che aveva portato nel 1937-38 alla prima sintesi industriale del polibutadiene mediante la polimerizzazione anionica con il sodio come iniziatore radicalico e aveva consentito di produrre una gomma sintetica strutturalmente analoga a quella naturale. 


L’insediamento industriale, in allestimento dall’ottobre 1942, era stato voluto dal potentissimo e nazistissimo conglomerato chimico I.G. Farben, per poter trarre vantaggio dal costo del lavoro quasi nullo e dalle vicine miniere di carbone slesiane. La società aveva investito nell’impresa enormi capitali. Si trattava della più grande fabbrica chimica in costruzione all'epoca.
“La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto”.
Le condizioni disumane di vita e lavoro per la costruzione e l’allestimento dell’impianto costarono la vita a un numero di deportati superiore ai 10 mila su un totale di circa 35 mila addetti, anche se la Buna Werke non entrò mai in produzione:
“Come diremo, dalla fabbrica di Buma, attorno a cui per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscì mai un chilogrammo di gomma sintetica”.
Infatti il sito fu pesantemente bombardato più volte nel 1944 e le contingenze militari per il Reich si fecero sempre più sfavorevoli. Il campo fu liberato dall’Armata Rossa (non dagli americani, Benigni!) il 27 gennaio 1945, dopo che l’evacuazione forzata degli internati nel gelo aveva provocato altre migliaia di vittime.


Il massacro fu tutta colpa dei tedeschi? Gli italiani “brava gente” erano del tutto ignari di ciò che si stava realizzando a Buna? Il fascismo non ebbe responsabilità dirette e indirette nella Shoah? No di sicuro, e possiamo portare una piccola ulteriore prova del coinvolgimento italiano nell’olocausto già prima della caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e della nascita successiva della asservita e collaborazionista Repubblica Sociale Italiana.

L’amico americano John F. Ptak, che si schermisce quando lo definisco “il miglior libraio scientifico esistente” ha pubblicato infatti tempo fa sul suo sito un articolo riguardante un fascicoletto di fogli in carta sottile intitolato Contratto per l’esecuzione di lavori di costruzione in partecipazione con imprese germaniche, nei cantieri di Heydebrek, Blechhammer e Auschwitz. L’atto fu stipulato nel marzo 1942 tra la I.G. Farben e la Confederazione Fascista degli Industriali per i lavori di edificazione dell’impianto di Buna così come di altre vicine strutture industriali a Heydebrek e Blechhammer (dove si dovevano costruire stabilimenti di gruppi come AEG, Uhde e Dyckerhoff). Il contratto fu pubblicato dalla Tipografia del Gianicolo di Roma per conto della Confederazione Fascista degli Industriali, Federazione Nazionale Fascista, Raggruppamento Germania. Il documento consta di 29 pagine, con fogli approssimativamente della dimensione A4. Dopo la guerra fu acquisito dalla Libreria del Congresso (che la ricevette il 12 luglio 1945), e successivamente venduto a John alla fine del 1999.

Una delle cose che più colpisce il lettore è il modo in cui vengono descritti con fredda precisione sia gli impianti industriali sia i campi dei prigionieri e le strutture per lo sterminio di massa. Dietro quelle righe anodine c’è l’orrore di uno dei crimini più grandi commessi dall’uomo sull’uomo, assurto forse alla rappresentazione stessa del Male. Il contratto elenca il numero degli addetti tedeschi e italiani, tecnici e operai non internati, descrive i loro alloggiamenti, il loro salario, gli incentivi, le pause, i periodi di riposo e di vacanza, le assicurazioni, il trattamento delle malattie e degli infortuni, ecc. e tutti i consueti particolari del lavoro in un grande progetto industriale. Morte e lavoro trattati con lo stesso burocratico scrupolo.

In calce compaiono i nomi dei firmatari dell’accordo per ciascuna delle parti: 
A) per IG Farbenindustrie AG, Heydebreck, Heydebreck OS: Adolf Mueller e (Hans) Deichmann. Quest’ultimo fu il legale rappresentante della IG Farben per l’Italia tra il 1942 e il 1945. Nel 1942 era incaricato di reclutare gli operai italiani per la costruzione dei campi di lavoro indicati; 
B) per Oberschleische Hydrierwerke AG, Blechhammer, Kreis-Consei: Schlick
C) per IG Farbenindustrie AGl Auschwitz, Auschwitz OS: Adolf Mueller e (Hans) Deichman.

Le firme dei rappresentanti italiani per la Confederazione Fascista degli Industriali sono quelle di Aurelio Aureli (presidente) e Giacomo Milella (direttore). L’ingegner Aurelio Aureli (1896-1950), il mese successivo alla firma del contratto con i tedeschi, il 23 aprile 1942, fu nominato Cavaliere del Lavoro (Brevetto n. 1162). La sua scheda sul sito della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro recita che:
“Laureatosi in ingegneria, fondò una sua ditta di costruzioni. Realizzò numerose opere in molte altre città italiane e a Roma, dove in particolare costruì il ponte Duca d'Aosta sul Tevere, uno dei più conosciuti della capitale. Alla grande capacità progettuale e alla competenza tecnica univa grandi doti di organizzatore. Ricoprì numerosi incarichi, fra i quali quello di presidente dell'Istituto case popolari e di presidente della Federazione nazionale fascista costruttori. In quest'ultima veste rappresentò varie volte il governo italiano e firmò alcuni protocolli d'intesa (…) Per favorire lo sviluppo delle conoscenze tecniche nel settore, fondò l'Istituto di studi e sperimentazione dell'industria edilizia, di cui fu per molti anni presidente”.
Un pezzo grosso del regime, insomma, specializzato nella costruzione di ponti (ne aveva costruiti anche a Siracusa e a Parma), pontiere anche negli accordi internazionali con altre potenze dell’Asse per la costruzione di opere edili (in Bulgaria, Albania, nella Grecia occupata dai nazisti). Era dotato di indubbie capacità organizzative, visto che seppe coinvolgere nel progetto di Buna imprese e lavoratori di tutta Italia, come risulta dalle pagine del contratto. In quell’impresa maledetta, con decine di migliaia di altri disgraziati, sarebbe stato coinvolto suo malgrado anche Primo Levi.






Einstein cosmologo, e un manoscritto inedito

$
0
0
ResearchBlogging.org
Poco dopo la formulazione della teoria generale della relatività (1916), Einstein applicò la sua nuova teoria all’intero universo, soprattutto allo scopo di chiarirne i fondamenti, cioè di stabilire “se il concetto di relatività può essere applicato fino in fondo o se porta a contraddizioni”. Ipotizzando un cosmo statico nel tempo e che una teoria gravitazionale consistente dovesse incorporare il “principio” di Mach, secondo il quale l'inerzia di ogni sistema è il risultato dell'interazione del sistema stesso con il resto dell'universo e non può esistere uno spazio privo di materia, Einstein ritenne necessario aggiungere un nuovo termine alle equazioni generali di campo, allo scopo di predire un universo con una densità media di materia non nulla – la famosa “costante cosmologica”. Con la scelta di questa costante, Einstein fu condotto a un modello di un universo statico, finito, di geometria spaziale sferica, il cui raggio era direttamente legato alla densità di materia. 

Nello stesso anno (1917), l’olandese Willem de Sitter propose un modello relativistico alternativo dell’universo, cioè quello di un universo statico privo di materia. Einstein fu molto colpito dalla soluzione di de Sitter, in quando essa suggeriva una metrica dello spazio-tempo indipendente dalla materia contenuta, in conflitto con il principio di Mach secondo l’interpretazione di Einstein. Il modello di de Sitter fu causa di un certo scompiglio tra i fisici teorici per qualche anno, fino a che si comprese che esso non era statico. Ciò nonostante, la soluzione attrasse un certo interesse negli anni ’20 perché prediceva che la radiazione emessa da particelle di prova inserite nell’universo “vuoto” avrebbe subito un redshift, in perfetto accordo con le osservazioni astronomiche contemporanee di Vesto Slipher sui redshift delle galassie a spirale. 

Nel 1922 il giovane fisico russo Alexander Friedman suggerì che si dovessero considerare soluzioni non stazionarie alle equazioni di campo di Einstein nei modelli relativistici dell’universo. Con un secondo articolo, nel 1924, Friedman esplorò quasi tutte le principali possibilità teoriche e la geometria per l’evoluzione dell’universo. Einstein non accolse favorevolmente i modelli di Friedman di un universo in evoluzione nel tempo. La sua prima reazione fu di pensare a un errore matematico del russo. Quando Friedman dimostrò che l’errore era invece nella correzione di Einstein, egli opportunamente la ritrattò. Tuttavia, una bozza inedita della ritrattazione (1923) evidenzia che Einstein considerava irrealistici i modelli di universo variabile nel tempo, “ai quali si può attribuire a fatica un significato fisico”

Ignaro delle analisi di Friedman, il belga Georges Lemaître propose nel 1927 un modello di universo in espansione. Egli conosceva le osservazioni astronomiche di Sipher e le misure di Hubble delle grandi distanze delle galassie. Interpretando i redshit di Slipher come un’espansione relativistica dello spazio, Lemaître derivò dalle equazioni di campo di Einstein un universo in espansione, stimando un tasso di espansione cosmica dai valori medi delle velocità e delle distanze delle galassie ricavati rispettivamente da Slipher e Hubble. L’articolo di Lemaître, pubblicato in francese su una poco conosciuta rivista scientifica, ricevette poca attenzione (e, come ho già discusso, Hubble fece in modo che continuasse a essere ignorato). Tuttavia, il belga discusse il suo modello personalmente con Einstein durante la conferenza di Solvay del 1927, ottenendo solo una critica con il franco commento: “Vos calculs sont corrects, mais votre physique est abominable”


Nel 1929 Hubble pubblicò la prima prova empirica di una relazione diretta tra i redshift delle galassie a spirale e la loro distanza radiale. In quella periodo era stato anche stabilito che i modelli statici presentavano problemi di natura teorica: quello di Einstein non era stabile, quello di de Sitter non era statico. Come conseguenza, il concetto di espansione cosmica relativistica fu preso in seria considerazione, e furono proposti diversi modelli di universo variabile nel tempo del tipo di quelli di Friedman e Lemaître. 

Dal 1931 Einstein incominciò ad accettare l’universo dinamico. Durante un soggiorno di tre mesi al Caltech di Pasadena all’inizio di quell’anno, un viaggio che comprendeva un convegno con gli astronomi dell’osservatorio del Mount Wilson e discussioni frequenti con il teorico del Caltech Richard Tolman, egli fece diverse dichiarazioni pubbliche su come le osservazioni di Hubble potessero essere considerate una ragionevole prova di un’espansione cosmica. Ad esempio, il New York Times riferì il commento di Einstein secondo il quale “Le nuove osservazioni di Hubble e Humason riguardo al redshift della luce nelle galassie lontane rendono più probabile la congettura che la struttura generale dell’universo non sia statica” e “Il redshift delle galassie lontane ha demolito la mia vecchia costruzione come un colpo di martello”. Non molto più tardi, Einstein pubblicò due distinti modelli dinamici del cosmo, il modello Friedman-Einstein del 1931 e il modello Einstein-de Sitter del 1932. 


Scritto nell’aprile 1931, il modello Friedman-Einstein segnò la prima pubblicazione scientifica in cui Einstein abbandonò formalmente l’universo statico. Citando le osservazioni di Hubble, Einstein sosteneva che l’ipotesi di un universo statico non era più giustificata: “Ora che è divenuto chiaro dai risultati di Hubbel [sic] che le nebule extra-galattiche [cioè le galassie esterne alla Via Lattea, diremmo oggi] sono distribuite dovunque nello spazio e hanno moto dilatatorio (almeno se i loro sistematici redshift sono da interpretare come effetti Doppler), l’ipotesi di una natura statica dello spazio non ha più alcuna giustificazione”. Adottando l’analisi di Friedman del 1932 di un universo con un raggio variabile nel tempo e con curvatura spaziale positiva, Einstein rimosse anche la costante cosmologica che aveva introdotto nel 1917, sulla basi che essa era ora sia insoddisfacente (dava una soluzione instabile), sia inutile: “In queste condizioni, ci si deve chiedere se si possono giustificare i fatti senza l’introduzione del termine λ, che è in ogni caso teoricamente inadeguato”. Il modello risultante prediceva un universo che doveva subire un’espansione seguita da una contrazione,. Einstein fece uso delle osservazioni di Hubble per ricavare stime dell’attuale raggio dell’universo, della densità media della materia e della durata dell’espansione. Rilevando che quest’ultima stima era minore che le età delle stelle stimate dagli astrofisici, Einstein attribuì il paradosso a errori introdotti dalle ipotesi semplificative dei modelli, in particolare quella dell’omogeneità. 

All’inizio del 1932 Einstein e Willem de Sitter si trovavano entrambi al Caltech di Pasadena, e approfittarono dell’occasione per esplorare un nuovo modello dinamico dell’universo. Questo modello era basato sull’idea che una finita densità di materia in un universo non statico non richiede necessariamente una curvatura dello spazio. Consapevoli della mancanza di prove empiriche della curvatura spaziale, Einstein e de Sitter fissarono questo parametro a zero. Avendo rimosso sia la costante cosmologica sia la curvatura spaziale, il modello risultante descriveva un universo con geometria euclidea, in cui la velocità di espansione h era legata alla densità media di materia ρ dalla semplice relazione h2 = 1/3 κρ, con κ costante di Einstein. Applicando il valore di Hubble di 500 Km s–1 Mpc–1 per la velocità di recessione delle galassie, gli autori calcolarono un valore di 4×10–28 g.cm–3 per la densità media della materia, un valore che non era incompatibile con le stime dell’astronomia. 


Il modello Einstein-de Sitter rivestì un ruolo significativo nello sviluppo della cosmologia del XX secolo. Una motivo fu che esso marcò un importante caso ipotetico in cui l’espansione dell’universo era bilanciata perfettamente da una densità critica di materia: un universo con una più bassa densità di massa avrebbe geometria iperbolica e si espanderebbe con velocità sempre crescente, mentre un cosmo con una più alta densità di massa avrebbe geometria sferica e alla fine collasserebbe. Un altro motivo era la grande semplicità del modello: in assenza di qualsiasi prova empirica di curvatura spaziale o di costante cosmologica, non c’era motivo di rivolgersi a modelli più complicati (la prova empirica di una costante cosmologica positiva non sarebbe emersa che nel 1992, mentre non è ancora stata rilevata alcuna evidenza di una curvatura dello spazio). Mentre nel succinto articolo dei due fisici la durata dell’espansione non era considerata, questo aspetto del modello fu considerato da Einstein l’anno successivo. Rilevando ancora che il tempo di espansione era minore dell’età stimata delle stelle, egli attribuì di nuovo il problema alle ipotesi semplificative del modello. 

Il modello Einstein-de Sitter segnò l’ultimo contributo originale di Einstein alla cosmologia; egli non pubblicò più alcun nuovo modello cosmologico oltre questi. 

Si è tuttavia recentemente scoperto che Albert Einstein aveva esplorato l’ipotesi di un modello di stato stazionario dell’universo poco prima di pubblicare i due modelli del 1931-1932 e quasi vent’anni prima che la teoria venisse proposta da Fred Hoyle e, indipendentemente, da Hermann Bondi e Thomas Gold nel 1948. Un manoscritto dell’Albert Einstein Online Archive, intitolato Zum kosmologischen Problem e inizialmente scambiato per la bozza di un altro documento, dimostra che il fisico tedesco considerò la possibilità di un universo che si espande ma rimane sostanzialmente invariato a causa della continua formazione di materia dallo spazio vuoto. Diversi aspetti del documento indicano che fu scritto nei primi mesi del 1931, durante il primo viaggio di Einstein in California. Perciò l’articolo rappresenta probabilmente il suo primo tentativo di elaborare un modello cosmologico dopo le prove emergenti di un universo in espansione. Egli abbandonò l’idea quando si rese conto che la sua specifica teoria dello stato stazionario portava a una soluzione nulla. 


Il documento inizia con il richiamo di Einstein del noto problema del collasso gravitazionale in un universo newtoniano. Il punto di partenza è simile a quello del modello statico da lui proposto nel 1917, anche se ora è integrato da un riferimento all’opera di Hugo von Seeliger (1895) il quale, per affrontare il problema che le leggi gravitazionali non sono consistenti con una densità di materia media finita, aveva introdotto nella legge di Newton una funzione di correzione che, al crescere della distanza, diminuiva più velocemente dell’inverso del suo quadrato. Einstein sottolinea che un problema analogo sorge nei modelli relativistici dell’universo, e ricorda la sua introduzione della costante cosmologica λ nelle equazioni del campo relativistico per renderle compatibili con un universo statico con raggio e densità di materia costanti. 

Nella parte successiva del manoscritto, Einstein sostiene che questo modello statico ora non sembra più realistico. Due sono le ragioni principali di questo mutamento d’opinione: 

1) L’esistenza di soluzioni dinamiche e l’instabilità del suo modello. Dal manoscritto non risulta tuttavia chiaro se egli fosse al corrente dei modelli di Friedman e Lemaître. Einstein poi non cita l’articolo di Eddington del 1930 che aveva dimostrato l’instabilità del suo modello. 

2) Le osservazioni astronomiche di Edwin Hubble, che hanno mostrato la distribuzione uniforme delle galassie e il loro redshift. Anche in questo caso il manoscritto, in cui il nome di Hubble è costantemente scritto erratamente (Hubbel), sembra indicare una certa poca famigliarità con le opere dell’americano. Einstein inoltre non parla direttamente di redshift, ma preferisce parlare di effetto Doppler proporzionale alla distanza delle galassie. 

Sottolineando che i modelli dinamici di de Sitter e Tolman sono compatibili con le osservazioni di Hubble, Einstein indica che essi predicono un’età dell’universo di 1010 - 1011 che è problematica e, “per vari motivi, inaccettabile”. Si noti ancora che non c’è alcun riferimento ai modelli dinamici di Friedman e Lemaître e che i “vari motivi” non sono specificati, anche se sembra probabile che egli si riferisca all’età prevista dai modelli dinamici, che sembra inferiore a quella attribuita alle stelle dagli astrofisici. 

Nella terza parte del manoscritto, Einstein esamina una soluzione alternativa per le equazioni di campo che possa essere compatibile con le osservazioni di Hubble, vale a dire con un universo in espansione in cui la densità di materia non muta nel tempo. Egli fa riferimento a uno “schema generale di Tolman”, probabilmente un articolo del 1930 in cui il fisico del Caltech suggeriva che l’espansione cosmica possa derivare da una continua trasformazione di materia in radiazione.


L’analisi di Einstein parte dall’ipotesi di una metrica euclidea dello spazio che si espande esponenzialmente (è la metrica di de Sitter). Tale ipotesi è compatibile con un tasso costante di creazione di materia e con “l’effetto Doppler di Hubbel”. Tale metrica è costante nel tempo. Einstein deduce una relazione tra il coefficiente di espansione α e la densità di materia ρ, concludendo che quest’ultima rimane costante “e determina l’espansione indipendentemente dal suo segno”. Egli commette però un errore di derivazione, in quanto dalle sue premesse avrebbe dovuto ottenere una densità di materia nulla. 

Nella parte conclusiva del documento Einstein propone un meccanismo che consenta alla densità di materia di rimanere costante in un universo di raggio crescente: la continua formazione di materia dallo spazio vuoto. Questa idea anticipa il campo ad energia e pressione negativa (C-field, campo di creazione) che Fred Hoyle avrebbe introdotto nel 1948 nelle equazioni di campo per dar conto dell’ipotesi di un universo reso stazionario dall’espansione e dalla contemporanea e costante creazione di materia dal nulla; Einstein invece non modifica le sue equazioni, convinto che la modifica della costante cosmologica garantisca che lo spazio non sia vuoto d’energia e di conseguenza la continua formazione di materia. 

Il modello di Einstein è tuttavia errato, in quanto la mancanza di uno specifico termine per rappresentare la creazione di materia porta alla soluzione nulla ρ = 0. È evidente dal manoscritto che egli riconobbe questo problema durante la revisione e sembra che abbia abbandonato l’idea piuttosto che considerare soluzioni più sofisticate per lo stato stazionario. 

Non è sorprendente che il fisico tedesco abbia esplorato l’ipotesi dello stato stazionario, più simile alla sua iniziale idea di un universo statico, prima di accettare pragmaticamente i modelli dinamici, da lui inizialmente avversati. L’universo in espansione non comportava, come Einstein scoprì nel manoscritto, alcuna variazione delle equazioni di campo, e non richiedeva l’introduzione di una costante cosmologica. Ed egli preferiva sempre le soluzioni più semplici. Quando gli fu chiesto di commentare il modello cosmologico dello stato stazionario proposto da Hoyle, egli lo bollò come una “speculazione romantica”.

Cormac O'Raifeartaigh (2015). A new perspective on Einstein's philosophy of cosmology To be published in the 'Proceedings of the 2014 Institute of Physics International Conference on the History of Physics', Cambridge University Press arXiv: 1504.02873v1

Eureka!: l’universo in evoluzione di Edgar Allan Poe

$
0
0
ResearchBlogging.orgIl 19 aprile 1610, Keplero, senza nemmeno aver verificato le scoperte comunicate nel Sidereus nuncius di Galileo, pubblicato solo da alcune settimane, inoltrò allo scienziato italiano, tramite l'ambasciatore di Toscana, una lunga lettera di approvazione e commento. Essa fu poi pubblicata a Praga nei primi giorni di maggio, con notevoli varianti ed ampliamenti, con il titolo Dissertatio cum Nuncio Sidereo. Nella sua ampollosa prosa latina, il tedesco pose per primo una domanda apparentemente banale, soprattutto in quei tempi senza inquinamento luminoso: “Perché il cielo notturno è buio?”. Egli sapeva che la risposta altrettanto banale, e cioè “Perché di notte non c’è la luce del Sole”, non è scontata. 


Keplero era un convinto assertore della finitezza dell’universo. Egli utilizzò la domanda come argomento contro l’idea di un universo infinito con un numero infinito di stelle. Se l’universo fosse pieno di stelle come il nostro Sole e si estendesse senza fine, allora, sosteneva, “l’intera volta celeste sarebbe luminosa come il Sole (…) questo nostro mondo non appartiene a uno sciame indifferenziato di innumerevoli altri”. Se le stelle fossero infinite e disposte in ogni punto della volta celeste, allora il nostro sguardo dovrebbe incontrare in ogni caso le loro luci, sia di giorno che di notte. 


La domanda di Keplero prende oggi il nome di “Paradosso di Olbers”, dal nome dell’astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers, che lo espose nel 1826. La sua domanda “come è possibile che il cielo notturno sia buio nonostante l'infinità di stelle presenti nell'universo?” supponeva alcune qualità dell’universo che la cosmologia del suo tempo, sulla scorta del sistema di Newton, dava per scontate: l’universo è infinito (la sua estensione spaziale non ha limiti), eterno (esiste da sempre), immutabile (non si evolve e non si è evoluto verso condizioni differenti da quelle che osserviamo), omogeneo e isotropo (in esso le stelle sono distribuite più o meno uniformemente). Dato che le stelle sono distribuite in modo uniforme e sono in numero infinito, la loro luce dovrebbe brillare in tutto il cielo, rendendo indistinguibile persino la luce del Sole. Olbers pensava che una qualche forma di polvere o gas interstellare intercettasse la luce delle stelle prima del suo arrivo sul nostro pianeta, ma ignorava che l’energia assorbita dalle particelle di materia le avrebbe in questo caso scaldate fino a renderle a loro volta incandescenti e sorgenti di energia radiante, magari di lunghezza d’onda differente. Insomma, il paradosso di Olbers era una sfida per l’infinità, l’immutabilità e l’omogeneità dell’universo. 

L’astronomia alla metà dell’800 era essenzialmente osservazionale. Era lo studio di comete, stelle binarie, “nebulae”, cataloghi di stelle. Nel 1838 Friedrich Bessel era stato il primo a misurare le distanze tra le stelle, nel 1846 Johann Gottfried Galle scoprì Nettuno basandosi sui calcoli di Urbain Le Verrier, e il grande telescopio a riflessione di Lord Rosse permise di osservare la galassia di Orione e qualche anno più tardi inquadrò e rese popolare la galassia Vortice M51. Queste scoperte, rese possibili dal progredire delle tecniche di osservazione, incominciarono a mettere in discussione l’omogeneità dell’universo: le stelle non sono distribuite in modo uniforme, ma appartengono a sistemi che oggi sappiamo essere le galassie, che a loro volta possono appartenere a sistemi più grandi, come era già stato intuito da Kant. Nel 1848 William Herschel, recensendo il volume Kosmos di Alexander Von Humboldt, accennò alla possibilità di una struttura gerarchica dei corpi celesti come possibile soluzione al paradosso del cielo notturno. Anche se le stelle sono infinite non necessariamente il cielo deve essere luminoso in ogni punto nel modo prospettato da Olbers. La disposizione disomogenea dei corpi celesti lascia grandi spazi vuoti che noi vediamo bui.


Curiosamente, una moderna visione dell’evoluzione dell’universo, che spiegava la sua disomogeneità e forniva una soluzione del paradosso di Olbers, non fu proposta da uno scienziato, ma da uno scrittore che aveva dichiarato di non amare la scienza, pur avendo una buona conoscenza dell'astronomia della sua epoca. Nel 1848, infatti, Edgar Allan Poe pubblicò Eureka, visionario, metafisico e stravagante “poema in prosa” in cui abbondano riferimenti diretti e indiretti alle opere di alcuni tra i principali astronomi del XIX secolo (l’opera è dedicata proprio ad Alexander Von Humboldt). 

Secondo lo scrittore americano, nell’universo agiscono solo due principi, l’attrazione e la repulsione, che egli vede non solo come forze reali, ma anche come entità metafisiche: 
“Non esiste altro principio. Tutti i fenomeni sono riferibili o all’uno o all’altro, o alla combinazione di entrambi. (…) L’attrazione e la repulsione sono le uniche proprietà attraverso le quali percepiamo l’Universo – in altre parole, con le quali la Materia è manifestata alla Mente – [al punto che] siamo autorizzati a pensare che la materia esiste solamente come attrazione e repulsione, che esse sono la materia, non esistendo alcun caso concepibile in cui non potremmo utilizzare la parola “materia” e le parole “attrazione” e “repulsione”, considerate assieme, come equivalenti, e perciò scambiabili, nella Logica”. 

Poe attribuisce la nascita dell'universo alla frammentazione di una particella primitiva; una volta esauritasi l'azione della forza repulsiva iniziale, gli atomi diffusi nello spazio avrebbero cominciato ad attrarsi reciprocamente e a formare le stelle e i sistemi stellari: 
“Sono pienamente giustificato nel sostenere che la Legge che abbiamo chiamato Gravità esiste a causa del fatto che la Materia è stata irradiata, alla sua origine, atomicamente, in una sfera di Spazio limitata, da una, singola, incondizionata, irrelata, e assoluta Particella Propria, dall’unico processo in cui era possibile soddisfare, contemporaneamente, le due condizioni: irradiazione e distribuzione generalmente uniforme in tutta la sfera, cioè da una forza direttamente proporzionale ai quadrati delle distanze tra gli atomi irradiati, rispettivamente, e il Particolare centro di Irradiazione”. 
Non ci si può esimere dal notare come Poe anticipi di tre quarti di secolo le intuizioni di Georges Lemaître riguardo a ciò che sarebbe stato chiamato Big Bang. 

Gran parte degli oggetti che ai suoi tempi erano chiamati nebulae (nebulose) ed erano considerati ammassi di gas, per Poe si devono pensare fatti nello stesso modo della nostra Galassia: sono altre galassie, esterne alla Via Lattea: 
“L’osservazione telescopica, guidata dalle leggi della prospettiva, ci autorizza a concepire che l’Universo percepibile esiste come un ammasso di ammassi, disposti in modo irregolare. Gli ammassi di cui è fatto questo “ammasso di ammassi” universale sono ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare “nebulae”, e, di queste “nebulae” una è di sommo interesse per l’umanità. Alludo alla Galassia, o Via Lattea”. 

L'insieme di questi sistemi stellari, ciascuno dei quali è, in termini moderni, una galassia, è destinato a collassare a causa della gravità e a tornare all'unità primordiale, in una sorta di “respiro di Dio”, alternarsi di espansione e contrazione (qui troviamo anticipato il modello del Big Crunch). Poe pensa erroneamente che questa fase di contrazione sia già in atto: 
“Si vede sempre un nucleo nella direzione in cui le stelle sembrano precipitare, e non si può scambiarli per meri fenomeni prospettici: gli ammassi sono realmente più densi presso il centro, più radi nelle regioni più lontane da esso. In poche parole, vediamo ogni cosa come se stesse verificandosi un collasso”. 
Nel sostenere il suo modello dinamico, egli si avventura a criticare le idee di John Herschel (il figlio di William, anch’egli astronomo): 
“Da parte di Herschel [John] c’è evidentemente una riluttanza a considerare le nebulae come “in uno stato di progressivo collasso” (…) Perché è così poco disposto ad ammetterlo? Semplicemente a causa di un pregiudizio; solo perché l’ipotesi è in conflitto con un’idea preconcetta e totalmente infondata: quella dell’infinitezza, quella dell’eterna stabilità dell’Universo”. 
Per Poe la gravità è la forza principale che modella il mondo fisico in questa fase della sua storia. Nell’opera egli cita gli esperimenti di Maskelyne, Cavendish e Bailly, che avevano misurato l’attrazione gravitazionale della massa del monte scozzese Schiehallion e scoperto che essa era in accordo con la legge di Newton. Egli va oltre, nel tentativo di cogliere la natura profonda della gravitazione: 
“Che cosa dice la legge di Newton? (…) Ogni atomo di ogni corpo attrae ogni altro atomo, sia del proprio sia di ogni altro corpo, con una forza che varia inversamente con i quadrati delle distanze tra l’atomo attratto e quello che attrae. Qui, sicuramente, un diluvio di idee inonda la mente. (…) Niente impedisce l’aggregazione di varie masse distinte, in diversi punti dello spazio”. 

La gravità agisce in modo universale, su tutta la materia, e permette la sua aggregazione: un corpo che cade sulla terra non è soggetto solo all’attrazione gravitazionale del pianeta, ma su di esso agiscono, secondo le modalità stabilite dalla legge di Newton, le forze attrattive di tutte le particelle di materia presenti nell’universo fisico. 

Egli giudica “insostenibile e tuttavia così pertinacemente seguita” l’idea che l’universo sia illimitato, innanzitutto sul piano filosofico: 
(...) come individuo, posso essere autorizzato a dire che non posso concepire l’Infinito, e sono convinto che nessun essere umano lo possa fare. Lo farà una mente non pienamente cosciente di se stessa – non abituata all’analisi introspettiva del suo stesso funzionamento”. 
Il secondo motivo è empirico: 
“Tutta l’osservazione del Firmamento rifiuta l’idea dell’assoluta infinità dell’Universo delle stelle” (…) “l’osservazione ci dimostra che c’è certamente, in numerose direzioni attorno a noi se non in tutte, un limite positivo, o, almeno, non ci fornisce alcuna prova per pensare altrimenti”. 
Poe pensa a una dimensione dell’universo di circa 3 milioni di anni luce, come stimato da William Herschel sulla base della magnitudine massima degli oggetti che era in grado di vedere con il suo telescopio: 
Così lontane da noi sono alcune delle “nebulae” che anche la luce, viaggiando alla sua velocità, non potrebbe e non può raggiungerci, da quelle misteriose regioni, in meno di tre milioni d’anni. Questo calcolo è stato fatto dal vecchio Herschel”. 
Per quei tempi si trattava di una dimensione così grande da non trovare consenso, e fu abbandonata dallo stesso Herschel negli anni successivi. Nella concezione di Poe, la dimensione dell’universo è il risultato dell’irradiazione (espansione) cosmologica ed è necessaria per consentire la formazione delle stelle, dei sistemi solari e della vita. Essa fornisce anche una spiegazione per i grandi spazi vuoti osservati: 
“La difficoltà che abbiamo così spesso sperimentato, percorrendo il sentiero battuto della speculazione astronomica, è di spiegare gli immensi vuoti di cui si è detto, nel capire il perché abissi così totalmente inoccupati e perciò così apparentemente inutili si frappongono tra stella e stella, tra ammasso e ammasso, nel capire un motivo sufficiente per la scala titanica, in rapporto al mero Spazio, con la quale l’Universo si vede costituito. Sono convinto che l’Astronomia ha palpabilmente fallito nel trovare una causa razionale per il fenomeno, ma le considerazioni che, in questo Saggio, abbiamo fornito passo dopo passo, ci consentono chiaramente e immediatamente di percepire che lo Spazio e la Durata sono una cosa sola”. 

Poe conosce chiaramente la distanza misurata da un anno luce e le implicazioni del tempo di percorrenza della luce: 
“Ci sono “nebulae” che, attraverso il magico telescopio di Lord Rosse, stanno in questo istante sussurrando nelle nostre orecchie i segreti di un milione di età passate. In poche parole, gli eventi che ai quali oggi assistiamo, in quei mondi, sono gli stessi eventi che interessarono i loro abitanti diecimila secoli fa (…) quest’idea si impone all’anima, più che alla mente”. 

La spiegazione di Poe del paradosso di Olbers è davvero anticipatoria: 
“Se la successione delle stelle fosse senza fine, allora il fondo del cielo si presenterebbe come una luminosità uniforme, come quella mostrata dalla Galassia [la Via Lattea, ndr], dato che non ci sarebbe assolutamente alcun punto, in tutto il cielo, nel quale non esisterebbe una stella. La sola maniera, perciò, con la quale, in questo stato di cose, potremmo comprendere i vuoti che i nostri telescopi trovano in innumerevoli direzioni, sarebbe supporre che la distanza del fondo invisibile sia così immensa che nessun raggio proveniente da esso ha potuto finora raggiungerci”. 


L’universo non è eterno, non è infinito, i corpi celesti si evolvono e la luce delle stelle più lontane non ha ancora avuto il tempo di raggiungere la Terra. In effetti, William Thompson, Lord Kelvin, nel 1901 analizzò dal punto di vista quantitativo il legame tra la parte di cielo coperta di stelle e la sua luminosità relativa, concludendo che per avere un cielo continuamente brillante come la superficie del Sole, sarebbe necessario considerare tutta la luminosità stellare fino una distanza talmente elevata da non poter essere stata percorsa dalla luce, che viaggia a una velocità finita. La realtà è che l’universo è troppo giovane e non contiene abbastanza materia-energia per illuminare il cielo anche di notte. 

Eureka, se si escludono l’introduzione metafisica e la conclusione lirica, non è solamente un libro che incorpora l’astronomia del suo tempo, ma è un vero proprio testo astronomico scritto da un poeta con profonde conoscenze scientifiche. Esso si può quasi considerare un saggio di cosmologia newtoniana, anche senza matematica. Con un approccio molto personale e un linguaggio ricco di immagini, Poe in questo testo ha anticipato molte delle idee cosmologiche moderne.

Paolo Molaro, & Alberto Cappi (2015). Edgar Allan Poe: the first man to conceive a Newtonian evolving Universe CULTURE and COSMOS Volume 16 no1 and 2 (2012), pg 225-239, Nicholas Campion and Ralf Sinclair eds arXiv: 1506.05218v1

Una lettera di Caroline Herschel (1750-1848)

$
0
0

William è via, e sto osservando
i cieli. Ho scoperto
otto nuove comete e tre nebulose
mai viste prima dall’uomo
e sto preparando un Indice per
le osservazioni di Flamsteed, assieme
a un catalogo di 560 stelle tralasciate
dal British Catalogue, più una lista di errata 
in quella pubblicazione. William dice

che me la cavo con i numeri, così conduco
tutte le semplificazioni e i calcoli
necessari. Pianifico anche
il programma dell’osservazione
 di ogni notte, perché dice che il mio intuito
mi aiuta a dirigere il telescopio per scoprire
ammasso di stelle dopo ammasso.

L’ho aiutato a pulire gli specchi
e le lenti del nostro nuovo telescopio. È
il più grande che ci sia. Puoi immaginare
il brivido di volgerlo verso qualche nuovo
angolo dei cieli per vedere
qualcosa di mai visto prima
dalla terra? Mi piace davvero

che egli sia impegnato con la Royal Society
e il suo club, così quando
termino le mie altre faccende
posso passare tutta la notte a spazzare
i cieli.

Talvolta quando sono sola
nel buio, e l’universo rivela
un altro segreto ancora, pronuncio i nomi
delle mie lontane, perdute sorelle,
dimenticate dai libri che registrano
la nostra scienza –

         Aglaonice di Tessaglia,
         Ipazia,
         Ildegarda,
         Caterina Hevelius,
         Maria Agnesi

– come se le stelle stesse potessero ricordare.

Sapevi che Ildegarda
propose un universo eliocentrico
300 anni prima di Copernico? Che
scrisse di gravitazione universale 500 anni
prima di Newton? Ma chi l’avrebbe ascoltata?
era solo una monaca, una donna.
Qual è la nostra epoca, se quest’epoca è buia?
Riguardo al mio nome, anch’esso sarà
dimenticato, almeno non sono accusata
di essere una maga, come Aglaonice,
e i Cristiani non minacciano di
trascinarmi in chiesa, di uccidermi, come fecero
a Ipazia di Alessandria, l’eloquente, giovane
donna che ideò gli strumenti
usati per misurare accuratamente la posizione
e il moto dei corpi celesti.
Per quanto a lungo si viva, la vita è breve, così
lavoro. E per quanto l’uomo importante diventi,
egli è niente paragonato alle stelle.
Esistono segreti, sorella cara, e tocca
a noi rivelarli. Il tuo nome, come il mio,
è una canzone.
Scrivimi presto,
                             Caroline 


Siv Cedering (1939-2007) è stata una poetessa, scrittrice e artista americana nata in Svezia, che ha scritto e pubblicato in inglese e svedese diciotto tra romanzi, libri per bambini e raccolte di poesie, e quattro opere di traduzione. Numerose sue poesie e racconti brevi sono comparsi su prestigiose riviste e gli hanno valso numerosi riconoscimenti nelle sue due patrie. Suoi anche alcuni soggetti cinematografici.

In Letter From Caroline Herschel (1750-1848), una donna che si occupa di numeri e di stelle, in una lettera a un’altra donna (la sorella?), ricorda altre grandi donne che l’hanno preceduta. L’opera, scritta nel 1986, è comparsa nella raccolta Letters From the Floating World (1998). Il ritratto che la Cedering tratteggia di Caroline Herschel, sorella e collaboratrice del grande astronomo anglo-tedesco William, è quello di una donna e scienziata saggia, forte, determinata a conciliare la sua passione scientifica con le incombenze della vita quotidiana (“when I finish my other work I can spend all night sweeping the heavens”).

Non ho trovato una traduzione italiana della poesia, per cui ho dovuto compiere l’impresa senza essere un esperto. Qui sotto riproduco il testo originale, ad uso di coloro che vorranno emendare la mia opera, ai quali ricordo la frase che il diciottenne Samuel Taylor Coleridge scrisse al fratello George: “Ho tre validi campioni per difendermi dagli attacchi della Critica: la Novità, la Difficoltà e l’Utilità del Lavoro”.


Letter From Caroline Herschel (1750-1848) 

William is away, and I am minding
the heavens. I have discovered
eight new comets and three nebulae
never before seen by man,
and I am preparing an Index to
Flamsteed's observations, together with
a catalogue of 560 stars omitted from
the British Catalogue, plus a list of errata
in that publication. William says

I have a way with numbers, so I handle
all the necessary reductions and
calculations. I also plan
every night's observation
schedule, for he says my intuition
helps me turn the telescope to discover
star cluster after star cluster.

I have helped him polish the mirrors
and lenses of our new telescope. It is
the largest in existence. Can you imagine
the thrill of turning it to some new
corner of the heavens to see
something never before seen
from earth? I actually like

that he is busy with the Royal Society
and his club, for when I finish my other work
I can spend all night sweeping
the heavens.

Sometimes when I am alone
in the dark, and the universe reveals
yet another secret, I say the names
of my long, lost sisters, forgotten
in the books that record
our science--

         Aganice of Thessaly,
         Hyptia,
         Hildegard,
         Catherina Hevelius,
         Maria Agnesi

--as if the stars themselves could

remember. Did you know that Hildegard
proposed a heliocentric universe 
300 years before Copernicus? that she 
wrote of universal gravitation 500 years 
before Newton? But who would listen 
to her? She was just a nun, a woman. 
What is our age, if that age was dark? 
As for my name, it will also be 
forgotten, but I am not accused 
of being a sorceress, like Aganice, 
and the Christians do not threaten to 
drag me to church, to murder me, like they did 
Hyptia of Alexandria, the eloquent, young 
woman who devised the instruments 
used to accurately measure the position 
and motion of heavenly bodies. 
However long we live, life is short, so I 
work. And however important man becomes, 
he is nothing compared to the stars. 
There are secrets, dear sister, and it is 
for us to reveal them. Your name, like mine, 
is a song. 

Write soon, 

                                           Caroline 


Naturalmente non posso reclamare alcun diritto sull’opera, che è protetta da copyright secondo le leggi vigenti in Italia e negli Stati Uniti.

Indagine sull’assassino di Galois

$
0
0

L’episodio è noto: il 30 maggio 1832 il geniale matematico francese Évariste Galois, acceso militante repubblicano e non ancora ventunenne, fu ferito mortalmente in un duello che sapeva di perdere e morì il giorno successivo. Di quel celebre duello si è scritto molto, soprattutto sulle cause (questioni di cuore, ma si è parlato anche di una trappola tesa dalla polizia per sbarazzarsi di un estremista repubblicano o di un suicidio mascherato nella speranza di provocare un’insurrezione). Poco invece si è scritto sull’avversario, del quale persino le generalità sono rimaste a lungo incerte. Sull’argomento sono nate due scuole, che identificano l’omicida in un certo Pescheux d’Herbinville oppure in un enigmatico L. D.. 

La prima identità è fornita da Alexandre Dumas in una pagina delle sue Memorie
"Évariste Galois […] fu […] ucciso in duello da Pescheux d’Herbinville, […] affascinante giovane che faceva delle cartucce in carta di seta, legate con dei nastri rosa". 

Dumas segnala anche che Pescheux d’Herbinville ha subito un processo, che all’epoca fece sensazione. La lettura delle cronache della Gazette des tribunaux ci fa conoscere direttamente d’Herbinville: 
“Devo aggiungere [che le mie cartucce] erano proprio carine; perché tengo molto a essere curato nel mio aspetto, Signor Presidente, è la mia mania; anche la mia giberna, Signor presidente, è bella. Le mie cartucce erano fatte con carta verde satinata, mi ricordo anche che al corpo di guardia un artigliere mi disse di avere delle cartucce più belle delle mie: in effetti, erano ancor più graziose, carta rosa satinata, nastri di seta dello stesso colore”. (Si ride) - Gazette des tribunaux, 9 aprile 1831 
In quel mese d’aprile 1831, Pescheux d’Herbinville, 22 anni, artigliere della Guardia Nazionale, è accusato con diciotto altri militanti repubblicani, tra i quali Jules Sambuc, studente di diritto, e il medico Ulysse Trélat, presidente della Società degli amici del popolo, di complotto contro lo stato e di incitamento alla guerra civile. Nel corso del dibattito, egli ricorda la sua partecipazione alle “Tre Gloriose”, la recente rivoluzione delle giornate del 27, 28 e 29 luglio 1830 che ha deposto Carlo X e insediato Luigi Filippo. Si tratta di un “combattente di Luglio”, ferito durante la presa del Louvre, che ha assaltato qualche posto di guardia per procurare armi al popolo: 
“Rientrando, portai via un pluviale, fusi delle pallottole per tutta la notte. L’indomani mattina, mi presentai con qualche persona al posto di Mauconseil. Feci fuoco con le mie pistole, non sul funzionario, ma sulle finestre dell’edificio: il funzionario gettò le armi. Tutto il ponte si arrese. I miei camerati e io ci armammo con i fucili del posto. […] Ci dirigemmo verso il posto della Halle aux blés, allora occupato da alcuni gendarmi. Mi presentai solo davanti a loro; li esortai a non sparare contro dei fratelli e degli amici. […] ci impossessammo anche in quel posto di tutte le armi, e ci dirigemmo verso Place du Châtelet, dove cominciò il combattimento” - Gazette des tribunaux, 8 aprile 1831. 
La sua testimonianza è emozionante: 
Il giovane accusato, vestito con l’uniforme della guardia nazionale, si risiede in mezzo ai segni generali del vivo interesse che la sua calorosa dichiarazione ha appena suscitato nell’uditorio. Anch’egli è visibilmente emozionato, e i suoi occhi sono bagnati dalle lacrime – Ibid. 

Lui e i suoi compagni saranno dichiarati innocenti, cosa che, per lo scopo che ci interessa, ci importa meno del fatto che i giornalisti scrivano talvolta Lepescheux invece di Pescheux. Si contano almeno tre occorrenze di questa forma alternativa, ad esempio nel resoconto dell’udienza del 7 aprile della Gazette des tribunaux. Lo stesso Galois era talvolta chiamato Legallois ai suoi tempi. L’aggiunta dell’articolo trova probabilmente la sua origine nel discorso orale. Comunque sia, la manifestazione tangibile di questo Lepescheux d’Herbinville avvicina senza dubbio il suo nome a quello del misterioso «L. D.» al quale si è fatto cenno. 

Queste iniziali sono entate nel dibattito nel 1956, quando André Dalmas le ha scovate in un giornale di Lione, il Précurseur, alla fine di un breve articolo redatto all’indomani della morte di Galois:
PARIGI […] Corrispondenza particolare del Précurseur […] del giorno 2 [giugno 1832].  […] Un deprecabile duello ha portato via alle scienze esatte un giovane delle più grandi speranze, ma la cui celebrità precoce non richiama tuttavia che dei ricordi politici. Il giovane Évariste Galois, condannato un anno fa per delle parole pronunciate al banchetto delle Vendanges de Bourgogne, si è battuto con uno dei suoi vecchi amici, un giovane come lui, come lui membro della Società degli amici del popolo, e che, come ultimo rapporto con lui, era comparso ugualmente in un processo politico. Si dice che la causa del duello sia stata una questione d’amore. Avendo scelto la pistola, i due avversari hanno trovato troppo duro per la loro antica amicizia affrontarsi a viso aperto, e si sono rimessi alla cieca decisione della sorte. Ciascuno di essi era armato di una pistola, e ha fatto fuoco a bruciapelo. Una sola delle due armi era stata caricata. Galois è stato trapassato dalla pallottola del suo avversario; è stato trasportato all’ospedale Cochin, dove è morto dopo due ore. Aveva 22 anni. L. D., il suo avversario, è di poco ancor più giovane. - Le Précurseur, 4-5 giugno 1832 
Come è già stato fatto notare da tempo, alcune informazioni fornite dal giornalista sono inesatte: Galois non era stato condannato per l’episodio del brindisi al ristorante Vendanges de Bourgogne, bensì assolto dall’accusa di aver pronunciato parole minacciose contro il nuovo re; all’epoca del duello aveva 20 e non 22 anni; non morì due ore dopo il ricovero in ospedale ma vi aveva trascorso la notte; il rapporto dell’autopsia indica che la pallottola era stata sparata da 25 passi e non a bruciapelo.  
Dalmas pensò di intuire “Duchâtelet” dietro le iniziali L. D. perché, scrisse, “solo un giovane repubblicano figurò con Galois in un processo politico. È Duchatelet. Ciò a maggior ragione conferma l’iniziale D.” L’ipotesi non tiene, non fosse altro perché il nome di Duchâtelet era Ernest. Inoltre, l’autore dell’articolo segnala solo che l’avversario “era comparso ugualmente in un processo politico” e non “con Galois in un processo politico”. Tutto considerato, e tenuto conto delle inesattezze che lo costellano, l’articolo del Précurseur non conferma né smentisce l’informazione riportata da Dumas. 

Pare proprio che nessun altro documento dell’epoca contraddica lo scrittore. Lo stesso Galois, oltre ad accusare della propria imminente morte l’"infame civetta" (la donna oggetto del contendere con il suo rivale), dichiara di essere stato "provocato da dei patrioti". Il Moniteur del 7 giugno e il Journal des débats dell’8 indicano che il giovane “conosciuto per la sua esaltazione repubblicana” è morto “in un duello sostenuto contro un suo amico”. Fonti repubblicane evocano uno “scontro tra due membri della Società degli amici del popolo”. Una notizia anonima, riferita dal fratello di Galois, parla di una provocazione “da parte di uomini che aveva creduto suoi amici”


In effetti, un documento recentemente depositato alla Bibliothèque nationale de France si accorda con la testimonianza di Alexandre Dumas. Si tratta di una copia della Costituzione del 1791 sulla quale si trova la nota “Questo manoscritto mi è stato regalato da Gallois, ucciso in duello da Pécheux d’Herbinville, coimputato di Sambuc nel processo dei 19 patrioti del 1831 a Parigi. S. Larguier”. Ora, questo Larguier, o precisamente Samuel-Louis Larguier des Bancels, era uno svizzero che studiava medicina a Parigi. La sua corrispondenza, per quanto non menzioni le esatte circostanze del duello, indica almeno che conosceva Galois. 

La presenza di Pecheux è attestata a Parigi nel 1832 dal duello con Galois e dai resoconti del processo ai 19 repubblicani. Dopo questi fatti, i biografi di Galois sembrano disinteressarsi di lui. Per avere maggiori informazioni, nel silenzio degli atti civili conservati nei registri municipali, conviene rivolgersi ai resoconti della cronaca di quegli anni turbolenti. 

Cerchiamo di compilare una scheda biografica del nostro uomo, che si chiama quindi Pecheux d’Herbenville, con tutte le variazioni ortografiche già viste. A undici anni era diventato orfano di padre; dai dieci ai diciannove anni ha frequentato in collegio degli “studi ordinari”, ai quali “ha aggiunto quelli di matematica”; è stato ammesso alla celebre scuola militare di Saint Cyr, ma, su consiglio del suo tutore, si è poi orientato verso il diritto e la pratica degli affari; è un eroe della rivoluzione del 1830, durante la quale è stato ferito; è un militante repubblicano, accusato con altri di complotto contro lo stato. All’apertura del processo, nell’aprile 1831 ha 22 anni; abita a Parigi in rue Culture Sainte Catherine, 12; ha il diploma di diritto ed è artigliere della seconda batteria della Guardia Nazionale. Inoltre, è un bel ragazzo, evita la pena di morte e viene dichiarato innocente. 

Nonostante queste notizie, la scheda di Pecheux d’Herbenville manca ancora di un elemento fondamentale per evitare gravi errori di persona: il suo nome di battesimo. Seguiamo allora la pista dell’eroe rivoluzionario: troviamo che, nella primavera del 1831, il governo di Luigi Filippo ha conferito una “Croce di Luglio” ai valorosi combattenti che gli avevano consentito di prendere il potere (anche se gli intenti di molti di essi erano assai più radicali). L’elenco dei decorati si trova negli Archivi nazionali e rivela finalmente anche il nome cercato: 
Commissione delle onorificienze nazionali 

Nomi dei cittadini che hanno meritato la decorazione speciale – Sesto arrond[issemen]

[…] 
Pecheux d’Herbinville, François Etienne, [nato il] 5 aprile 1809, [a Parigi], diplomato in diritto, rue Culture Sainte Catherine, 12 - Archives nationales, F 1d III, 39, Noms des citoyens qui ont mérité la décoration spéciale, 6e arrondissement. 
La data di nascita conferma le informazioni già note, ma, assieme al nome di battesimo, consente di indagare nei registri dell’anagrafe con maggiore precisione. Scopriamo allora che Pecheux d’Herbenville è un “figlio dell’amore”, legittimato dal successivo matrimonio dei genitori: 
Estratto dei registri degli Atti di nascita dell’anno 1809 
Il sette aprile milleottocentonove, alle ore 11 del mattino, atto di nascita di Etienne François, di sesso maschile, nato il cinque scorso alle 5 del mattino (…), figlio di François Pierre Pascal Pecheux detto Herbenville, commesso viaggiatore, di trentadue anni, nato ad Amiens, dipartimento della Somme, e di Antoinette Françoise Mallet, senza professione, di ventitre anni, nata a Marquéglise, presso Compiègne, dipartimento dell’Oise, domiciliata nella suddetta dimora, non sposata. 
Seguono le firme dei testimoni e la dichiarazione del padre che Etienne François è suo figlio. Allegata all’atto c’è anche una trascrizione dell’atto di matrimonio: 
In forza dell’atto di matrimonio tra i suddetti Pierre François Pecheux e Antoinette Françoise Mallet nel municipio del nono arrondissement di Parigi il quattordici novembre 1811, gli sposi hanno riconosciuto e legittimato un figlio di esso maschile, nato a Parigi il 5 aprile 1809, iscritto il 7 dello stesso mese nel[lo stesso] municipio [...] con i nomi di Etienne François, figlio del s[ignor] François Pierre Pascal Pescheux detto Herbenville [invece di Pierre François Pecheux] e di Antoinette Françoise Mallet. Parigi, addì 14 novembre 1811. 

Vediamo ora se è possibile aggiungere alla nostra scheda anche qualche informazione sulla vita matrimoniale di Etienne François. 

Il ricostituito stato civile parigino registra un solo matrimonio di Pecheux d’Herbenville, in data 1 giugno 1859, con una certa Lucie Marie Dorothée Pépin, nata in Guadalupa il 10 luglio 1814. Il nostro uomo ha appena compiuto cinquant’anni, non è più un giovanotto. Si scopre inoltre che il dossier non si limita al solo atto di matrimonio, ma è costituito da una serie di documenti, a testimonianza di un percorso matrimoniale complesso. Infatti risulta un primo contratto notarile di matrimonio nell’ottobre 1856, ma l’unione non si è realizzata […] per ragioni che è qui inutile ricordare”, seguito da una clausola del maggio 1859 che menziona l’esistenza di un figlio naturale, già riconosciuto in precedenza, che sarebbe stato legittimato dal matrimonio. Inoltre lo stato civile registra due figli della coppia: Étienne Lucien Auguste, nato nel 1839 e oramai ventenne, e Marie Mathilde Pauline, del 1843, di cui poi si perdono le tracce, forse a causa di una morte precoce. 

A complicare un po’ le cose si scopre un precedente matrimonio del nostro uomo, da cui sono nati i figli Lucien Étienne nel 1845 e Léon Alexandre nel 1849. La prima moglie si chiamava Marie Joséphine Jenny Deschamps, sposata il 27 luglio 1845, morta nel 1855 all’età di trent’anni in un sanatorio. I due figli di questo matrimonio erano stati poi affidati alla famiglia materna. Insomma, Pecheux d’Herbenville si era sposato prima con la madre dei suoi ultimi figli, poi con quella dei primi due. 


Paul Dupuy, uno dei primi biografi di Galois, aveva fatto notare che un certo Pecheux d’Herbenville era stato nominato nel 1848 “conservatore del castello di Fontainebleau” e lo identificava senza reticenze come l’avversario di Galois. Più precisamente, si trova che questo “conservatore” era stato inizialmente amministratore del castello di Compiègne per qualche mese nel 1848, per poi diventare amministratore e poi gestore di Fontainebleau, fino a metà aprile del 1850. Gli archivi di queste istituzioni sono scarni, e quelli nazionali riportano solo una corrispondenza di questo gestore con il ministero, ma le firme non portano l’indicazione del nome di battesimo. Particolare importante, questo Pecheux d’Herbenville assume l’incarico proprio all’avvento della Seconda Repubblica e il ministro dei Lavori Pubblici era allora Trélat, uno dei coimputati nel processo del 1831.

In quegli anni Pecheux d’Herbenville pubblica alcuni piccoli opuscoli, tra i quali una nota sulla creazione di una colonia in Algeria, in cui si presenta come “ex segretario dell’ingegnere, capo servizio dei lavori pubblici in Africa”. 

In precedenza, nel 1835, un Lepescheux d’Herbinville, che potrebbe essere il nostro uomo, trascrive dei manoscritti per conto di Adrien Bergrugger, un filologo socialista, il quale comunica a un corrispondente inglese che il suo copista “non potrà più fare delle copie, visto che parte per un viaggio di assai lunga durata”. Si noti che Bergrugger poco più tardi sarebbe partito per l’Algeria, dove avrebbe effettuato numerose spedizioni archeologiche che gli sarebbero valsi onori e celebrità. Non si può escludere che anche Pescheux abbia trascorso un certo periodo in Algeria. 


Una notizia ancora più incerta riguarda un altro soggiorno all’estero, perché può darsi che, come altri repubblicani, l’amministratore di Fontainebleau si sia rifugiato temporaneamente a Bruxelles all’inizio del Secondo Impero. Nel 1853, riferendo di uno spettacolo tenuto presso la casa di Alexandre Dumas, che allora soggiornava nella capitale belga, un cronista menziona la presenza di un certo Pescheux, amministratore. 

Per tornare a informazioni più sicure, Pecheux d’Herbenville nel 1845 si dichiara “proprietario” sull’atto di nascita di suo figlio Lucien Étienne. Infatti, possiede allora un immobile a Pré-Saint-Gervais, acquistsato due anni prima e nel quale vive la famiglia della moglie, e che venderà in parte nel 1847. Sarà proprietario di altri immobili, e venderà dei terreni della seconda moglie a Pecq, piccolo comune sulla Senna vicino a Parigi, noto per il castello di Monte-Cristo, del quale è facile indovinare il primo proprietario... 

Sugli atti di vendita e su diversi altri documenti ufficiali Pecheux d’Herbenville si dichiara anche direttore principale dei lavori, ingegnere, ingegnere civile oppure, cosa che va sottolineata, geometra. 

Dopo la sua morte, la vedova, a causa della complessità matrimoniale già segnalata, farà fatica a far riconoscere la validità del matrimonio. Per nostra fortuna, la documentazione da lei prodotta a questo scopo cita la data e il luogo della morte, così possiamo completare la scheda del rivale e assassino di Galois: 
Addì 23 marzo 1871, all’una di sera, atto di decesso di François Etienne Pécheux-Herbenville, di anni sessantuno e undici mesi, vedovo in prime nozze di Deschamps (nomi di battesimo sconosciuti) e sposato in seconde nozze con Lucie Dorothée Pépin, senza professione, di circa sessant’anni, (...) Il detto defunto, nato a Parigi, residente a Pecq [...] è deceduto a Parigi [...] ieri alle due e mezzo di sera. Constatato da noi, ufficiale dello staso civile del 18° arrondissement di Parigi, su testimonianza di Adrien Talboutier [...] e di Etienne Lucien Auguste Pécheux-Herbenville, artista drammatico [...], figlio del defunto, i quali hanno firmato davanti a noi, dopo lettura [del presente atto].
L’avversario di Galois si identifica dunque come Étienne-François Pecheux d’Herbenville (Parigi, 5 aprile1809 – Parigi, 23 marzo1871).

L’algebrista Galois è stato ucciso da un geometra.

Fonti:

Olivier Courcelle - «L’adversaire de Galois (I)» - Images des Mathématiques, CNRS, 2015

Olivier Courcelle - «L’adversaire de Galois (II)» - Images des Mathématiques, CNRS, 2015

Il ritratto sbagliato di Legendre

$
0
0

L’opera del grande matematico Adrien-Marie Legendre (1752–1833) è assai nota, ma della sua vita si sa poco, perché era una persona estremamente riservata. Di lui disse Poisson, celebrandolo ai funerali: 
 “Il nostro collega ha spesso espresso il desiderio che, nel parlare di lui, ci si riferisca solamente alle sue opere, che sono, in verità, tutta la sua vita.” 
Non sorprende pertanto che si conoscano pochi dettagli della sua giovinezza. Più sorprendente, quasi incredibile, è il fatto che per quasi cent’anni, fino al 2005, ci si sia sbagliati sulle sue fattezze. Il famoso ritratto che ha accompagnato articoli, saggi, voci di enciclopedie sull’opera di Legendre per tutto questo tempo non è infatti il suo. Si tratta invece del ritratto di un politico suo omonimo e contemporaneo, Louis Legendre, che partecipò attivamente alla Rivoluzione Francese, ma che di Adrien-Marie non era neppure parente. 


L’errore è stato rivelato solo con l’avvento della rete che, attraverso i suoi potenti motori di ricerca, ha facilitato grandemente l’arte di raccogliere informazioni. È stato così che due studenti dell’Università di Strasburgo, attorno al 2005, si resero conto che lo stesso ritratto accompagnava le biografie di due persone diverse. La loro scoperta fu messa sul sito del dipartimento di matematica alsaziano e l’errore fu confermato e attivamente discusso dalla rete dei blogger francesi che si occupano di matematica. 

Scoperto l’errore, ci si chiese subito di chi fosse il ritratto: del matematico o del politico? Fu ancora la collaborazione in rete che consentì infine di individuare una raccolta del 1833 di ritratti dei contemporanei realizzati dal litografo François-Séraphin Delpech (1778–1825). Sotto ogni ritratto è presente il cognome e una firma. La firma che compare sotto il ritratto, Legendre, è diversa da quella di Adrien-Marie, che si firmava LeGendre (come si può vedere in calce a una lettera del 1829 indirizzata a Jacobi), ma tale differenza non è stata notata per lungo tempo. Il libro contiene ritratti di matematici come Lagrange, Monge, Carnot e Condorcet. Tutti erano figure pubbliche, noti anche al di fuori dell’accademia. Poiché nel 1791 Legendre aveva fatto parte del comitato per l’unificazione dei pesi e delle misure, è facile capire come il ritratto possa aver tratto in inganno i matematici che anni più tardi vi si imbatterono. 


Louis Legendre (ca. 1755–1797) era un macellaio di Parigi che, durante la Rivoluzione, prese parte alla presa della Bastiglia e agli eventi successivi. Fu eletto deputato alla Convenzione Nazionale come membro della corrente radicale dei montagnardi, tra i quali militavano Danton, Marat, Robespierre e Saint-Just. Contribuì alla caduta dei girondini e votò per l’esecuzione del re. Lo troviamo in un ritratto di gruppo del 1793, estremamente somigliante al ritratto realizzato dalla mano di Delpech. 


Sistemato Louis, restava da cercare il vero ritratto di Adrien-Marie Legendre: se mai fosse esistito, perché la sua riservatezza potrebbe averlo indotto a non posare mai davanti a un artista, e la fotografia non era ancora stata inventata. Le ricerche, diventate febbrili, hanno raggiunto un risultato nel 2008, quando si è scoperta nella biblioteca dell’Institut de France di Parigi una rara collezione di 73 caricature di membri dell’Istituto, realizzata da Julien-Léopold Boilly (1796–1874) e mai conclusa. La raccolta era stata in mani private fino al 2001, quando fu donata all’Istituto dall’ultimo proprietario, che l’aveva comprata due anni prima a un’asta di Christie’s. 


Uno degli acquerelli mostra i volti di Legendre e Fourier, con i corpi solo abbozzati a matita. I nomi dei due matematici sono scritti sotto il disegno. Sembra che l’artista si sia divertito a mettere in contrasto le personalità dei due: Fourier è grasso e allegro, Legendre magro e arrabbiato. Fourier assomiglia ai ritratti già conosciuti, quindi si può pensare che ciò valga anche per Legendre. 

Una caricatura è quindi la sua unica immagine che possediamo.


Carnevale della Matematica n. 88

$
0
0

Benvenuti al Carnevale ferragostano, che si colloca in un periodo di meritate vacanze e, quest’estate, anche di caldo insopportabile, il che avrebbe potuto diminuire la prolificità dei contributori. Invece no! Anche questa edizione è ricca e succosa, come un frutto di stagione! 

Secondo tradizione, andiamo prima a vedere quali sono le caratteristiche del numero che celebriamo, l’88 (di sfuggita faccio notare che tra un anno esatto il Carnevale celebrerà la sua edizione n. 100, un traguardo prestigioso per il Carnevale scientifico più antico nel nostro paese). 

Il numero 88 si fattorizza come 2³ x 11, che, nella Poesia Gaussiana, corrisponde al verso “canta, canta, canta all’alba”. Dioniso, prezioso come al solito, ci fornisce la cellula melodica:

 

I suoi divisori sono 1, 2, 4, 8, 11, 22, 44, 88: sono otto, quindi si tratta di un numero rifattorizzabile o numero tau, perché è divisibile per il numero dei suoi divisori. La somma dei suoi divisori propri è 92: si tratta di un numero abbondante. Il nostro 88 è anche un numero semiperfetto e intoccabile, in quanto non è la somma dei divisori propri di alcun altro numero. Si tratta anche di un numero poligonale, più precisamente di un numero esadecagonale: rappresentando le sue unità come pallini, questi possono essere disposti a formare un poligono regolare con sedici lati. Come scoprì il vecchio Eulero, l’88 è un numero idoneo, che non può essere espresso nella forma ab + bc + ac, dove a, b e c sono interi positivi distinti.

Essendo formato da due cifre identiche, nella notazione decimale è un numero palindromo e un repdigit, cioè un numero a cifra ripetuta. 

Fuori dalla matematica, in chimica l’88 è il numero atomico del radio (Ra), in astronomia è il numero delle costellazioni riconosciute dall’Unione Astronomica Internazionale. 88 sono anche i tasti del pianoforte. In una coppia di display a sette segmenti, l’88 compare quando tutti sono accesi. 

Il suo significato simbolico è fortemente ambiguo. Poiché la lettera H è l’ottava dell’alfabeto, per i neonazisti l’88 corrisponde a HH, che sono le iniziali del saluto “Heil Hitler”. Per fortuna, nelle culture orientali l’88 è un numero di buon auspicio. Presso i cinesi l’8 è il numero più propizio, e non è casuale che le Olimpiadi di Pechino si siano aperte l’8/8/08 alle 8 della sera. Sempre in Cina, 88 viene usato per dire bye bye negli SMS e nelle chat, in quanto in mandarino si pronuncia bā ba, che è abbastanza simile come suono. Per motivi diversi, ma convergenti, presso i radioamatori di tutto il mondo, l’88 conclude le comunicazioni tra amici in quanto vuol dire “Saluti e baci”. 


Questa edizione, data la sua collocazione stagionale, non ha un tema specifico. Si tratta di un Carnevale dai mille spunti e dalle mille sfaccettature. Passiamo in rassegna i contributi giunti.

Annalisa Santi è in vacanza in montagna, all’Aprica, e una bella escursione e la toponomastica gli hanno suggerito un dialogo inquietante con uno dei demoni più noti della mitologia, della letteratura e della televisione. La conversazione su certi numeri particolari, tra i quali il 666, è diventata l’articolo Belfagor e Annalisa........un dialogo surreale!, pubblicato sul blog Matetango.


Dal meritorio sito di divulgazione MaddMaths!, Roberto Natalini segnala i seguenti articoli:

Per Giovani Matematici Crescono, Maya Briani ha intervistato Elisabetta Rocca, che lavora al Weierstrass Institute for Applied Analysis and Stochastics (WIAS) di Berlino ed è professore associato in analisi matematica presso il Dipartimento di Matematica dell'Università di Milano. Elisabetta si occupa in particolare dello studio di sistemi di equazioni alle derivate parziali e delle loro applicazioni all’ingegneria, alla fisica e, più di recente, alla biologia. Ecco il link: Elisabetta Rocca: "al bivio tra le applicazioni e la matematica"

Nella rubrica Madd-Spot, curata da Emiliano Cristiani, troviamo Madd-Spot #3, 2015 - Forme ottimali in acustica, in cui si parla di chitarre acustiche. Eugenio Montefusco e Dimitri Mugnai ci spiegano come un buon modello fisico è la strada giusta per progettare strumenti dalle ottime sonorità. 

Per Alfabeto della Matematica, M come Multiscala, di Corrado Mascia, si occupa del lavoro con ordini di grandezza diversi. Talvolta un sistema di equazioni genera vertigini per via delle scale (temporali e spaziali, più che musicali) che si intrecciano e si rilanciano reciprocamente. Trascurare alcuni effetti è possibile, ma con troppe approssimazioni si corre il rischio di operare con un modello semplificato, che di scala ne ha una sola e più nessun rapporto con il reale. Occorre dunque cercare di preservare le scale, mescolate l'una con l'altra, e, tutt'al più, liberarsi di una scala corta, mantenendo memoria del suo contributo cumulativo in un intervallo di tempo sufficientemente lungo. 

Si sono appena conclusi a Kazan, in Russia, i mondiali di nuoto, che hanno dato grandi soddisfazioni ai colori italiani (e senza dubbio quella città avrà ricordato a tutti il nome di Nikolaj Lobačevskij). Un mese fa altre soddisfazioni sono giunte da Chiang Mai, in Thailandia, dove si sono svolte le 56-sime Olimpiadi Internazionali di Matematica (IMO), la più importante competizione matematica al mondo per studenti delle scuole superiori di secondo grado, cui quest'anno hanno partecipato 577 concorrenti provenienti da 104 nazioni. Ebbene, Amedeo Bianchi ci informa in Un oro e due argenti per l'Italia alle IMO della bravura dei nostri ragazzi. 

Gli ultimi due contributi di MaddMaths! sono una dimostrazione ulteriore dell’universalità dei campi applicativi della matematica.

C'è una branca della matematica chiamata "Topologia persistente" che ha applicazioni spesso sorprendenti all'analisi della forma e ai problemi di classificazione e recupero dei dati. In L'incredibile ubiquità della topologia persistente ci spiega  di che cosa si tratta Massimo Ferri, uno degli iniziatori di questa teoria.

Verso la fine degli anni Sessanta una particolare specie di bambù, Phyllostachys bambusoides, fiorì improvvisamente ovunque, nello stesso momento. Le foreste di questa pianta sbocciarono tutte insieme, in diverse parti del mondo, in perfetta sincronia anche quando erano separate da migliaia di chilometri. Questo comportamento è ora spiegato da un modello matematico. La matematica del bambù, curato da Alice Sepe, ci parla delle curiose relazioni tra i lunghi cicli di fioritura di queste piante.


Un blog collettivo, giovane e entusiasta, è Math is in the Air. Davide Passaro ha inviato i link di cinque articoli:

Suggerimenti di Letture Matematiche Estive: la divulgazione sotto l'ombrellone vi sarà utile se dovete ancora scegliere un libro da leggere durante le ferie e se fate parte di quella “coda di gaussiana” che conserva imperterrita l’abitudine di leggere: lo staff di Math is in the Air propone una selezione di libri di divulgazione scientifica (matematica e fisica) tra grandi classici e novità editoriali. Ce n’è per tutti gusti. 

I mestieri dei matematici di Andrea Capozio ha lo scopo di far ricredere coloro che pensano che i possibili futuri lavori di uno studente di matematica siano molto pochi. Un sito americano ne elenca almeno 46, ma “i possibili impieghi della matematica aumenteranno nel tempo e sempre più sarà necessario affidarsi a profili altamente specializzati; addirittura, alcune teorie matematiche al momento non applicabili (perché non supportate adeguatamente dalla tecnologia o perché ritenute troppo astratte) potrebbero un giorno portare alla nascita di nuovi mestieri nemmeno concepibili fino ad oggi”

Se vi piace vedere le cose da una prospettiva diversa, seguite il volo della mosca che racconta in prima persona di un bambino di nome René e del suo ruolo nella matematica. L'articolo La mosca di Renè: il piano cartesiano, di Fabrizio Calimera, è la prima puntata di una serie da seguire. 

Nunzia Marotta ci introduce nella meccanica quantistica con l’articolo La creazione passa per la distruzione... delle certezze: Meccanica Quantistica e Matematica. Dal modello atomico al dualismo onda-particella, dall’equazione di Schrödinger al principio di indeterminazione di Heisenberg, la matematica ci aiuta a capire che nell’estremamente piccolo non si può parlare di certezze, ma di modelli e interpretazioni. 

Infine, Fabrizio Bonesi, nel post dal titolo autoreferenziale e paradossale Questo post non parla di serie numeriche, ci parla dei paradossi di Zenone e delle serie numeriche, in cui spesso una serie infinita di addendi ha la proprietà di dare un risultato finito.


Parliamo ora del contributo di una vecchia volpe, scrittore e divulgatore originale, che questa volta, in Fragole +1, ha matematizzato una passeggiata in montagna con i bambini alla ricerca di fragole, proponendo un serissimo teorema. Avrete capito che sto parlando di Spartaco Mencaroni e del suo blog Il coniglio mannaro.

E che cosa succede da Gli studenti di oggi? Succede che Roberto Zanasi continua (e finisce) la serie Di altalene, molle e vasche da bagno dedicata ai fenomeni oscillatori: dopo aver parlato di attriti e oscillazioni, in questi due articoli prosegue il dialogo parlando di Oscillazioni forzate e Risonanza (e finalmente il bimbo dell’altalena entra nella vasca da bagno).


Pietro Vitelli, dal suo sito PVitelli.net di “cianfrusaglie infomatematiche e altre diavolerie”, ci segnala l’articolo La matematica dei Veda – Criteri di divisibilità. Vi si parla del testo Vedic Mathematics di Bharati Krishna Tirthaji, che contiene argomenti matematico-ricreativi legati all’aritmetica di base ed al calcolo numerico, che vanno da metodi di semplificazione delle 4 operazioni, ai criteri di divisibilità, al calcolo mentale, oltre ad artifici aritmetici vari. Pietro ha scelto la parte dedicata ai criteri di divisibilità e al metodo dell’osculazione.

Dallo specchio di Alice e il suo mondo alla rovescia, alla isomeria delle molecole, dalla trasformata di Fourier (del quale viene fornita anche una breve biografia), ai problemi di misura nella meccanica quantistica, in Attraverso lo specchioMauro Merlotti di Zibaldone Scientifico ci fa vedere come l’analisi non differenziabile possa essere applicata al Principio di indeterminazione di Heisenberg (che non si applica a tutte le possibili coppie di osservabili). Articolo dalle molteplici suggestioni, compresa una citazione finale di Marilyn Monroe.


Immancabile, Maurizio Codogno ha segnalato gli articoli frutto della sua mensile attività di divagatore e matematto

Sulle Notiziole troviamo le recensioni di The Mind's Best Work (un po' fuori tema, ma la creatività in fin dei conti è matematica); Che cos'è il calcolo infinitesimale(uno dei vecchissimi libri della collana Zanichelli "Matematica moderna") e Crimes and Mathdemeanors (gialli matematici scritti da un sedicenne americano). 

Per i quizzini della domenica (con risposta il mercoledì): Risposta senza domanda e Cartoline, entrambi assai intriganti.

Il post di "povera matematica"Fahrenheit mostra come, quando si traduce dall'inglese, forse è meglio applicare un po' il cervello (e avere un po’ di rispetto per i lettori).

Anche Sandro Magister arruola Kurt Gödelè un post di “povera matematica”. Il noto vaticanista, a supporto delle sue tesi contrarie all’eventuale riammissione al sacramento dell’eucarestia dei divorziati risposati, tira in ballo a sproposito i teoremi di incompletezza. Ebbene, come non concordare con .mau. che commenta “Insomma, lasciate stare la matematica quando si parla di teologia, occhei?”

Sul Post sono comparsi invece una pillola, Battaglia navale, su un software che dice qual è la mossa migliore statisticamente parlando (che non necessariamente è la migliore in assoluto), e un post, I (non) marines che si suicidano, in cui si mostra che i dati, anche se reali, sono sempre da prendere con le molle e guardando il contesto. Cioccolatisti morigerati, infine, è un gioco per cui si può trovare una strategia vincente senza eccessiva fatica. Se si inizia con calma a provare i casi facili magari può venire un’idea della soluzione. Tentar non nuoce.   


Per i Rudi Matematici, questa volta è stata simpaticamente Alice Riddle a segnalare i contributi. 

Con (non troppo) Evidenti ragioni di Simmetria [2]: Battiscopa continua la serie sulla teoria dei Gruppi, con la premessa dei tre post intitolati “A che punto è la notte” comparsi in precedenza. La maratona si fa lunga. Commenta Alice “Anche se in tanti hanno già letto tutta la storia completa nel nostro più famoso libro, troviamo sempre nuovi interessati”

Il problemino classico del mese è ispirato dai Canterbury Tales di Chaucer e ripropone, nonostante i problemi di traduzione dall’inglese medievale, L'enigma del Cavaliere di Dudeney. Sullo scudo ornato da 87 rose si tratta di tracciare tutti i possibili “quadrati perfetti” aventi una rosa nel vertice. Le risposte giunte sono già molte e differenti. Come al solito, i Rudi sperano nella rissa. 

Il post di soluzione del problema pubblicato su Le Scienze si intitola Il problema di luglio (563) - Angoli da smussare: si tratta di un post un po’ atipico, che contiene la risposta alla domanda che si può così sintetizzare: dato un generico poligono regolare, volendo smussarne le punte angolose e sostituirle con archi di cerchio, come devono essere costruiti tali archi se si vuole massimizzare il rapporto area/perimetro? 

Enludopedia (accessibile dalle ore 7:00)è un gioco con le carte per niente classico, che si può praticare come solitario oppure con un avversario. Le varianti sono molte, e dipendono anche dal tipo di mazzo di carte utilizzato e dalle dimensione della “siringa”: come si vede, conviene far riferimento al glossario iniziale per capire le regole del gioco. 

Infine, i Rudi Mathematici (questa volta corredati di acca) comunicano di aver compiuto il loro miracolo mensile, che ad agosto è ancora più miracoloso del solito. Oramai più famoso di quello di San Gennaro, è infatti miracolosamente uscito il numero 199 della bimillenaria e-zine.


Annarita Ruberto segnala un grazioso e utilissimo contributo da Matem@ticamente: Dal Problema all'Espressione...il Senso È Stato TrovatoSi tratta di consigli didattici, in chiave un po' ironica, accompagnati da qualche esemplificazione, fornita dagli alunni.

Concludiamo la rassegna del Carnevale n. 88 con i contributi di Gianluigi Filippelli, comparsi su Dropsea

Cos'è lo spin semi-intero racconta lo spin dei fermioni (una grandezza fisica) utilizzando la teoria dei gruppi (una branca della matematica). Attenti a dire che lo spin è analogo alla rotazione di una pallina intorno al proprio asse! 

Paperino nel regno della matematicaè “un post estivo” (cit.), con bonus sulle radici quadrate, in cui si esamina la versione a fumetti del cortometraggio Paperino nel mondo della Matemagica. L’insegnamento di questa storia, pubblicata in Italia nel 1960 su Topolino n. 233, è che “in matematica tutto è possibile!”

Non ci sono, come qualcuno avrà notato, post dal mio blog Popinga. Riferendomi a tutti i partecipanti, potrei dire con il Battista che “Egli deve crescere e io invece diminuire”, ma non sarei del tutto sincero. Preferisco piuttosto fare riferimento ai risultati di uno studio scientifico sul “blocco dello scrittore” di cui parlai a suo tempo. Sono mie invece le immagini, in cui mi sono divertito a mescolare grandi film e matematica. 


Il Carnevale termina qui. L’appuntamento con il prossimo è fissato per 14 settembre. Il n. 89 (“monello”) sarà ospitato dagli amici di Math is in the Air.

Una sequenza che inganna

$
0
0
Disegniamo n punti su una circonferenza, in modo che, tracciando tutte le corde che collegano ogni coppia di punti, non ci siano all’interno punti comuni a più di due corde. In quante regioni viene suddiviso il cerchio? Vediamo. 

Per n=1 si ottiene una sola regione: 


Per n=2 si ottengono r= 2 regioni: 


Per n=3 si ottengono r= 4 regioni: 













Per n=4 si ottengono r= 8 regioni: 


Per n=5 si ottengono r=16 regioni: 


Capito come funziona? Sicuri? Perché se, avete ricavato che n punti danno luogo a r = 2n-1 regioni, avete sbagliato! 

Proviamo per n=6 e contiamo quante sono le regioni: sono 31, non 32! 


L’ipotesi che la relazione sia r = 2n-1è da scartare. In realtà la spiegazione corretta, di questo che è noto come problema del cerchio di Moser, è un pochino più raffinata: rè la somma dei primi 5 termini della riga n del triangolo di Tartaglia dei coefficienti binomiali.


I valori di r costituiscono la serie OEIS A000127

Formalmente il numero delle regioni r si calcola con la relazione: 


dove  è il coefficiente binomiale. 

Questo problema ha un grande valore didattico, perché mostra come prove limitate (magari anche con l’ausilio della potenza di calcolo dei computer) possano portare a risultati non corretti. Ecco perché in matematica si cerca sempre di trovare un prova generale di ogni teorema.

Le curve ellittiche e il gruppo E(Q)

$
0
0
Le curve ellittiche non rappresentano delle ellissi, ma si chiamano così perché sono descritte da equazioni cubiche, simili a quelle usate un tempo per il calcolo dei perimetri delle ellissi e delle lunghezze delle orbite dei pianeti. Esse sono curve algebriche di grado 3 nel piano proiettivo (dove non esistono rette parallele) complesso (dove tutte le equazioni corrispondenti alle curve “sono accettabili” e le curve possiedono sempre dei punti). Infatti il piano proiettivo complesso è ottenuto completando il piano usuale (reale) con punti “all’infinito” e punti a coordinate complesse; esso contiene il piano usuale. Per le curve ellittiche l'insieme dei punti (x; y) soddisfa l'equazione f (x; y) = 0, più un punto O, detto “punto all'infinito" o punto zero.

Ogni curva ellittica può essere scritta come la curva algebrica piana definita da un’equazione la cui forma semplificata (forma normale di Weiestrass) è:

y2 = x3 + ax + b

La quantità Δ= 4a3 + 27bè la discriminante della equazione ellittica. Se Δ≠0 la curva ellittica ha 3 radici distinte (reali o complesse). Se Δ=0 la curva ellittica è singolare, cioè presenta punti di singolarità. Ebbene, la curva deve essere nonsingolare, cioè non deve avere cuspidi o nodi (in ogni punto deve essere definita in modo univoco la sua tangente). Il numero delle radici determina la forma della curva, che comunque è sempre simmetrica rispetto all’asse x

Vediamo qualche esempio: Pery2 = x3x(Δ= –4), con 3 radici, si avrà:


Per y2 = x3 + x + 1; (Δ= +31), con una radice, si avrà:


Pery2 = x3; (Δ=0) si ottiene una “parabola cuspidata di Newton”, con una singolarità (cuspide), in cui non esistono tangenti: non è una curva ellittica nonsingolare.



Nel piano (proiettivo) ogni retta interseca la cubica in tre punti, contati con “molteplicità” (la secante ha in comune con la curva tre punti distinti; la tangente ha due punti per la tangenza più un terzo punto; la tangente in un punto di flesso ha tre punti coincidenti). 

L’interesse per le curve ellittiche nacque nel 1901, quando Henri Poincarè dimostrò che ad ogni curva ellittica è associato un particolare gruppo. Gli elementi del gruppo sono i punti della curva che hanno per coordinate dei numeri razionali. Indichiamo con E(Q) l’insieme della curva i cui elementi (x,y)∈ Q, ai quali dobbiamo aggiungere il punto all’infinito che giace su tutte le rette verticali. Affinché E(Q) sia un gruppo è necessario definire un operazione somma. 

In effetti è possibile addizionare i punti della curva ellittica come si fa per i numeri interi. Scegliamo due punti P e Q sulla curva e tracciamo la retta che passa per entrambi. Essa interseca la curva in un terzo punto R. Tracciamo ora la retta che passa per R e il punto O posto all’infinito. Questa seconda retta individua il punto R’, che è la somma di P+Q. E’ chiaro che P+Q=Q+P (vale la proprietà commutativa dell’addizione).


Se P≡Q, tracciamo la tangente nel punto, che incontra la curva nel punto R. Come fatto in precedenza, tracciamo poi la retta verticale che passa per R e il punto O posto all’infinito. Questa seconda retta individua il punto R’, che è la somma di P+P, perciò R’=2P.


Se si somma P a Q=(–P), la retta che li congiunge è perpendicolare all’asse, quindi “manda” al punto O, che è la somma. Si ottiene R’=P+(–P)=O.


Avendo definito l’addizione, possiamo dire che (E(Q),+) è un gruppo abeliano.

Le curve ellittiche sono molto importanti in crittografia e soprattutto nella teoria dei numeri, dove costituiscono uno dei campi privilegiati della ricerca attuale. Esse furono utilizzate da Andrew Wiles per la dimostrazione del cosiddetto “ultimo teorema di Fermat”, di cui è meglio parlare un’altra volta, perché non può essere contenuta nel margine troppo stretto di questa pagina.

Il poema algebrico di Ibn al-Yāsamīn

$
0
0
L’epoca più luminosa della dominazione araba in Occidente fu quella degli Almohadi (1146-1248), che vide l’unificazione in uno stato potente dell’Africa nord-occidentale e della parte meridionale della penisola iberica, al-Andalus. Durante questo periodo continuò la tradizione di studio del pensiero classico avviato in precedenza e fiorirono l’architettura, la filosofia (basti pensare alle figure di Averroé e dell’ebreo Mosé Maimonide) e la matematica, anche se ci sono giunte solo poche opere o commentari relativi a quattro autori: Abū ‘l-Qāsim al-Qurashī (m. 1184), Abu Bakr al-Hassar (attivo intorno al 1175), Ibn al-Yāsamīn (m. 1204) e Ibn Mun’im al-Abdari (m. 1228).


Interessante è soprattutto il terzo di questi matematici, Ibn al-Yāsamīn, che nacque probabilmente a Fes, in Marocco. Secondo i suoi biografi, sua madre, che di nome faceva Yāsamīn (fiore di gelsomino) era nera (tratto che egli ereditò) e suo padre era un berbero. Versato in molte discipline, si affermò inizialmente come giurista e documentalista, poi come matematico (logica, geometria, astronomia, astrologia e soprattutto aritmetica e calcolo), essendo pure un poeta di talento. Si sa che visse per un certo periodo a Siviglia, dove probabilmente si perfezionò in matematica, e poi tornò nel Maghreb stabilendosi a Marrakesh, capitale della parte africana dell’impero degli Almohadi, dove morì nel 1204, assassinato sulla porta di casa. 

Le fonti contemporanee nulla dicono riguardo a un’opera in prosa di Ibn al-Yāsamīn, intitolata Talqīh al-afkār bi rushūm hurūf al-ghubār (“Fecondazione degli spiriti con i simboli delle cifre di polvere”, dove queste ultime sono le antenate di quelle che oggi chiamiamo cifre arabe), riscoperta solo nel secolo scorso. Quest’opera, consistente di più di 200 fogli, nelle intenzioni dell’autore, era concepita come un manuale per principianti, in cui era riunito l’essenziale di ciò che si doveva sapere dell’aritmetica degli interi, delle frazioni e delle radici quadrate. Secondo la prassi medievale, erano presentati diversi problemi di cui si forniva la soluzione con diversi metodi: numerici, doppia falsa posizione, algebrici. C’era anche un capitolo sulla geometria, in particolare sul calcolo delle aree. La sua importanza risiede sia nella natura degli argomenti trattati sia in quella degli strumenti matematici utilizzati.

La fama di Ibn al-Yāsamīn è però legata a un breve poema didattico di 54 versi, intitolato Urjūza fī l-jabr wa l-muqābala (Poema sul completamento e il bilanciamento), che ebbe larga diffusione sia in Occidente che nell’Oriente musulmano. Il biografo Ibn al-Abbār dice che, intorno al 1190-91, egli lo recitò, insegnò e commentò per qualche tempo prima di traferirsi a Marrakesh. Fu probabilmente il successo di quest’opera che lo incoraggiò a scriverne un altro di 55 versi sulle radici quadrate, e un terzo di soli 8 versi nel quale esponeva un metodo di doppia falsa posizione (regula falsi) per determinare grandezze proporzionali. Purtroppo queste opere non ci sono giunte e le fonti sono scarse. 

I poemi didattici facevano parte di un nuovo genere di manuali, i mukhtaṣarāt (compendi), che potevano essere anche in prosa. Si trattava di testi molto concisi, che condensavano delle conoscenze in frasi facili da tenere a mente, contenenti la terminologia e le regole utili. Il loro scopo iniziale era di aiutare gli studenti alla fine di un particolare corso di studi a ricordare termini e regole da usare direttamente per la risoluzione dei problemi. In seguito, al pubblico degli specialisti si aggiunse quello degli intellettuali in genere, desiderosi di apprendere in modo rapido i rudimenti di una disciplina, al punto che essi divennero più diffusi delle opere più dettagliate e tecniche. Un ruolo fondamentale era affidato all’apprendimento a memoria, in cui la comprensione era spesso assente e che richiedeva spiegazioni più dettagliate. Di esse si occupavano gli insegnanti che, dopo aver fatto recitare un passo del testo, lo spiegavano in lunghi commentari. L’importanza di questi compendi incominciò a essere contestata alla fine del ‘400, quando lo storico magrebino Ibn Khaldūn li giudicò pericolosi per una sana pedagogia utile a un reale apprendimento. 

L’urjūza di Ibn al-Yāsamīn è organizzato secondo uno schema piuttosto comune: dopo le preghiere e i ringraziamenti, il poeta matematico introduce dapprima la terminologia algebrica, seguita dagli algoritmi di risoluzione delle equazioni canoniche, dalle regole di calcolo delle espressioni algebriche e infine da una preghiera conclusiva. 

Il poema si colloca in una tradizione algebrica araba consolidata. L’autore non cita alcun predecessore, ma, nel Talqīḥ al-afkār segnala che egli non si è dilungato sugli irrazionali perché questa parte è sviluppata ampiamente nei libri di algebra, segno che i testi algebrici dell’oriente musulmano erano conosciuti nell’al-Andalus

Si conoscono oggi almeno 13 commentari al testo di Ibn al-Yāsamīn, dei quali molti sono stati pubblicati. In un commentario molto elaborato è arricchito dagli apporti di algebristi arabi orientali e occidentali, Ibn al-Hā’im constata che l’urjūza, imparato a memoria, necessita di spiegazioni e illustrazioni dettagliate. In effetti la trattazione è molto concisa, ed è evidente che si propone più come strumento di ripasso per chi è già informato della materia che come opera di divulgazione per i non addetti. Il poema ha continuato a essere insegnato fino al XVII secolo al Cairo ed è stato commentato fino al 1863.


Traduzione e spiegazione del Urjūza fī l-jabr wa l-muqābala 

 Nel prologo, al-Yasamin ringrazia e nomina il suo maestro, presso il quale aveva studiato a Siviglia, e chiarisce lo scopo dell’opera, vale a dire fornire un compendio dell'algebra in versi rajaz. Il metro rajaz della poesia araba consiste di versi composti da 24 sillabe, divisi in due emistichi di 12, con una cesura a metà. I due emistichi rimano tra loro. Ogni emistichio contiene tre piedi simili, di quattro sillabe ciascuno. La terza sillaba non è accentata, le altre sì: “dum-dum-di-dum”. Nella metrica classica corrisponde all’epitrito terzo.

1. Sia lode a Dio per tutto ciò che ha ispirato / e offerto come insegnamenti e spiegazioni. / 
2. Che le molteplici benedizioni di Dio siano accordate eternamente al Profeta Maometto. / 
3. I miei ringraziamenti (vadano) al brillante, intelligente ed erudito / Muhammad Ibn Qāsim nostro maestro. / 
4. Egli ha chiarito ciò che poneva un problema, / e reso comprensibili e facili le sconcertanti sottigliezze. / 
5. Che Dio lo ricompensi per questo / e lo retribuisca nell’Aldilà. / 
6. Incaricato da colui che ha bisogno d’essere aiutato, / e da chi non vedo alcun modo di contrariare, / 7. Di chiarire l’algebra con una presentazione / sotto forma di qualche frase in versi, / 
8. Disposte in versi rajaz, / dai ricchi significati e i termini concisi. / 
9. Per quanto non abbia mai smesso di cercare di evitarlo, / non ho potuto far altro che mettermi all’opera; / 
10. (L’ho recitato, scusandomi, / perché il lettore perdoni ogni mancanza). / 


La terminologia algebrica illustrata nei quattro versi successivi è la stessa già utilizzata da al-Khwârizmî nel IX secolo, e che ritroveremo in Occidente presso Fibonacci e in tutto il periodo della cosiddetta “algebra retorica”. Al-jidhr (la radice) è l’incognita x, al-māl (il bene) è il quadrato dell’incognita, x2, e al-cadad al-muṭlaq (il numero assoluto) è la costante, che non dipende né dall’incognita né dal suo quadrato. Ibn al-Yāsamīn precisa che al-jidhr (la radice) e al-shay’ (l’incognita, la cosa) sono sinonimi. La parola kaab (il cubo), cioè la terza potenza dell’incognita, x3, è utilizzata solo al verso 46.

11. L’algebra si fonda su tre (specie): i beni (quadrati), i numeri, poi le radici (cose) / 
12. Il bene è ogni numero al quadrato, / e la sua radice uno dei suoi lati. / 
13. Il numero assoluto non ha alcun rapporto / con il quadrato e la radice. Comprendi ciò e giungi (alla meta). / 
14. Cosa e radice sono sinonimi, / esattamente come padre e genitore. /

Il nucleo centrale del poema illustra le sei equazioni canoniche. All'inizio della sua opera al-Khwārizmī distingueva sei tipi canonici o normali di equazione, che egli presentava come nello schema riportato sotto, che corrisponde, in notazioni moderne, alle equazioni in cui a, b, c indicano numeri interi positivi:

I. I quadrati sono uguali alle radici:                                  ax2 = bx 
II. I quadrati sono uguali a un numero:                            ax2 =
III. Le radici sono uguali a un numero:                            ax = c
IV. I quadrati e le radici sono uguali a un numero:          ax2+bx = c
V. I quadrati e i numeri sono uguali alle radici:               ax2+c = bx
VI. Le radici e i numeri sono uguali ai quadrati:              bx+c = ax2

Anche Ibn al-Yāsamīn distingue sei tipi di equazioni, distinte in due categorie: le tre equazioni semplici (cioè un monomio uguale a un monomio, vv. 17-22) e le tre equazioni composte (un binomio uguale a un monomio, vv. 23-39). Gli algoritmi di risoluzione di tutti i tipi di equazioni (semplici o composte) sono quelli di al-Khwārizmī, ma, mentre il matematico persiano utilizzava degli esempi numerici, Ibn al-Yāsamīn, come al-Karājī, descrive la procedura in termini generali.

15. Certe (specie) uguagliano un numero, / composto da altri, o isolato. / 
16. Ne risultano sei (tipi di equazioni), di cui la metà è composta / e (l’altra) metà è semplice, (tutte) ordinate. / 
17. Secondo l’uso corrente, il primo (tipo di equazioni) corrisponde a / dei beni (quadrati) che eguagliano delle radici. / 
18. E quando uguagliano dei numeri, / è (il tipo di equazioni) che segue. Comprendi ciò che stai cercando. / 
19. E poiché tu uguagli un numero a delle radici, / tu ottieni il tipo seguente, secondo ciò che è stato stabilito. / 
20. Dividi per i beni, se esistono; / ma, se sono assenti, dividi per le radici. / 
21. Sono quelle le equazioni semplici; / la loro soluzione è una radice, tranne che per l’equazione intermedia. / 
22. In questo caso, la soluzione è un bene, / e ciò tenuto conto della natura del problema. / 

Le risoluzioni delle equazioni semplici di cui ai vv. 20-22 sono:




23. Sappi, con la guida di Dio, che il numero / è isolato nella prima equazione composta. /
24. E, ugualmente, nel secondo tipo (di equazione), hanno lasciate sole le radici / e isolati i beni nel tipo che segue. /
25. Eleva al quadrato la metà delle cose, / e, con attenzione, aggiungi il risultato ai numeri. /
26. Della somma ottenuta, estraine la radice, / poi, sottraine la (detta) metà. Il suo segreto è così svelato. /
27. Il resto (della sottrazione) è la radice del bene. / questo è il quarto tipo (di equazione). /

La risoluzione del primo tipo di equazione composta (ax2+bx = c, vv. 25-27) è:


28. Dell’altra, dal quadrato sottrai il numero. / La radice del resto sarà utile in seguito. /  
29. Tagliala della metà delle sue radici. / Ma puoi anche scegliere di sommarla. / 
30. In un caso è la radice d’un bene per difetto, / e, nell’altro, la radice d’un bene per eccesso. / 
31. Se il quadrato è uguale al numero, / allora la metà (delle radici) senza diminuzione è la sua radice. 
32. E se esso è superato dal numero, / ti renderai conto che non c’è soluzione. / 

La risoluzione del secondo tipo di equazione composta (ax2 +cbx, vv. 28-32) è:


Se (b/2)2 > c (vv. 29-30) ci sono due soluzioni:
radice per difetto
radice per eccesso

Se (b/2) 2 = c (v. 31), la soluzione è:
Se (b/2) 2< c (v. 32), l’equazione non ha soluzioni. 

33. Siccome abbiamo terminato la risoluzione del quinto tipo, / spieghiamo la soluzione del sesto. / 34. Ai tuoi numeri, aggiungi il quadrato, / e di tutta la loro somma, estrai la radice. / 
35. Al risultato ottenuto, aggiungi la metà (delle radici): / ottieni la radice che cerchi. / 

La risoluzione del terzo tipo di equazione composta (bx+c = ax2, vv. 34-35) è:


Quando affronta la normalizzazione delle equazioni quadratiche, ad esempio il passaggio dall’equazione ax2 +bx=c all’equazionex2+b’x=c’, Ibn al-Yāsamīn propone due metodi, il primo dei quali utilizza la divisione per il numero dei beni, mentre il secondo utilizza il concetto di radice ausiliaria. I versi 36-37 sono dedicati alla normalizzazione classica. Un numero sconosciuto è in eccesso se il suo coefficiente è maggiore di 1; la frazione è incompleta se è minore di 1 (propria). Per portare il numero in eccesso all’unità si dividono tutti i membri delle equazione per il coefficiente di x2

ax2 +bx=→  x2 +bx/a = c/a    

quando≠ 1.

36. Riduci i beni in eccesso / e restaura le sue frazioni incomplete, / 
37. Per ricondurre tutti (i beni) a un bene unico, /e tieni conto di quest’ultimo nei calcoli rimanenti. /

Il metodo della radice ausiliaria, esposto nei versi 38-39, consiste nel moltiplicare il coefficiente a per il coefficiente c, ottenendo ca. Si cerca poi la radice (positiva) X0 dell’equazione ausiliaria X2 +bX = ca, designata come nadhīr al-jidhr (radice ausiliaria). La radice cercata xo si ottiene dividendo X0 per a, cioè x0 = X0/a

38. Oppure, moltiplica i beni per i numeri / e procedi, come in precedenza, / 
39. Dividendo la radice ausiliaria ottenuta / per il numero dei beni. Ne risulta la tua soluzione. / 



I versi 40 e 41 sono dedicati alle due operazioni di completamento e bilanciamento, quelle che hanno dato il titolo alla classica opera di al-Khwārizmī e anche a questo poema. Al-jabr (il completamento) in termini moderni designa l’operazione di eliminare le quantità negative che compaiono in uno dei membri dell’equazione aggiungendo l’opposto a entrambi i membri, mentre al-muqābala (il bilanciamento) è l’operazione di riduzione dei termini simili dello stesso grado. 

40. Ogni volta che introduci una sottrazione in un problema, / rendila abbondante nell’altro membro dell’uguaglianza; / 
41. Terminato il completamento, confronta / sottraendo ciascuna specie dal suo simile. / 

Dodici versi (vv. 42-53) sono infine riservati all’introduzione di vari termini dell’aritmetica delle incognite: le posizioni, il rango, il genere e la specie. La brevità del testo non consente al poeta di fornire delle definizioni formali: egli indica soltanto il contesto in cui il termine compare. Ad esempio, i termini genere e specie significano, in termini moderni, che due monomi, come axn e bxn, hanno la stessa incognita e lo stesso grado. 

42. Infine mi accingo a discutere delle posizioni, / in modo conciso, ma globale. / 
43. La radice viene per prima, seguita dal bene. / segue il cubo, che è autonomo. / 
44. A partire dai precedenti, si organizzano allo stesso modo / (le posizioni), qualsiasi sia il loro rango, e indefinitamente. / 

Riguardo alle posizioni, la radice è al primo posto, il bene (quadrato) al secondo, il cubo al terzo è così via. Si tratta quindi del grado del monomio.

45. Nelle moltiplicazioni, considera le posizioni (dei fattori), / tu conoscerai così il rango del loro prodotto. / 
46. (Segna) tre per ogni cubo ripetuto, / e due per il quadrato ogni volta che capita. / 
47. (E per ciascuna radice, conta precisamente uno. / i numeri non hanno alcun rango conosciuto). / 
48. Se moltiplichi un numero per una specie, / il risultato è, senza dubbio, quella stessa specie. / 
49. Nella divisione di due specie (dello stesso rango), / il quoziente è un numero, senza smentita. / 
50. Nella divisione di una specie per una di rango inferiore, / il quoziente si ottiene per differenza dei due ranghi. / 
51. (Per rango) voglio dire la sua posizione. / Il risultato della divisione (per una specie di rango superiore) resta l’enunciato iniziale. / 

Il rango di una specie è il numero associato alla sua posizione, in termini moderni il suo esponente. Il rango della radice (x) è 1, quella del bene (x2) è 2, quella cubo (x3) è 3, quella del bene-bene è (x2 x2) è 4, quella del bene-cubo (x2 x3) è 5, quella del cubo-cubo (x3 x3) o del bene-bene-bene (x2 x2 x2) è 6, ecc., secondo le regole per il prodotto (o la divisione) di potenze con la stessa base. Un numero assoluto non ha rango, cioè ha rango 0. Il verso 51 significa che se si vuole dividere ad esempio un quadrato per un cubo, il risultato si dirà “un quadrato diviso un cubo”, non essendo conosciuti gli esponenti negativi.

Nei versi 52-53 Ibn al-Yāsamīn espone la regola dei segni: se due quantità sono entrambe maggiori o minori di zero, il loro prodotto sarà positivo. Se invece sono di natura contraria (segni opposti), il risultato del prodotto sarà minore di zero.

52. La moltiplicazione del sovrabbondante o dell’incompleto / per un termine della stessa natura, appare sovrabbondante all’esaminatore. / 
53. La sua moltiplicazione per un termine di natura contraria è incompleta. / Capisci ciò. Che Dio ti guidi. / 

54. Infine, che le benedizioni di Dio e il suo saluto / siano sul Profeta così a lungo che l’oscurità si allontani. / 


Fonte principale: Mahdi Abdeljaouad, «Ibn al-Yāsamīn et son poème algébrique», Images des Mathématiques, CNRS, 2015

Un conflitto tra matematici e storici della matematica

$
0
0
“Da quel che abbiamo detto, risulta manifesto anche questo: che compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa e l’altro in versi (giacché l’opera di Erodoto, se fosse posta in versi, non per questo sarebbe meno storia, in versi, di quanto non lo sia senza versi), ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale poi è questo: quali specie di cose a quale specie di persona capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur ponendo nomi propri, mentre invece è particolare che cosa Alcibiade fece o che cosa patì”. (Aristotele, Poetica, libro IX). 

Quando Aristotele scriveva queste frasi, pensava a diverse e più ampie questioni che non il rapporto tra la matematica e la sua storia. Ciò nonostante, e forse senza sorpresa, le idee del grande filosofo sono utili anche per far luce in questo ambito più ristretto. 

Una connessione interessante tra la matematica e il brano di Aristotele è stata proposta negli anni '70 dal filosofo e storico della matematica israeliano di origine romena Sabetai Unguru, che ha sottolineato come la distinzione tra poesia e storia si ritrova anche quando si parla di storia della matematica. Le “cose accadute”, cioè il singolare, il peculiare, è l’oggetto della ricerca storica, e lo storico dovrebbe sforzarsi di capirlo e comunicarlo. Le “cose che potrebbero accadere”, in quanto “cosa più nobile e più filosofica della storia” non sono affare dello storico. Esse hanno invece a che fare, come la poesia, con le affermazioni di carattere generale, “secondo verosimiglianza o necessità”, cioè con le leggi matematiche.


Come la poesia, la matematica riguarda gli universali. Come la poesia, essa tenta di scoprire il comportamento di tale e tal tipo di ente universale in virtù del fatto che è ciò che è. Sia la poesia sia la matematica tentano di dire che cosa incarnano questi enti universali o di dire di loro che cosa è “possibile in quanto probabile o necessario”. Al contrario, la storia ha il compito meno entusiasmante di mostrare ciò che è accaduto realmente, non ciò che sarebbe potuto accadere. Solamente i dettagli noiosi e particolari di ciò che è davvero accaduto sono di interesse per la storia, e, mentre le idee universali possono indicare possibili direzioni di ricerca, esse non possono essere in alcun modo un sostituto dell’evidenza storica. 

Lo stesso Aristotele trovò necessario precisare che il confine tra l’approccio storico e quello poetico è piuttosto sfuggente. L’affinità tra matematica e poesia nel senso descritto sopra rende questa distinzione ancor più elusiva, come ha messo in luce l’analisi di Unguru. In effetti, nell’analisi della matematica del passato, i matematici si concentrano spesso sui concetti matematici, sulle regolarità o affinità sottostanti, con lo scopo di trarre conclusioni sulla relazione storica. L’affinità matematica nasce necessariamente dalle proprietà universali degli enti coinvolti e ciò è stato considerato suggerire un certo scenario storico che “avrebbe potuto essere”. Tuttavia, Unguru avverte, bisognerebbe essere molto cauti a non consentire a tali argomentazioni matematiche di portaci a confondere la verità storica (cioè le cose “come sono accadute”), che si può ricostruire solo attraverso la ricerca storica e i suoi metodi, con ciò che altro non è che un possibile scenario matematico. 

Il classico esempio di questo dibattito riguarda proprio una delle affermazioni storiche di Aristotele, e cioè che i Pitagorici scoprirono l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato. Il filosofo afferma che essi lo provarono per reductio ad absurdum

“Perché tutti coloro che fanno un ragionamento per assurdo deducono sillogisticamente ciò che è falso, e provano l’assunto originale quando qualcosa di impossibile risulta dall’ipotesi del suo contrario; ad esempio, la diagonale del quadrato è incommensurabile con il lato, perché i numeri dispari diventano uguali ai numeri pari, e si prova ipoteticamente l’incommensurabilità della diagonale in quanto risulta una falsità nel contraddirlo”. (Analitici primi, I, 23). 

Ora, guardando alla prova standard moderna della irrazionalità di √2, osserviamo che essa si accorda bene con la descrizione fornita da Aristotele, perché anch’essa si basa sull’assurdo che un numero assunto come dispari debba necessariamente essere pari. Questa affinità matematica è collegata al racconto di Aristotele (nell’approccio “poetico” della storia della matematica) con lo scopo di inferire la validità di un’affermazione puramente storica. Si desume perciò che i Pitagorici provarono l’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato esattamente come oggi si prova che la √2 è un numero irrazionale, ma in realtà non sappiamo come fecero esattamente. Secondo Unguru, perciò, questa conclusione è sbagliata e incarna una visione storiografica totalmente erronea. 

Un terreno privilegiato dello scontro di Unguru con il mainstream della storiografia matematica degli anni ’60-’70 riguardava le conoscenze algebriche degli antichi greci, in particolare quelle di Euclide. Così ad esempio sosteneva C. Boyer nella sua History of Mathematics, 1968: 

“Si é talvolta sostenuto che i Greci non ebbero algebra, ma ciò è chiaramente falso. Essi avevano il Libro II degli Elementi, che è algebra geometrica e aveva lo stesso scopo della nostra algebra simbolica. Non ci può essere alcun dubbio che l’algebra moderna faciliti la manipolazione delle relazioni tra le grandezze. Ma è vero senza dubbio che un geometra greco esperto nei quattordici teoremi dell’algebra di Euclide era molto più a suo agio nell’applicare queste teoremi alla misurazione pratica di quanto lo siano i geometri esperti di oggi.” 

Secondo le linee guida fornite dalla distinzione aristotelica, nel 1975 Unguru richiamò l’attenzione sulla “necessità di riscrivere la storia della matematica greca”, sostenendo che “La storia della matematica è storia, non matematica”. (S. Unguru, On the need to rewrite the history of Greek mathematics, Archive for History of Exact Sciences 15, 1975/76). La tesi principale dell’articolo è che in Euclide si trova della geometria pura e semplice: i matematici greci non utilizzavano alcun apparato di algebra simbolica. 

Tentare di spiegare Euclide come fa Boyer, secondo Unguru, è pericolosamente sbagliato dal punto di vista storico, perché si utilizzano concetti moderni che sono una descrizione falsa di una comprensione della matematica completamente differente. Si tratta di un anacronismo concettuale, che presenta il passato in funzione del presente. Così continuava, con chiaro spirito polemico: 

“... La storia della matematica è stata sempre scritta dai matematici... che o hanno raggiunto l’età della pensione e cessato di essere produttivi nei loro campi oppure sono diventati in qualche modo professionalmente sterili... Il lettore può giudicare da solo che saggia decisione sia per un professionista incominciare a scrivere la storia della sua disciplina quando la sua sola vocazione risiede nella sua senilità professionale”. 

Ciò provocò immediatamente critiche e reazioni avverse, soprattutto da parte di un vecchio matematico di spicco come André Weil, che scrisse una lettera avvelenata all’editor di Archive for History of Exact Sciences per sostenere i colleghi, anch’essi anziani e storici della matematica, Bartel L. van der Waerden e Hans Freudenthal nella loro accusa a Unguru di aver “tradito” Euclide per aver negato che potesse conoscere l’algebra. Weil chiedeva chi fosse il responsabile di aver permesso la pubblicazione di un simile articolo polemico e volgare. E che stava succedendo alla qualità della rivista? Il matematico francese concludeva con un attacco personale “... è bene conoscere la matematica prima di interessarsi della sua storia”. 

In un articolo di replica pubblicato su Isis, Unguru replicava a van der Waerden e Freudenthal, riservando il suo commento su Weil a una nota finale a piè di pagina, in cui perfidamente utilizzava le parole della sorella di Weil, Simone, grande filosofa, scrittrice e mistica: 

“Riguardo a questa lettera [quella di Weil alla rivista], meno se ne parla è meglio è. Nell’adottare questa posizione sono guidato dalle parole di Simone Weil nel suo sensibile e penetrante saggio sull’Iliade: “La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo, fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, perché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno”. E “l’uomo che non indossa l’armatura della menzogna non può provare la forza senza essere da lei toccato nel profondo. La grazia può evitarlo senza corromperlo, ma non può risparmiarlo dalla ferita” 

In modo elegante, Unguru rinfacciava a Weil l’uso della forza dell’autorità. Uno tra gli argomenti principali sottostanti la reazione dei matematici alle idee di Unguru riguardava proprio il problema dell’autorità per ciò che riguarda la conoscenza matematica. Questa autorità sembrava ora contestata da un outsider che osava mettere in discussione l’idea che di storia della matematica potessero occuparsi solo i matematici. Weil ebbe modo di sostenere questa idea al Congresso dei Matematici che si tenne a Helsinki nel 1978, con una relazione intitolata “Storia della matematica: perché e come.” In realtà il tono dell’intervento sembrava maggiormente rispondere non al perché è al come, ma al “chi” dovesse occuparsi di storia della matematica. “Quanta conoscenza matematica bisogna possedere per occuparsi della storia della matematica?”, domandò retoricamente, e nella risposta, come ci attendeva, un ruolo importante era affidato all’autorità: 

“Non c’è alcun dubbio che uno scienziato può possedere o acquisire le qualità necessarie per fare un lavoro eccellente nella storia della sua disciplina; tanto maggiore è il suo talento come scienziato, tanto migliore è probabile che sia il suo lavoro storico”. 

Come membro fondatore del gruppo Bourbaki, Weil aveva prodotto non solo molte delle idee di base della matematica bourbakista, ma anche della storiografia del gruppo, essendo quest’ultima uno degli esempi più salienti di ciò è stata polemicamente definita “la strada reale al genere personale di storiografia” (Ivor Grattan-Guinness). Secondo Weil, la buona storia della matematica si fa basandosi principalmente su considerazioni puramente matematiche e perciò deve essere fatta esclusivamente dai matematici, preferibilmente dai più importanti ed esperti (e magari francesi...). 


Nel corso degli ultimi quarant'anni, il genere di storiografia proposta da Unguru si è andata affermando, soprattutto nel caso dell’algebra e della geometria nella matematica greca. La maggior parte degli appartenenti alle nuove generazioni di storici della matematica ha accettato le idee e la metodologia proposte da lui e evita accuratamente di utilizzare argomenti matematici per “spiegare” la storia della matematica. Possiamo ad esempio considerare il tentativo di Saccheri di dimostrare il V postulato di Euclide come precursore della scoperta delle geometrie sferica e iperbolica, ma non possiamo evitare di considerare che egli lavorava in un contesto completamente euclideo (era un “gesuita euclideo”).

Chi fa storia della matematica deve conoscere la matematica (come anche chi scrive narrativa sulla matematica), ma non necessariamente dev’essere un matematico di professione. Concludo con una domanda: e chi fa divulgazione della matematica quali competenze deve avere?
Viewing all 399 articles
Browse latest View live